Ci sono situazioni dimenticate, in cui complessi eventi geopolitici fatti di rivolte, repressioni e tragedie si muovono silenziosamente, incidendo sul mondo e sulla sua struttura. Per capire come sia possibile un evento tanto estremo come il rapimento di un bambino da parte del governo di uno Stato, non si può prescindere dal rapporto che intercorre tra Cina e Tibet: una relazione coloniale non dichiarata.
Nella continua rivendicazione del Tibet come parte integrante della Cina, si inserisce un elaborato meccanismo di controllo culturale, politico, artistico e soprattutto religioso. Proprio nell’elemento religioso si fondano le radici del Tibet che, fino al 1950, anno dell’occupazione cinese, era una teocrazia buddhista. Per i Tibetani non c’è distinzione tra carica politica e religiosa, ciò che è spirituale è necessariamente politico e viceversa. Avere il controllo delle figure religiose tibetane significa avere il controllo del Tibet stesso.
Nel mondo Tibetano sono due le figure apicali: quella del Dalai Lama e quella del Panchen Lama. Tralasciando il lato spirituale della questione per concentrarsi sull’aspetto più burocratico, si vede come queste siano inscindibilmente connesse: ognuno riconosce la reincarnazione dell’altro. Questa pratica si basa sulla credenza che i grandi maestri spirituali, come il Dalai Lama e il Panchen Lama, si reincarnino consapevolmente per continuare a guidare il popolo. Dopo la morte, i monaci cercano indizi e segni mistici per trovare il bambino in cui si è incarnata l’anima del Lama defunto.
Una volta trovato il possibile candidato, l’altro Lama (ancora in vita) ha un ruolo decisivo: ne conferma l’autenticità, riconoscendolo ufficialmente. Il riconoscimento quindi è l’atto decisivo che convalida l’intero processo di individuazione della reincarnazione. È un passaggio imprescindibile, senza il quale il procedimento non può essere considerato valido.
Pechino nel lontano 1995, vedeva proprio nella figura del nuovo Panchen Lama un nemico da eliminare a qualsiasi costo; nella sua strategia machiavellica, l’impossibilità di avere un Panchen alleato avrebbe rappresentato un pericolo per l’intera strategia di controllo del Tibet.
Il governo cinese, di mentalità radicalmente programmatica, si sarebbe privata di una importante occasione: quella di poter nominare il Dalai lama, controllando così la figura più importante del mondo Tibetano.
Avvertita come una necessità politica, Pechino decise di agire ed in una mai chiarita operazione riuscì a rapire il bambino, considerato il più giovane prigioniero politico della storia. Dopo averlo definito come candidato “illegale e non valido” subito si è provveduto all’insediamento di un altro Panchen Lama di famiglia vicina al PCC: Gyancain Norbu.
Oltre alla deprecabile azione di rapimento, Pechino si impone sui sistemi di riconoscimento delle cariche Tibetane, senza subordinare la designazione del Panchen lama al riconoscimento del Dalai Lama (in esilio in India dal 1959).
Ancora oggi il popolo tibetano reclama a gran voce il ritorno della propria guida, Pechino cerca di rassicurare senza riuscirci, affermando solamente che è in salute, insieme alla sua famiglia e che non vuole essere visitato. A nulla sono valsi gli appelli della popolazione, scesa più volte in strada a protestare, a nulla sono valse ne petizioni delle organizzazioni per i diritti umani e tanto meno sono state utili le petizioni delle Nazioni Unite. La figura del Panchen Lama rimane avvolta nel mistero, quello che appare come un rapimento appare per Pechino un atto necessario per conservare l’integrità territoriale.
Il Tibet è per la Cina un territorio essenziale dove il controllo totale è un imperativo. Il rapimento si inserisce in un progetto politico che, visto dagli occhi della Cina, è necessario per acquisire e mantenere il dominio sull’Asia centrale: controllare pienamente il Tibet significa controllare questa parte di continente.
La Cina, quando agisce sul piano internazionale, si muove lentamente, in maniera fredda e lungimirante, e fin dall’occupazione del 1950 ha intravisto nel controllo del Tibet un necessario presidio strategico e geopolitico per la sicurezza dei suoi confini sud-occidentali e per garantirsi l’accesso a risorse naturali cruciali, da quelle idriche alle potenziali ricchezze minerarie, in un’ area al centro di contese internazionali e interessi regionali.
Da un punto di vista militare, il Tibet rappresenta per Pechino una piattaforma di osservazione e controllo sull’India: il grande rivale asiatico. Le catene montuose fungono da barriera naturale e negli ultimi anni si è vista un’ intensificazione della presenza militare a confine con l’India, con strade, basi e infrastrutture che permettono celeri movimenti delle truppe lungo la linea di demarcazione (gli scontri nella valle del Galwan ne sono un esempio).
Il controllo sul Tibet, il cui altopiano ospita le sorgenti dei principali fiumi asiatici, significa per la Cina potersi garantire l’approvvigionamento idrico e esercitare un’influenza strategica su gran parte dell’Asia meridionale. Non di meno, la presenza di elementi essenziali dal rame all’oro, al litio fino all’uranio, le permette di sfruttare tale ricchezza mineraria. Dal punto di vista cinese quindi ogni azione necessaria per il controllo della regione è legittima, questo perché subentra un principio tanto potente da scardinare qualsiasi discorso e ragionamento etico: la ragione di Stato.
Per la Cina ne va della sopravvivenza stessa della nazione, non esistono alternative al controllo totale, e se tra le varie azioni si rende necessario far sparire un simbolo della cultura tibetana, questo sarà considerato come un sacrificio inevitabile. La politica cinese sul territorio non si arresta ad azioni militari o di legittimazione politico-religiosa: va oltre. Per comprenderla è necessario ricorrere ad un termine che in Europa viene utilizzato in maniera impropria, ma che, in questo contesto, assume un significato autentico: sostituzione etnica. Le politiche riguardano sovvenzioni, posti di lavoro, agevolazioni fiscali e servizi sociali migliori per attrarre i cinesi Han, soprattutto nelle città e nelle zone economicamente strategiche.
La strategia di sostituzione è poi accompagnata da restrizioni e divieti all’utilizzo dello stile architettonico tipico tibetano, soprattuto nelle nuove città, secondo Pechino per ragioni di “modernizzazione” e “sicurezza sismica”. Centinaia di edifici storici sono stati demoliti, sostituiti da strutture moderne e standardizzate.
Ciò che sta lentamente ma progressivamente succedendo in Tibet è che oltre agli uomini e alle tradizioni, a sparire sia anche la stessa ‘casa’ dei Tibetani. Ma come è possibile che ciò accada? Alla base di questo potere discrezionale vi è l’ambiguità dello status internazionale del Tibet, è una zona grigia mai definita. Sembra quasi che la sua unicità culturale e storica esca dalla logiche internazionali, dalle formalità dei riconoscimenti degli Stati.
Lo stesso ONU si vede come faccia fatica a classificarlo correttamente, preferendo agire nell’incertezza, non riconoscendolo come Stato indipendente e accettando di fatto la definizione cinese di ‘regione autonoma’, ma al contempo evitando qualsiasi riconoscimento esplicito dell’annessione del 1950 ( non esiste una risoluzione ONU che abbia riconosciuto esplicitamente o formalmente lo status politico del Tibet).
La storia di Gedhun Choekyi Nyima riflette la storia del suo popolo, il rapimento di un individuo e la sua sostituzione riflette ciò che sta accadendo all’intero Tibet. Quello che avviene nel micro si riproduce esattamente nel macro, ogni possibilità di ragionamento e di discernimento del giusto e dell’ingiusto sembra lasciare solamente spazio a ciò che è utile e necessario. Il Tibet dall’alto della sua cultura millenaria ha commesso un unico grave sbaglio: pensare che la sua identità spirituale potesse proteggerlo dal peso brutale della geopolitica.