Metropoli e periferie della Repubblica Popolare Cinese sono in fermento da inizio novembre. Si protesta, talvolta con violenza, da Pechino a Ürümqi. Da alcune folle provengono invocazioni di libertà e anatemi contro Xi Jinping, che l’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese ha de facto trasformato in un imperatore a vita. Si manifesta nelle fabbriche e nelle università. Si sfidano i divieti di assembramento. Si affrontano senza timore i manganelli della legge. Ma nessuna Tienanmen è all’orizzonte.
Quello che sta accadendo in Cina è il prevedibile, e per certi versi inevitabile, ritorno di fiamma di tre anni di politica dello zero Covid. Lunghe chiusure seguite da brevi e limitate riaperture. Restrizioni liberticide succedute da moderati allentamenti. La quotidianità di decine di milioni di persone afflitta da una compressione semipermanente di basiche libertà. L’esplosione della bomba sociale era soltanto questione di tempo. Ma nessuna Tienanmen è all’orizzonte.
Contrariamente alla vulgata, si è davanti, nel migliore dei casi, a delle proteste che non superano i cinquemila partecipanti in città abitate da decine di milioni – numeri eloquenti. Numeri che impediscono di parlare di insurrezione, che tale non è in quanto priva anche di un altro elemento basico: il carattere nazionale. Le proteste, invero, sono in larga parte geolocalizzate e peraltro dovute ad una rabbia pre-esistente, che le politiche antipandemiche hanno prima esacerbato e dopo fatto esplodere. Si scende nelle strade di Shanghai, perché i suoi abitanti escono da un lockdown generalizzato di circa sei mesi e qui il nervosismo e la stanchezza sono più presenti che altrove. Si grida a Canton per gli stessi motivi di Shanghai. Si è manifestato a Zhengzhou, storica centrale della militanza operaia, più per i disaccordi con Foxconn che con Xi – come palesato dal modo in cui la crisi è rientrata. Ed è fuoco nello Xinjiang perché qui la pandemia non è stata altro che benzina sul fuoco delle sempreverdi tensioni interetniche.
Si protesta, talvolta duramente, ma nessuna Tienanmen è all’orizzonte perché, dal 1989 ad oggi, la Cina ha edificato l’impianto di telesorveglianza, censura digitale, repressione del dissenso e controllo sociale più esteso e avanguardistico – o distopico, a seconda del punto di vista – del pianeta. La rete può essere spenta da un minuto all’altro. Gli agitatori possono essere arrestati preventivamente. I dimostranti possono essere riconosciuti in tempi record dalle telecamere intelligenti. Nelle piazze si fa la rivoluzione, ma in Cina la questione è come raggiungerle.
La crisi di queste settimane rientrerà, così è, ma altrettanto certo è che la sua eredità rimarrà. Il suo lascito resterà con Xi, la cittadinanza e il mondo. Xi potrebbe perdere credibilità, a meno di una soluzione definitiva al problema Covid, presso quello stesso partito che gli ha appena conferito una corona a tempo indefinito. Il malessere di una cittadinanza stufa e bisognosa di ossigeno sarà zizzania che chi di dovere potrebbe essere in grado di raccogliere e utilizzare nel prossimo futuro per tentare di portare avanti delle operazioni di destabilizzazione. E nel mondo, infine, i rivali della Cina potrebbero dipingerla come una “potenza ipocondriaca”, sottintendendone l’inaffidabilità sia negli affari – Nuove vie della seta – sia nelle relazioni interstatali.
La classe dirigente cinese, tradizionalmente lungimirante, uscirà dalla crisi in punta di piedi, smantellando impercettibilmente la politica dello zero Covid pur senza rinnegarla. Come se nulla fosse mai successo. Perché riportare la pace in casa nel più breve tempo e nel più intelligente modo possibili equivale a potersi concentrare sull’unica arena che conta realmente: il mondo dilaniato da quella competizione tra grandi potenze che la Cina ha promesso a se stessa, giurando sulle vittime del Secolo dell’umiliazione, di vincere.