OGGETTO: Il mistero dell'assalto all'Ambasciata nordcoreana
DATA: 28 Luglio 2025
SEZIONE: Storie
FORMATO: Racconti
AREA: Europa
A Madrid, lo scorso 22 febbraio 2019, l’ambasciata nordcoreana viene assaltata da oscuri soggetti addestrati in un'operazione paramilitare mai chiarita pienamente. Un unico obiettivo: impadronirsi di documenti riservati del governo di Kim Jong-un.
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Ci sono casi in cui è la realtà a superare la fantasia, in cui la stessa rende l’immaginazione cosa scontata. Ciò che è avvenuto a Madrid qualche anno fa non può essere raccontato, descritto, digerito, senza che venga confuso con un film di Guy Ritchie o Christopher Nolan. 

Preliminarmente è bene dare una descrizione sintetica del capitale umano impiegato per l’operazione: undici uomini con addestramento militare di vario genere, provenienti dal corpo dei Marines della Corea del Sud, degli Stati Uniti e da un imprecisato e misterioso gruppo di dissidenti ex militari nord coreani. Per dare un’ idea ancora più precisa dell’offensività e della preparazione tecnica, dove niente è lasciato al caso, occorre specificare l’equipaggiamento: passamontagna, coltelli, bastoni, spranghe, fascette autobloccanti, fondine, sei repliche di pistole di vario calibro, una scala telescopica della lunghezza di tre metri e mezzo e tre auto a noleggio.

Addentrarsi nella vicenda pone interrogativi, speculazioni di ogni genere, dove ognuno (complice anche la scarsa copertura mediatica che ha avuto la notizia) può comporre diversamente i pezzi del puzzle, arrivando a conclusioni distanti fra loro: dall’azione di un manipolo di attivisti, alla mano invisibile dei servizi segreti americani.

Era un pomeriggio come tutti gli altri a Madrid, nulla di eccezionale sembrava dovesse accadere in tutta la città, tanto meno nell’esclusivo quartiere di Moncloa Aravaca. Una villa bassa e sobria ospita l’ambasciata, nascosta dietro un alto muro di cinta sorvegliato da telecamere che spuntano come tanti occhi elettronici.

Quel giorno era annotato sul calendario dell’ambasciata un incontro di affari con un presunto imprenditore cinese dal nome Matthew Chao.

Sono le 16.34, Chao arriva all’ambasciata in taxi in un distinto completo scuro sfoggiate una spilletta che ritrae il volto del supremo leader Kim Jong Un, tutto sembra tranquillo, una calma piatta aleggia nell’elegante via. Il sig. Chao era conosciuto dai funzionari nord coreani come dirigente della Baron State Capital, società di investimenti con sede a Dubai. Senza troppi controlli l’imprenditore viene fatto entrare e accompagnato fino ad una saletta interna alla villa. Una volta entrato, quella quiete apparente si trasforma in tempesta: dieci uomini coperti di passamontagna muniti di coltello e bastoni irrompono (ad oggi non è dato sapere come), immobilizzano l’inserviente con fascette di imballaggio e si dividono presidiando l’intera superficie della villa. Niente può fermarli: rendono inoffensiva ogni persona che gli si pari davanti.

Tutto il personale che lavora nell’ambasciata viene radunato da sette degli undici nella sala riunioni al primo piano, li incappucciano e li legano alle sedie. Si sentono urla e frastuoni, si pensa a un’ esecuzione a volto coperto. Al piano terra intanto i restanti quattro tengono in ostaggio il diplomatico capo: Song yun Suk. Lo conducono nello scantinato con due pistole puntate alla schiena per evitare passi falsi e lo fanno sedere. Lo guardano fisso negli occhi e gli rivelano il loro obiettivo: farlo disertare.

Dai verbali della polizia spagnola abbiamo le esatte parole che sono state dette al diplomatico: «Al governo Nord Coreano rimane poco tempo, altri gruppi come il nostro stanno facendo quello che stiamo facendo noi precisamente in questo momento in altre ambasciate nord coreane. Vogliamo che lei diventi ambasciatore di un nuovo paese. Uno stato libero che sta per nascere, che noi stiamo stiamo costruendo.» La scena si chiude qui, non perché la risposta del diplomatico non sia importante, ma perché il fulcro dell’azione in quel preciso momento si sta spostando verso un’altra zona della villa. All’ultimo piano dell’ambasciata infatti, Chow Sung-i, moglie di uno dei funzionari, avendo sentito i rumori e le urla di spavento che echeggiavano nella villa si è chiusa in uno sgabuzzino e non è stata trovata dai paramilitari. La donna, una volta rimasta sola nella stanza, lega un lenzuolo e si cala dalla finestra, atterra con difficoltà nel cortile dell’ambasciata, si ferisce e sanguina dalla testa ma non c’è tempo per provare dolore.

Corre trattenendo il pianto e le urla finché non riesce a fuggire da un’uscita secondaria. Una volta fuori comincia a sbracciare ed agitarsi, viene soccorsa da un automobilista, lei non parla spagnolo, lui tantomeno coreano. Si aiutano con un’applicazione di traduzione, riesce a spiegare che è in corso un assalto all’ambasciata. Vengono avvertite le forze dell’ordine che si precipitano all’ambasciata ed è proprio in questo momento che si verifica uno dei cliché più ricorrenti nei film d’azione e thriller. Due agenti bussano insospettiti alla porta della villa, non si sentono rumori, non si sentono urla. Il cancello viene aperto tranquillamente, dietro di questo si presenta uno degli assalitori ben vestito, cordiale e accogliente, rassicura i due agenti, dice che tutto procede normalmente, rimane sbigottito quando sente i due poliziotti parlare di un assalto. I due agenti vanno via rimanendo sospettosi, gli assalitori, dal canto loro, capiscono che è il momento di fuggire.

Nel mentre, tornando nello scantinato, il diplomatico rende chiare le sue idee: meglio morire che tradire. In un attimo la villa viene evacuata dagli undici: tablet, computer, pennette USB, faldoni di documenti vengono rubati. Fuggono con tre SUV di grossa cilindrata dell’ambasciata, sono le 21 si aprono i cancelli, sfrecciano a velocità smisurata e si disperdono in tre direzioni diverse. Fuggono tutti tranne uno: Matthew Chao. Il leader del gruppo esce a piedi e sale a bordo di un auto Uber prenotata con il nome di Osvaldo Trump. Una volta salito minaccia l’autista, si impadronisce del mezzo e guida fino a Lisbona. Al caos si aggiunge un senso di spaesamento, la precisione chirurgica con cui il commando ha agito lascia tutti di spiazzo.

Pochi giorni dopo un sedicente gruppo di attivisti rivendica l’attacco, si fanno chiamare free Joseon, sostengono di aver formato un governo nord coreano in esilio e di essere pronti a far cadere il regime di Pyonyang. La rivendicazione dell’attacco appare ambigua, i più ottimisti possono vederci la verità, i più cauti una verità parziale. Che l’organizzazione abbia tra i suoi aderenti numerosi dissidenti e ex militari è un dato certo, che questa sia organizzata con l’obiettivo di rovesciare il regime è ancora più certo.

L’organizzazione era divenuta famosa per aver avuto stretti legami con Kim han Sol (è il figlio di Kim Jong-Nam ossia il fratellastro di Kim Jong Un, che il supremo leader aveva fatto uccidere nel 2017 all’aeroporto internazionale di Kuala Lumpur) riuscendo a farlo fuggire dalla Corea del Nord e consegnandolo in custodia alla CIA.

È indubbio che l’organizzazione abbia rapporti con i servizi di intelligence, essendo untile agli Stati Uniti per la sua funzione sovversiva, si ritiene probabile poi che l’organizzazione abbia informatori all’interno dello stesso Stato nord coreano. Le indagini continuano imperterrite nei giorni successive all’avvenimento, la polizia spagnola inizia ad indagare su Free Joseon, vengono ritrovate le auto nella periferia della capitale, ma dei passeggeri non vi è alcuna traccia.

Mentre le indagini proseguono, dall’altra parte del mondo Trump e Kim Jong Un realizzano lo storico vertice fra i due Stati ad Hanoi. La vicinanza dei due eventi confonde ed insospettisce, non vi si ravvisa alcun tipo di logicità, un evento appare totalmente sconnesso dall’altro. Era tutto fermo, un silenzio assordante. Sembrava finita lì, un caso destinato a rimanere irrisolto. Poi, all’improvviso, il colpo di scena, una scoperta inattesa sembra aprire un varco nell’oscurità: Matthew Chao viene identificato dall’intelligence spagnola di concerto con quella portoghese. Si scopre che il suo vero nome è Adrian Hong, nato in Messico da emigrati coreani, si trasferisce all’età di sei anni con la famiglia in California dove prende la cittadinanza. Dai dati risulta come uno studente modello, laureato a Yale che, dopo una vita da americano, ha avuto un risveglio, un ragazzo che si è riconnesso con le sue radici e la sua cultura e che ha avvertito tutto di un tratto il peso dell’oppressione in cui versa il suo popolo.

Viene poi tracciato il volo con cui è tornato negli USA, risulta insieme ad Adrian sul volo Christopher Han, ex sergente dei marine degli Stati Uniti. Quello che sembrava un punto di partenza più che sostanzioso per ricostruire l’esatta vicenda in realtà non porta a niente di concreto. La polizia spagnola riesce ad identificare altri dei partecipanti, i nomi non vengono resi noti, viene solamente accertato che i membri del commando appartenessero in precedenza a gruppi dell’esercito Usa, Corea del Sud e del Nord.

Particolare poi è la vicenda di Christopher Han che, una volta emesso il mandato di arresto nei suoi confronti, viene estradato in Spagna e subito dopo viene riportato negli Stati Uniti dove vivrebbe in libertà vigilata. Adrian Hong invece scompare nel nulla, non c’è più traccia di lui, si crede sia latitante, altri credono che sia stato ucciso dai servizi segreti nordcoreani.

La storia pone pesanti interrogativi, si possono fare speculazioni senza arrivare ad alcuni tipo di certezza. Ci sono lacune incolmabili all’interno della storia che non permettono un’ unica prospettiva, i dubbi rimangono tali. Ognuno, seguendo il proprio intuito, può arrivare alla propria conclusione, può cercare per quanto possibile di ragionare intorno a tutto ciò che non quadra.

Chi ha fatto entrare i dieci commilitoni all’interno della villa? Come sono entrati? È possibile che il diplomatico nord coreano fosse originariamente in accordo con il commando e poi si sia pentito? Gli Stati Uniti hanno finanziato l’operazione? E soprattutto: che fine hanno fatto tutte le informazioni classificate rubate, a chi sono state recapitate?

L’avvenimento rientra di pieno diritto nei difficili rapporti fra USA e Corea del Nord, dove momenti di totale assenza di contatti ufficiali tra i governi si alternano a momenti di timida ripresa del dialogo. Le due nazioni si muovono in un delicato equilibrio fra attrazione e sospetto: si temono, si rispettano e al tempo stesso si studiano con l’intento, più o meno velato, di neutralizzarsi.

Dietro la retorica dell’ostilità, si cela una strana forma di attrazione. Ognuno vede nell’altro un paradosso umano, un’aberrazione sociale che lo affascina proprio perché incomprensibile. In questa relazione, fatta di provocazioni, minacce e silenzi, si cela una volontà non detta: quella di mettersi alla prova attraverso lo scontro, e forse, paradossalmente, di conoscersi attraverso l’incomprensione.

Washington e Pyongyang non condividono nulla, se non l’essere specularmente esagerate: una società iper-libera, l’altra iper-controllata; una dominata dal mercato, l’altra dal culto della personalità. I loro atti ostili, ripetitivi e ritualizzati, finiscono per sembrare un linguaggio codificato più che un reale preludio al conflitto. È proprio su questa incapacità di comprendersi che si regge il fascino perverso del loro rapporto: un’attrazione ideologica, emotiva e storica che alimenta un conflitto senza fine, eppure mai del tutto privo di un sottofondo umano.

Seguendo questa logica, non è più fondamentale stabilire se dietro l’attacco vi sia effettivamente la mano statunitense: che ci sia o meno, ciò che conta è che l’atto stesso si inscrive perfettamente in una dinamica di conflittualità permanente. Non si tratta di un gesto isolato o eversivo, ma di una messinscena ricorrente, parte di un rapporto che si alimenta attraverso la teatralità e la tensione costante. In questa folie a deux, il conflitto non è l’eccezione: è la regola.

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La Duma russa ha ratificato all’unanimità il Trattato militare ed economico con la Corea del Nord. Non era scontato che ciò accadesse: gli accordi internazionali hanno bisogno di tempo per concretizzarsi, e la ratifica testimonia la natura perdurante degli interessi comuni alle parti. Il Trattato è un manifesto che spiega cosa sia e cosa sarà la Corea del Nord nel prossimo futuro, ovvero una fortezza dedita a rifornire il mondo di caos.

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