Una volta identificati i punti essenziali del nostro essere (“chi siamo?”), è possibile dedurre logicamente gli imperativi strategici della nostra collettività e i vincoli ai quali è soggetta. Questo è il procedimento fondamentale per elaborare una strategia coerente con la sostanza della nazione. Per tale compito, è utile tenere a mente i tre elementi che compongono la geopolitica: geoeconomia, geostrategia e geocultura. Come chiarito dall’analista geopolitico Mirko Mussetti nel suo “La rosa geopolitica”, «(a) L’attore con geoeconomia e geostrategia ottime, ma con un’insignificante geocultura, è destinato alla disgregazione. (b) L’attore con geoeconomia e geocultura ottime, ma con una cattiva geostrategia, è destinato alla sconfitta e all’assoggettamento. (c) L’attore con geostrategia e geocultura ottime, ma con una scarsa geoeconomia, è destinato alla crisi fiscale irreversibile».
L’Italia si trova chiaramente nella seconda casistica, seppur si potrebbe discutere sull’aggettivo di ciò che possiede. Da qui, appunto, la necessità di elaborare una strategia per l’Italia.
Quali vincoli inaggirabili?
I vincoli circoscrivono il campo d’azione di una strategia. Permettono di comprendere meglio dove focalizzare le proprie attenzioni strategiche. Spesso non dipendono direttamente dalla nostra volontà. Li subiamo, non gli scegliamo.
1. Vincolo geografico
Il primo e più ovvio dei vincoli è quello che è facilmente comprensibile se si guarda una qualsiasi cartina italiana: la geografica. La nostra collocazione, come già anticipato nell’articolo precedente, ci impone una duplice identità: europea e mediterranea. Questo significa che una qualsiasi elaborazione strategica non potrà ignorare nessuna delle due, ma dovrà riuscire piuttosto a trovare un equilibrio tra queste. Per anni l’Italia ha preteso di essere un paese continentale e ha indirizzato le sue politiche per sviluppare questa direttrice. Ma l’inaggirabilità di questo vincolo la costringe in ogni caso a dipendere dal mare per il suo sostentamento. L’effetto di ignorare questo stato di cose non ha eliminato il vincolo. Rimaniamo sul mare, ma in assenza di consapevolezza e quindi di strategia, lo facciamo da oggetto e non da soggetto.
2. Vincoli interni (crisi demografica e culturale condita da una sostanziale debolezza statuale)
Il principale vincolo interno riguarda senza dubbio la crisi demografica. Sicuramente non deterministica come la collocazione geografica, tale crisi però, sviluppandosi nel lungo periodo, non permette di essere arginata facilmente. Altrove abbiamo già discusso di questo problema il quale, a nostro avviso, deriva principalmente da elementi culturali. Una condizione difficile da mutare, ma non impossibile.
La crisi demografica è per l’Italia un limite che incide su tutti gli aspetti essenziali di una nazione: dai problemi economici a quelli socio-politici, finendo con quelli geopolitici. Proprio per l’impatto su tutti questi elementi, si impone per l’Italia la necessità di comprendere da un lato come limitare tale crisi, dall’altro lo spazio di azione possibile alla luce di tale limite. L’altro vincolo interno è senza dubbio quello culturale-identitario. Tema già affrontato nel primo articolo, si pone come limite inevitabile della nostra collettività. Sempre in bilico tra progressismo liberal e conservatorismo, tra globalismo e municipalismo, tra cancel culture e visione nostalgica della storia, emergiamo divisi, confusi, incapaci di individuare elementi di coesione nazionale che superino tale divergenze. Questo è forse il vincolo più cogente, poiché è l’assenza di un’identità comune, di un riconoscimento storico condiviso che ci rende fragili verso l’esterno e impedisce qualsiasi tentativo di strutturare una strategia nazionale. Infine la debolezza delle istituzioni statali e dell’esecutivo nello specifico. Un paese come la Francia, ad esempio, talvolta può sopperire al problema culturale-identitario attraverso la forza di un’istituzione che impedisce di tramutare la crisi interna in immobilismo governativo (anche se si tratta pur sempre di una soluzione temporanea). Questo è ciò che sta avvenendo proprio in questo periodo nell’Esagono. L’Italia, ahinoi, non gode della stessa leva e questo rischia di amplificare un problema già di per sé estremamente grave.
3. Vincoli esterni (USA e UE)
I vincoli esterni sono senza dubbio i più difficili da digerire poiché evidenziano la dipendenza da qualcun altro oltre noi stessi. I vincoli esterni per l’Italia sono da rintracciare a partire dalla Seconda Guerra Mondiale. Il nostro scarso senso di nazione continua a suggerirci che l’aver ripudiato il Fascismo a guerra oramai perduta (8 settembre 1943) ci avrebbe permesso di essere considerati agli occhi del mondo come un’entità diversa dall’Italia precedente. Come se a perdere la guerra fosse stata un’Italia oramai scomparsa e che la nuova, sorta dopo l’armistizio di Cassibile, non meritasse di rientrare tra i perdenti.
Pur non sottovalutando l’entità della guerra civile che si consumò in quegli anni, non si può certo pretendere dagli altri paesi di sottostare a tali trucchi retorici. Per costoro – com’è normale che sia – l’Italia è una sola e ha perso la guerra. Da quel momento in poi, volenti o nolenti, siamo entrati nella sfera di influenza americana. “Stati clienti” si sarebbe detto in epoca romana. Anche l’Unione Europea, in tutto il suo percorso dal 1957 (CEE) ad oggi, è in primis il frutto di iniziative americane volte a rafforzare “l’Impero europeo dell’America”. Ovviamente anche all’interno del perimetro europeo esistono rapporti di forza che incidono come vincolo sulle politiche del Bel Paese (soprattutto il rapporto con Francia e Germania). Ma quando si oltrepassa quel confine è “Mamma America” a dettare l’agenda. Per i trent’anni intercorsi tra il crollo dell’URSS e l’invasione russa dell’Ucraina in molti si sono illusi che il vincolo fosse ormai cessato. In questi ultimi due anni abbiamo avuto riprova che gli equilibri imposti da una guerra mondiale non possono essere cambiati se non con un’altra guerra o per implosione dell’egemone di turno. Ma prendere coscienza di tale vincolo non significa dover rispondere nevroticamente “signorsì” ad ogni richiesta d’oltreoceano. Anche qui, prenderne coscienza significa riconoscere il limite, accettarlo, per poter sapere fin dove ci si può spingere e oltre il quale non è consentito andare senza pagare un prezzo enorme.
Di cosa necessitiamo?
1. Costruire la coesione nazionale
Come si costruisce la coesione nazionale? Questa “la domanda delle domande”. Non vi è di certo una formula unica, un metodo indiscutibile. Ciononostante è indispensabile porsi questo interrogativo. La storia mondiale pullula di stati emersi da guerre e annessioni. L’Italia è un caso sui generis. Qui, come la storia ci insegna, è stata la nazione a creare lo stato e non viceversa. O, per meglio dire, è stato il sentimento nazionale che ha spinto la politica a creare l’Italia e poi a trasformare quel sentimento in cittadinanza. Fu il magma culturale sottostante gli stati preunitari a determinare il Risorgimento italiano. Non ci si può aspettare, quindi, che sia lo stato a rinnovare sé stesso e che imponga dall’alto la coesione nazionale. Ci sono politiche che possono incentivarla ma in Italia, più che altrove, è la base che condiziona i vertici. Ciò significa che prima della politica viene la storia, la letteratura e il sentimento ad essi connesso. Sentimento funzionale a ricreare quel misticismo collettivo necessario ad instillare nelle coscienze la continuità fra passato e presente. “Il misticismo è componente essenziale di una comunità”, diceva Fichte.
Premessa essenziale per alimentare l’autocoscienza come popolo unito e in continuità col passato è, dunque, quella di fornire un’impronta culturale valida e spendibile nel volgersi sia al passato sia al presente, per inquadrare l’Italia storicamente in un contesto globale. È necessario tornare a parlare di politica estera e di tratteggiare le linee che accomunano la politica interna con quella estera. “Geopolitica interna e geopolitica esterna non possono configgere. Stato e strategia si scrivono nella stessa frase”. Per troppi anni siamo rimasti a guardarci l’ombelico, focalizzati sulle beghe interne (partitiche, economiche, amministrative). Senza alterità abbiamo smarrito l’identità nazionale, alimentando quelle intra-nazionali. Perseverando su questa via, il popolo continuerà a ritenere ciò che si sviluppa all’esterno come una scomoda distrazione dai nostri interessi primari. Ritornando invece a dare centralità alla politica estera, emergerà spontaneamente un maggiore senso di identità. Il contesto geopolitico odierno si spera aiuterà tali elaborazioni. Un contesto nel quale è in crisi l’idea della “fine della storia” − che vede gli stati nazionali superati – e di quelle organizzazioni internazionali che si credeva avrebbero sostituito gli stati. Emerge sempre più in tutto il mondo la centralità dello stato nazionale, anche in Italia. Piuttosto che rifiutare tale necessità, intellettuali, storici e giornalisti odierni dovrebbero comprendere che la criticità del momento richiede che il paese sia unito e si veda come tale e che niente unisce di più che la condivisione di una storia. Piuttosto che provare a fermare il vento con le mani, questi dovrebbero comprendere il rischio insito nel rinunciare a fornire un quadro narrativo strutturato che rielabori il concetto di nazione, lasciando tutto in balia di pulsioni incontrollate. In vista di una rielaborazione e riproposizione di una storia nazionale può essere utile ricordare quanto affermato in passato da Arnaldo Momigliano e Antonio Gramsci, ovvero che la coscienza nazionale italiana si costituì dal superamento di due forze storiche opposte: il municipalismo e l’universalismo romano e cattolico (fra tendenze imperialistiche e missionarie).
Oggi, infatti, la coesione nazionale deve passare dal superamento di uno schema assai simile: l’onnipresente campanilismo e una nuova forma di universalismo (di importazione) che, come lo stato promotore, inizia a soffrire di sovraestensione. Come al compimento del Risorgimento, anche qui la costruzione di un’identità nazionale passa dal superamento di queste spinte contrapposte e, trattandosi di Italia, attraverso la ridefinizione e ridimensionamento di universali a noi più affini e oramai svuotati di ogni carica generativa: Roma e la Chiesa. Potrebbe apparire un controsenso quello di voler sfruttare gli universali che precedentemente si è dovuto superare per addivenir sé stessi. Ma con “superamento” qui si intende il duplice aspetto di togliere e conservare. E così, nel riappropriarci di quegli elementi che ci costituiscono, nel ridimensionare l’universale rendendolo nazionale, si potrebbe schiudere la via che porta a superare le contraddizioni tra campanilismo e progressismo liberal, ritrovando la coesione attraverso quei due importanti concetti, indiscutibilmente italiani, che ci obbligano a rispolverare il concetto di continuità storica per ritrovar noi stessi nel nostro passato.
2. Aggiustare lo stato.
È necessario essere realistici. La parabola discendente del nostro stato non è qualcosa che si può invertire con una bacchetta magica. L’elemento sostanziale che determina la debolezza dello stato e della politica è da rintracciare in quella che ci ostiniamo a chiamare “la Costituzione più bella del mondo”. Entrata in vigore nel 1948, incentrata sugli effetti del totalitarismo e non sulle cause che lo determinarono, essa fu figlia del compromesso e, come tale, non poté che partorire a sua volta uno stato che nel bilanciamento estremo trovò la sua instabilità governativa. Dopo settantasei anni dalla sua pubblicazione e in un contesto del tutto differente, sarebbe il caso di spogliarla dell’aura di infallibilità e riprenderla in mano. Poiché se l’opposto di un esecutivo debole è un governo autoritario, non bisogna però scivolare nell’assurdo, credendo che nel mezzo non vi siano mille sfumature intermedie.
Presidenzialismo o premierato, riforma del sistema elettorale in senso maggioritario, ridefinizione del bilanciamento dei poteri tra governo, parlamento e magistratura: queste alcune proposte che più volte negli ultimi trent’anni sono state avanzate e poi puntualmente ostracizzate sventolando lo spettro del ritorno al fascismo. Dovremmo superare queste divisioni anacronistiche, comprendendo che, mentre il resto del mondo attua politiche di lungo respiro, noi rimaniamo intrappolati nella programmazione a breve termine. Non si possono mettere in campo politiche che guardino al lungo periodo in un sistema partitico iper-parcellizzato e un governo che raramente riesce ad arrivare a fine legislatura. Ci lamentiamo che i politici non hanno “visione”, ma è il sistema istituzionale che li ha portati a perderla lunga la strada. Un sistema che costringe a porre l’interesse del partito al di sopra di quello dello stato. Prima si creano le condizioni istituzionali che permettono ad un esecutivo di poter governare e poi potrà emergere una classe politica che abbia una vera e propria visione del futuro. È la possibilità di fare che crea le condizioni per agire. E a questo si lega anche la responsabilità governativa che, al contrario, nella situazione odierna, ha sempre la possibilità di giustificare sé stessa celandosi dietro i vincoli del sistema.
3. Garantire la sicurezza delle rotte marittime nel Mediterraneo allargato e dei nostri confini (marittimi e terrestri)
La visione che l’Italia ha del mare passa dall’intenderlo come semplice “fine della terra”, a luogo selvaggio e pericoloso, portatore di minacce alla popolazione nazionale (immigrazione). Eppure la collocazione geografica ci imporrebbe di guardare al Mediterraneo come naturale bacino di estensione della nostra influenza e, quindi, anche come focus securitario primario per l’interesse nazionale. Anche la rete commerciale marittima, a ben vedere, è il frutto di uno stato d’essere (che prescinde dalla nostra volontà) piuttosto che di concrete attività di sviluppo del settore. Ci ostiniamo a guardare il mare con disprezzo e timore, continuando a subire la “gerarchia delle onde”. Ci sentiamo mittel-europei quand’invece siamo più propriamente mittel-mediterranei. Eredità sabauda, di un’Italia riunificata via terra quand’era divisa via mare. Anche il governo attuale, nonostante i proclami e i lodevoli tentativi di riportare al centro l’agenda mediterranea, purtroppo continua ad intendere il mare circostante semplicemente come pericolosa via di transito delle rotte migratorie. Miopia strategica che cozza con la pretesa di svolgere un ruolo di rilievo nella NATO proprio per il fianco sud (non a caso la mancata nomina di un italiano come rappresentante speciale dell’Alleanza per i rapporti con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo).
Gli sviluppi internazionali dell’ultimo periodo hanno riacceso il dibattito sull’importanza del Mediterraneo per l’Italia. In particolare, la sempre maggiore presenza della Russia in Africa (soprattutto in Libia) e la crisi del Mar Rosso, hanno contribuito a risvegliare la coscienza mediterranea del nostro paese (meglio tardi che mai!). Tuttavia rimane la difficoltà di definire delle chiare linee di azione e di assumersi responsabilità che vadano oltre la semplice limitazioni dei flussi migratori e il rafforzamento dei legami commerciali. Per ripartire dal mare non è sufficiente la marina militare. È l’intero paese che deve fiondarsi sulle onde del Mediterraneo. Per far ciò, uno dei primi passaggi è la riscoperta della portualità (commerciale e industriale). Bruno Musso nel suo “Il cuore in porto” (Mursia, 2017), racconta come, negli anni Ottanta, grandi imprenditori italiani erano restii a cogliere l’importanza dello sviluppo logistico-portuale nella penisola ed erano felici di utilizzare Rotterdam piuttosto che Genova se il primo, al momento, era ben più conveniente. Ignoravano il vantaggio competitivo di un trasporto più breve semplicemente perché al momento quell’offerta non c’era, mentre quella di Rotterdam era già presente. Questo è solo un esempio della miopia con cui gli italiani si rapportano alla propria marittimità e portualità. Lo sviluppo delle diverse forme di reti portuali (e delle infrastrutture di trasporto connessi) non rappresenta però solo un’esigenza economica. Le Repubbliche marinare sono uno degli esempi più chiari di come il commercio in un bacino semi-chiuso come il Mediterraneo permetta un approfondimento delle relazioni (economiche, culturali, diplomatiche, militari) con i paesi che vi si affacciano. Ma oltre a collegare l’Italia ai paesi mediterranei, lo sviluppo delle reti portuali è la condizione per rivitalizzare il sud Italia, riscoprendone l’importanza strategica di avamposto in mezzo al Mediterraneo.
Se il mare è l’elemento centrale da riscoprire, ne consegue il necessario ripensamento della strategia verso i nostri confini: Balcani, nord Africa e Sahel. L’approccio dell’Italia alla Libia è rappresentativo di un modus operandi più generale. Come spesso si dice, da sempre la politica italiana in Libia è gestita dal ministero dell’interno invece che dal ministero degli esteri. E lo stesso oggi vale anche per la Tunisia. Atteggiamento questo che fa emergere l’obiettivo principale: limitare i flussi migratori. Se si continua a vedere questi paesi solo come minaccia (in termini di immigrazione) e non come necessità (in termini strategici), si continuerà ad elargire denaro in cambio di favori temporanei. Un errore che deriva dall’incapacità (o mancanza di volontà) di calarsi nella realtà di questi paesi. Se lo facessimo comprenderemmo che questi spesso richiedono non solo pane ma anche fucili e chi glieli fornisce (oltre a garanzie di sicurezza) riesce a costruire rapporti ben più solidi e duraturi. Basti osservare in che modalità è avvenuta la penetrazione russa e turca in gran parte dell’Africa. Stabilizzare la porzione di Africa a noi più prossima è fondamentale, ma lo è soprattutto che a farlo non siano nostri rivali. Quest’ultimo aspetto vale anche per i Balcani. Da sempre polveriera d’Europa e che oggi rischia di importare nuova instabilità a causa della crisi ucraina. È chiaro che senza mostrare a sé stessi e agli altri l’intenzione di salvaguardare i propri interessi anche con la forza, difficilmente si potrà apparire credibili nell’offrire ad altri garanzie di sicurezza. Portiamo ancora il marchio indelebile della nostra inettitudine per ciò che (non) abbiamo fatto in Libia nel 2019. Superare il tabù dell’uso della forza e della minaccia di usarla è condizione necessaria di credibilità verso gli alleati, gli avversari e i paesi che abbiamo interesse ad influenzare. Una maggiore assertività nel Mediterraneo Allargato è dunque un aspetto inaggirabile. Infine, ma non per ultimo, una strategia italiana per il Mediterraneo deve passare dal bilanciamento delle altre due potenze che si affacciano su questo specchio d’acqua, formalmente alleate ma sostanzialmente rivali: Francia e Turchia.
Dall’Africa ai Balcani, dobbiamo giocare diverse partite riuscendo a cambiare schieramento in base al nostro interesse (pratica nella quale la Turchia di Erdogan è maestra). Poca ideologia, molta concretezza. Dobbiamo individuare i teatri dove i nostri interessi convergono più con l’uno o con l’altro. Siamo nel mezzo tra queste due potenze non solo politicamente ma anche geograficamente. Acerrimi nemici, seppur alleati, di peso geopolitico senza dubbio maggiore del nostro. A nessuno dei due conviene avere un’Italia nello schieramento avversario. Compito nostro è quello di alimentare in loro questa percezione e sfruttarne la condizione.
4. Ripensare l’approccio all’Unione Europea.
Pur rimanendo un soggetto sostanzialmente economico e non politico, non è nell’interesse dell’Italia che l’Unione Europea si sfaldi, soprattutto nel contesto internazionale odierno. Ciò non significa rimanere supini al volere di Bruxelles (o meglio, dei paesi che più la influenzano). Bisogna ripensare l’approccio all’UE, mettendo da parte le due visioni opposte che la vedono o come matrigna da cui fuggire, o come divinità da seguire. Essa è, e rimane, un semplice forum, dove le decisioni prese rispondono ai rapporti di forza dei paesi che la compongono. Non esiste dunque un interesse europeo tout court, ma interessi nazionali che la condizionano. Per questo è necessario che l’Italia si approcci a tale contesto portando con sé la consapevolezza di quali sono esattamente i propri interessi nazionali, altrimenti continueremo a subire le scelte altrui. Così come nel Mediterraneo è necessario bilanciare Francia e Turchia, allo stesso modo in Europa dobbiamo giocare di sponda per bilanciare Francia e Germania. Con Parigi, per frenare i tedeschi sul rigore fiscale e monetario. Con Berlino per limitare l’assertività francese in Africa (spesso in evidente contrasto coi nostri interessi) e la penetrazione negli asset strategici italiani (dall’industria, alla finanza). Da entrambi, dimostrare l’importanza dei Balcani e la nostra intenzione (responsabilità) a badarci. Inoltre, vista la crisi energetica, rafforzare la propria posizione come hub energetico agli occhi di Berlino, come ponte tra nord Africa e Europa e tra Azerbaijan-Turchia e Europa.
5. Ripensare l’approccio agli Stati Uniti.
Ciò che da un lato è un vincolo, dall’altra parte è anche un vantaggio. Da decenni la nostra sicurezza è demandata alla prima potenza mondiale. Questo limita inevitabilmente la nostra azione, ma ha permesso anche di focalizzarci sugli aspetti più morbidi della vita. Il fatto di essere all’interno della sfera di influenza americana non implica però che il rapporto sia unidirezionale. È un continuo do ut des. Infatti, come l’Italia ha necessità dell’ombrello di sicurezza americano, allo stesso modo gli Stati Uniti hanno bisogno di mantenere una forte presenza e influenza in Europa e nel Mediterraneo per garantire la sicurezza dell’Atlantico. Questo l’obiettivo strategico primario che è alla base della Guerra Fredda e dell’intervento americano nelle due guerre mondiali. L’Italia quindi deve riuscire a giocare sulla sua indispensabilità per gli americani. Per Washington siamo fondamentali, sia per la nostra stazza, sia perché in Europa, ma soprattutto perché nel mediterraneo. Ora che gli Usa intendono alleggerire la presenza in Europa e richiedono maggior impegno dai singoli stati Europei in termini di sicurezza, per l’Italia si schiudono importanti opportunità (nel mediterraneo e in Africa). È necessario sapere però cosa chiedere e cosa offrire (o minacciare). Ad esempio, è giusto chiedere alla NATO (e quindi principalmente agli Usa) un rappresentante per il fianco sud, come ha fatto il governo Meloni. Ma senza sapere cosa offrire, o meglio, senza focalizzare bene l’obiettivo strategico dell’alleanza in quel quadrante, ciò che si può offrire è qualcosa che agli altri non interessa, poiché si esaurisce nel proprio interesse nazionale. Nello specifico, il fianco sud (Mediterraneo, nord Africa e Sahel) è importante per la NATO per via della crescente instabilità che rischia di destabilizzare anche l’Europa e soprattutto per la sempre maggiore presenza russa e cinese. Per questo motivo una strategia, agli occhi della NATO e degli Usa, dovrebbe includere una maggiore assertività politica e militare per contenere l’influenza dei rivali, stabilizzare le aree di crisi e garantire la sicurezza marittima del Mediterraneo.
Tutti elementi che non si ravvisano nella strategia italiana, la quale pare interessata solo a questioni inerenti il contenimento dei flussi migratori. Eppure il momento è propizio per rimarcare l’importanza dell’Italia. Assistiamo infatti in questi anni ad uno scivolamento del baricentro europeo determinato dalle crisi in corso in Ucraina, Medio Oriente, Mar Rosso e Africa. Se per decenni il baricentro è stato il nord ovest (dove l’est iniziava sull’Elba) – l’Europa occidentale – a causa della cortina di ferro (motivazione strategica) e della preminenza del fattore economico in quelle zone, oggi il baricentro si è spostato verso est (“cortina d’acciaio” con la Russia) e verso sud, nel Mediterraneo, per via della minaccia dei traffici commerciali, di vecchie (Turchia e Russia) e nuove (Cina) potenze che iniziano a ricomparire minacciose al fronte del caos (Africa) con conseguente prevalenza del fattore securitario e militare rispetto a quello economico. Gli Usa hanno più volte manifestato l’intenzione di doversi occupare principalmente del quadrante indopacifico. Soffrono la sovraestensione e proprio per questo i suoi rivali (Russia, Cina e Iran) cercano di estendere il più possibile la loro penetrazione all’estero (dall’Africa al Medio Oriente, dall’Artico all’America Latina). Hanno più che mai bisogno di delegare agli alleati delle zone di pertinenza, così da risparmiare energie e risorse per la sfida principale (la Cina). È su questo cambiamento di visione strategica che l’Italia deve premere per riacquisire peso geopolitico. Mostrarsi intenzionata ad assumersi certe responsabilità, chiedendo in cambio riconoscimento e supporto (logistico, economico e di armamenti) da Washington.
6. Un Commonwealth italiano, tra realtà e utopia.
Riprendiamo qui lo spunto offerto da Andrea Riccardi (presidente della Società Dante Alighieri ed ex ministro del governo Monti) in un articolo apparso sulla rivista “Limes” dal titolo “È possibile un Commonwealth italiano?”. Il tema si rifà principalmente a ciò che inizialmente abbiamo chiamato geocultura. Se questa è definita come “l’identificazione del proprio canone culturale e valoriale proiettato in un preciso spazio geografico”, allora il problema italiano è duplice: pur riconoscendosi un’importantissima impronta culturale, rimane comunque profonda divisione nell’identificarsi in essa, soprattutto per quanto concerne gli aspetti valoriali; a questo si lega l’incapacità di proiettare tutto ciò in un preciso spazio geografico, interno ed esterno al perimetro nazionale. L’Italia dovrebbe riscoprire l’importanza di fare ed esportare cultura. Questa infatti non rappresenta qualcosa di etereo dalla scarsa rilevanza. Rafforza e crea legami che possono essere traslati ad altri ambiti (economia e strategia). La cultura è il ponte che permette di instaurare rapporti su più livelli. Consci di tali dinamiche, molti paesi al mondo perseguono la via della cultura per estendere la propria influenza nel mondo.
La Francia ha l’Organizzazione internazionale della Francofonia, Il Regno Unito il Commonwealth, la Turchia l’Organizzazione degli Stati Turchi (OTS), la Russia la Rossotrudnichestvo e la Russkiy Mir Foundation, la Cina l’Istituto Confucio. Tali organizzazioni possono essere divise in due categorie: quelle che hanno il chiaro obiettivo di creare canali privilegiati fra paesi che condividono importanti elementi comuni (lingua, appartenenza a vecchi imperi o discendenza antropologica); quelle che, non godendo già di fattori condivisi, intendono crearli diffondendo la storia e la cultura di un paese al mondo (come l’Istituto Confucio). In entrambi i casi, alla base vi è l’intento di un paese leader di legare a sé altre collettività. Una strategia saggia sa che ogni riconoscimento esterno è vettore di potenza, se ben sfruttato. Sfruttato non significa, come in Italia, puntare tutto sul turismo, il quale implica il flusso dall’esterno all’interno. È necessario fare l’esatto contrario. Esportare ciò che provoca attrazione all’esterno per creare ponti e legami con quei paesi. Per far germinare altrove il seme dell’italianità. Modello simile a quello applicato dalla Cina con l’Istituto Confucio. L’affinità culturale è elemento strategico per eccellenza. Basti vedere i turchi i quali, incapaci di offrire ai paesi di interesse grossi vantaggi economici, semplicemente li legano a sé tramite la storia e la cultura. E questo non solo con quei paesi che si raccontano come appartenenti antropologicamente alle popolazioni turciche, ma anche a quelle ammaliate semplicemente dai racconti (soprattutto cinematografici, in questo periodo) sulla storia ottomana. In Somalia, ad esempio, grazie alle serie tv turche sull’Impero Ottomano, nel 2021 la richiesta di apprendimento della lingua turca tra i giovani è più che raddoppiata.
A questa influenza culturale è seguito qualche anno dopo un rafforzamento dei rapporti strategici, in particolare nel febbraio 2024, con la firma di un accordo difensivo che include il supporto turco alla sicurezza marittima della Somalia. L’Italia, senza troppe ambizioni, deve cercare di creare una comunità che unisca paesi per lei strategici, puntando quindi non solo sull’economia, ma anche sulla potenza della sua cultura, senza tralasciare i partenariati securitari (geocultura e geostrategia). I punti da cui partire sono, in primo luogo, la definizione e il riconoscimento della propria impronta culturale ― essenziale per la formazione di un’identità comune ― di cui abbiamo discusso in precedenza; in secondo luogo l’individuazione di quei paesi nei quali gli aspetti della cultura nostrana possano attecchire e dunque favorire il rafforzamento dei legami. La domanda però sorge spontanea: pur ammettendo di riuscire prima o poi a definire e a riconoscere una cultura italiana tanto potente da superare i problemi di coesione interna, sulla base di quali fattori questa potrebbe mai attecchire altrove? Francia e Gran Bretagna ebbero gli imperi. La Turchia, oltre all’impero, anche la diffusione delle popolazioni turciche dal Caucaso meridionale all’Asia centrale. La Cina manca di entrambe, ma a differenza nostra gode di un’identità solida da mostrare e di un portafoglio ben fornito. Ciò che rende quasi utopia l’idea di un Commonwealth italiano è proprio la mancata risoluzione dei due punti prima descritti. Nell’attesa che questi nodi siano sciolti, non bisogna però rinunciare a qualsiasi ambizione. Se non si può ottenere il meglio è necessario ricercare il bene. Si può (anzi si deve) puntare ad obiettivi più modesti, ma ad ogni modo importanti. Una delle possibili vie da percorrere è quella ravvivare la storica Società Dante Alighieri, rielaborare quanto compiuto dalle Repubbliche marinare in chiave nazionale e ripensare il rapporto con la Santa Sede.La Società Dante Alighieri conta oggi circa 500 comitati in 80 paesi. Già dalla sua fondazione nel 1889 si pose lo scopo di «tutelare e diffondere la lingua e la cultura italiane nel mondo, ravvivando i legami spirituali dei connazionali all’estero con la madre patria e alimentando tra gli stranieri l’amore e il culto per la civiltà italiana».
Ai tempi in cui fu fondata il problema era quello di mantenere viva la fiamma della lingua e della cultura nelle moltitudini di italiani che abbandonavano la madre patria. Oggi, seppur rimane una forte componente di italiani che emigrano all’estero ― per cui resta valido lo scopo iniziale ― l’obiettivo deve essere adattato alle dinamiche odierne che vedono un gran numero di stranieri emigrare verso il nostro paese. Per questo un’organizzazione di questo tipo dovrebbe avviare iniziative culturali proprio dai principali paesi di origine degli immigrati. Diffondere la cultura, la storia, la lingua, i principi e i valori italiani prima che possano approdare sulle nostre coste. Anticipare i processi di integrazione. Rispetto al focus mediterraneo, sarebbe utile rielaborare le lezioni delle Repubbliche marinare. Questo è sicuramente un aspetto meno culturale del primo. Tuttavia il precedente storico ci permette di comprendere come è possibile legare a sé ― o semplicemente rafforzare i legami con ― i paesi mediterranei giocando su altre leve. Venezia, Genova e Pisa poterono ergersi a grandi potenze del Mediterraneo per via di alcuni fattori: frammentazione dei paesi costieri e assenza di una super potenza marittima che si affacciasse sul mare; valore attribuito alla marittimità e alla sicurezza delle vie marittime; assenza di un intento coloniale in senso stretto e focus sugli snodi cruciali del traffico marittimo; capacità di porsi come elemento indispensabile per i commerci altrui e come porta d’Europa nel Mediterraneo. Ben consci delle differenze storiche col presente, crediamo però che questo periodo storico abbia molto da insegnare e offrire all’Italia odierna per cercare di creare una comunità dei paesi mediterranei che veda l’Italia al centro (non solo geografico). Infine la Santa Sede. Discorso ben più complicato e articolato. I rapporti tra lo stato italiano e il Vaticano sono sempre stati complicati, non foss’altro che la nascita del primo si ebbe a partire dalla sconfitta del secondo.
Tuttavia la prossimità geografica ha sempre imposto ad entrambi di intrattenere relazioni di livello indiscutibilmente più elevato rispetto a qualsiasi altro paese al mondo. All’estero, però, la distinzione tra i due non è così evidente e questo, se ben sfruttato, può rendere la Chiesa un moltiplicatore di potenza dell’Italia intera. Uno dei (pochi) elementi sui quali l’Italia potrebbe trovare una convergenza con la Santa Sede riguarda l’aspetto missionario della Chiesa di Francesco. Dopo Ratzinger, e ancor più di dopo Wojtyła, l’eurocentrismo, costante secolare della Chiesa, è stato messo da parte in favore di uno spirito missionario che guarda ai paesi che un tempo si chiamavano del terzo mondo e che oggi sono definiti “sud globale”. Per motivi ovviamente diversi, anche l’Italia si rivolge a quei paesi. Ne è un esempio il Piano Mattei. Qui si potrebbero aprire degli spazi di collaborazione che potrebbero giovare agli obiettivi strategici italiani. La forte presenza della Chiesa nell’Africa subsahariana e il gran numero di cristiani in quell’area potrebbe essere sfruttato dall’Italia e coadiuvato con ulteriori iniziative (culturali, economiche, infrastrutturali e securitarie) per rafforzare la posizione in alcune aree strategiche per i nostri interessi.
Alla luce di quanto sin qui descritto, l’idea di un vero e proprio Commonwealth italiano appare oggi più utopia che realtà. Tuttavia, è possibile comunque intraprendere iniziative volte a creare partenariati strategici con diversi paesi, alternando, in base ai casi, tre possibili vettori: la diffusione della cultura, della storia e della lingua italiana tramite la Società Dante Alighieri; la creazione di una comunità mediterranea fondata sulla sicurezza della navigazione, la centralità del commercio e gli scambi culturali (sulla falsa riga delle Repubbliche marinare); la collaborazione con la Chiesa cattolica in particolare nei paesi dell’Africa subsahariana, sfruttando l’universalismo religioso e coadiuvandolo con iniziative culturali, economiche, infrastrutturali e securitarie.
Abbiamo provato a delineare quelli che, a nostro avviso, sono gli aspetti centrali di una possibile strategia italiana in un mondo che cambia. Ciò che ci auspichiamo sia emerso da quest’analisi in due articoli è che il punto centrale, indispensabile per poter pensare ed avviare una strategia nazionale, è l’essere consapevoli di ciò che si è. L’autocoscienza nazionale che definisce chi siamo e che, se condivisa all’interno del territorio nazionale, alimenta quella coesione che, da un lato ci protegge dagli shock esterni, dall’altro permette di pensare la nostra posizione al di là del perimetro statuale (dunque fare strategia). Siamo portati in maniera quasi spontanea ad inseguire gli eventi, soprattutto in un contesto internazionale così turbolento. Certe volte però è bene fermarsi, riflettere su noi stessi, riavvolgere i fili della nostra storia, visualizzare dall’alto la strada che si è intrapresa per comprendere davvero qual è la via giusta da imboccare prima che sia troppo tardi.