Le elezioni iraniane di marzo ancora risuonano di echi profondi; gli esiti delle urne, rafforzando il conservatorismo, hanno agevolato un andamento socio-politico intriso di terrore, lasciando un elettorato amareggiato in balia sia di una crisi economico-esistenziale sia della percezione di una soffocante anossia da negazione di diritti. È un momento di fughe per la sopravvivenza: il regista iraniano Mohammad Rassoulof, epigono della lotta culturale al governo degli Ayatollah, ne è un esempio, come ne è esempio inverso Tatyana Shevtsova, ex vice ministro del ministero della difesa russo, probabilmente rifugiatasi in Francia per evitare processi su sospette corruttele caratterizzanti il mandato Shoigu. È interessante vedere come il potere muti prospettive su questioni che si concludono con l’equanime sostanzialità di ripiegamenti indispensabili, magari con risvolti alla le Carré.
Quel che è certo, è che le esecuzioni in Iran non sono state interrotte da alcuna resipiscente moratoria; la storia insegna che la politica del terrore, nei suoi empiti più sfrenati, di solito uccide la propria ragion d’essere, l’Incorruttibile docet. La crescita economica iraniana rimane molto bassa con un’inflazione al 48%, accompagnata da una disoccupazione prossima alle due cifre. A marzo ha vinto la compagine che, pur priva di seggi, annichila il potere, quella dell’astensione, accompagnata da schede bianche o rese nulle dai nomi di attori e cantanti; a volerlo considerare un referendum consuntivo sulla bontà della politica governativa, si può ritenere che l’esecutivo sia andato sotto, pur assicurandosi, per mancanza di confronto, i voti indispensabili a governare. Non c’è dubbio che, entro questa cornice, l’improvvisa chiamata alle urne presidenziali abbia indotto i teocrati a rivedere le proprie strategie per una magistratura sì sottoposta al controllo della Guida Suprema, ma comunque rilevante sia in ambito interno per le varie nomine apicali specie se dotate di portafoglio, sia perché inerenti a gestioni bilancistiche di Stato, o di controllo militare e securitario, sia in politica estera.
Ovviamente i candidati, passati al vaglio del Consiglio dei Guardiani, che ha bocciato il troppo polarizzante Ahmadinejad, pur consci di ineludibili e poco santificanti dipendenze clericali direttamente connesse con gli apparati paramilitari dell’IRGC, non hanno potuto che confermare fedeltà ed esemplarità generalmente e benignamente riservate ai defunti, e soprattutto pedissequo rispetto per il defunto Raisi, la cui politica è stata tuttavia unanimemente riconosciuta come effigie di chiaro e clamoroso insuccesso. Bisognerà solo attendere che il velo di polvere delle montagne azere, sulle cui pendici si è schiantato un elicottero troppo vecchio per volare, venga nettato da un colpo di spugna capace di consegnare chiunque all’oblio della storia. I quattro candidati superstiti alla presidenza si sono votati alla mission impossible di disoccupazione e diritti delle donne condannate al fatal velo, inevitabile, divisivo e soprattutto a costo zero per un aspirante presidente, dato che inerisce ad una legge che solo il Rahbar può abrogare o modificare. Peccato per Narges Mohammadi, premio Nobel ancora detenuta, e attenzione per la mancata percezione del governo per un’evidente secolarizzazione non più così latente. Non è un caso che l’unico candidato riformista di basso profilo cui sia stato permesso di concorrere, Masoud Pezeshkian, abbia ottenuto così inattesi riconoscimenti; come non è un caso che la miopia politica dei principialisti, signori del più vieto personalismo, abbia favorito il temporaneo exploit moderato; beninteso, il medico Pezeshkian sa di avere le mani in ceppi, dato che l’assenso alla sua candidatura è considerato la mossa di un regime che sta tentando di evitare l’astensione di massa.
È quanto mai evidente che, trasformisticamente, che piaccia o meno, l’elettorato conservatore dovrà coagulare i propri voti sull’ultimo highlander rimasto. Attenzione però ai cigni neri, ovvero la reiterabile concretezza delle proteste dell’Onda Verde, ed il palpitante coraggio di un popolo che non ha avuto tema di manifestare per Mahsa Amini; un popolo che storicamente si è affidato a satira e commedia per esprimere doglianze. In ogni caso, in questo contesto è improvvido sottovalutare le organizzazioni paramilitari che, data la loro consustanzialità sia nell’azione repressiva interna, sia nella gestione economica di molteplici e proficue attività, continueranno a giocare un ruolo determinante estraneo a qualsiasi interesse per un regime change. Quale e quanta dovrebbe essere dunque la forza necessaria a mutare gli assetti di un deep state consociativo così articolato?
Basij e Pasdaran non sono Guardiani di mera forma, ma di concreta sostanza, ab-soluti dalle FA tradizionali e sostenuti dalle bonyad controllate da Khamenei secondo un paradigma che bypassa il controllo presidenziale permettendo di resistere (male) alla massima pressione economica americana post JCPOA, un sistema sanzionatorio non bilanciabile che ha morso a sangue il medio reddito, malgrado il sistema elusivo adottato nell’export petrolifero. Il grigio Raisi ha goduto di scarsissimo ascendente popolare, la sua morte ha suscitato il pungente sarcasmo di una società parcellizzata in frammenti generazionali non omogenei; la sua etichetta di macellaio per le migliaia di esecuzioni sommarie ordinate a Teheran, probabilmente ne avrebbe sconsigliato l’ascesa al soglio di Rahbar, ma non ha impedito che operasse per il consolidamento ultraconservatore e la scomparsa del fronte riformista. L’affluenza rimane il nervo scoperto; è un indicatore di malcontento che il regime sa di dover temere in funzione di legittimità e credibilità.
Se esiste qualcosa di affine ad un cerchio magico si sta restringendo, la parola d’ordine è continuità, in un contesto che, pur in assenza di un Presidente, ha comunque minacciato di annientamento Israele in caso di attacco al libanese Hezbollah. Sta arrivando un Presidente nucleare? Accertata la rapida capacità di arricchimento atomico della Repubblica Islamica, va comunque considerato quanto rimanga più concreto il vantaggio di rimanere una potenza a latenza nucleare, visto che il conflitto mediorientale ha comunque eroso la deterrenza regionale di Teheran, messa alla prova dall’estensione di un asse della Resistenza quanto mai impegnativo date estensione e difficoltà di controllo di formazioni geneticamente refrattarie a gerarchie stringenti e più congeniali a relazioni di potere orizzontale. Quanto è concreto il rischio di una dittatura militare di fatto? Molto. In attesa di un ballottaggio sorprendente, da un lato i conservatori agitano lo spauracchio pragmatista Rouhani, dall’altro l’ex ministro degli Esteri, il popolare Javad Zarif, appoggia l’outsider Pezeshkian, capace di mettere in difficoltà i pesi massimi Saeed Jalili e Mohammad Ghalibaf, quest’ultimo ormai fuori dalla corsa. Di fronte ad un elettorato apatico si ampliano da un lato le faglie interne ai Pasdaran ed agli attori coinvolti nella lotta per la successione a Khamenei, dall’altro la capacità di Pezeshkian di attrarre il segmento di elettorato esterno al fronte riformista; il rischio concreto che lo vincola, se l’ortodosso Jalili, detto gioiosamente il martire vivente, non riuscisse a catalizzare i voti dei conservatori, specie quelli del grande sconfitto Ghalibaf, entrato cardinale ed uscito umile chierico dal conclave elettorale, sarebbe quello di non riuscire comunque a spezzare il cerchio che stringe in una morsa l’Iran che, comunque, ha già chiarito di non gradire più ecclesiastici ai vertici. Se è vero che l’allure istituzionale è in decadenza, un’apertura politica improvvisa darebbe la stura a manifestazioni popolari capaci di mettere alla prova gli inediti Presidente e Guida Suprema.
La totopresidenza vede l’incombenza di un ballottaggio di fatto imprevedibile; fuori il favorito Ghalibaf, dentro il radicale Jalili, surrettiziamente appoggiato da Khamanei, aiutato dalla possibile elezione dell’oltranzista Trump ed opposto al riformista outsider metà azero e metà curdo Pezeshkian favorevole agli investimenti occidentali; da un lato un popolo inquieto e stanco, dall’altro la preservazione di un establishment sempre più orientato verso forme dittatoriali e latore di interessi immensi. Il mantenimento dello status quo lascia intatte prerogative e capacità dell’attuale regime, intento ad un’autoprotezione senza limiti; il cambiamento, che non potrebbe che essere lento e progressivo, prelude a sommovimenti e soprattutto alla decadenza di privilegi quarantennali. Di fatto, se mai c’è stato, è finito il tempo della creatività politica: la situazione è tale da ritrovarsi nell’aut aut del tertium non datur, che non può non tenere conto del potere della diplomazia nella soluzione delle diatribe in corso.
L’Iran, a prescindere da chi si aggiudicherà la posta, prenderà quindi una direzione diversa da quella di Raisi, fondandosi su una base tecnocratica e centrista votata alla stabilità in un paese teocratico attraversato dalla corruzione e soprattutto privo di personalità in possesso di chiare competenze economiche. Questo ballottaggio, quale segnale di discontinuità, è dunque quanto di più politicamente lontano possa esserci con la linea Rouhani o Khatami, anche perché incombono la successione di Khamenei e la concorrente volontà dei pasdaran di consolidare il loro potere. Ampliando il discorso, la riapertura delle urne, pur in un contesto di mantenimento della stabilità istituzionale, si presenta dunque quale contesa tra un’ala pragmaticamente idealista e un’altra più retrivamente conservatrice ed incapace di suggerire soluzioni percorribili; di per sé, solo non mediare le differenze intergenerazionali non può che condurre all’esplosione di un caos animato da scontri di potere all’interno di fazioni ufficialmente tra loro non antagoniste. Mentre si approssima la fine anagrafica dell’era Khamenei, si congetturano le possibili conseguenze dell’ipotetica caduta della Repubblica Islamica; se lo Stato sopravvive a guerra civile, balcanizzazione e spartizioni, si può dare per più che possibile una netta scissione tra laïcité e confessionalismo, cosa che, paradossalmente, riporterebbe Teheran all’ante 1979 ed ai contrasti insorti con la Rivoluzione Bianca dello Scià.