“Yerevany menk’ yenk’”. Yerevan siamo noi. Queste le parole, a noi indecifrabili, di una delle più belle canzoni dedicate a Yerevan. Ed è proprio vero: Yerevan siamo noi.
La Nostra storia, la nostra bellezza, la nostra malinconia. Tutto è Yerevan.
Città antica che attraverso un’aura misteriosa tiene lontana gli impulsivi, i frettolosi e coloro che non hanno pace dentro di sé. In Armenia è facile percepire una quiete quasi fastidiosa, un’inquietudine mancata, una serenità malinconica tipica della rassegnazione.
Qui il Dio che c’è, è al suo settimo giorno: quello del riposo affaticato dalla creazione.
L’Armenia ha un’identità piuttosto univoca che lascia poco spazio alle interpretazioni, un popolo somaticamente omogeneo che ha scelto in quale parte della storia voglia posizionarsi. Sbarramento cristiano in una regione musulmana, rimane ancor oggi, nonostante gli ultimi sviluppi del Nagorno, fedelissima alla Russia, alla sua cultura e ai suoi Zar. Le scritte in cirillico, il perfetto bilinguismo anche degli ultimi contadini, i discorsi al bar e non solo, ci ricordano che qui Mosca è ancora la capitale dell’Impero e che la Russosfera, al contrario di quello che piace credere, non è mai tramontata.
Chiave di volta del Caucaso, fulcro disperato di un primordiale cristianesimo, geopoliticamente somigliante a un’isola. Né Persiani, né turchi né tantomeno azeri o slavi. Spiazzerà i viaggiatori alla Bouvier che sognano linee dritte tra l’Anatolia e l’Ararat, tra gli altopiani Armeni e la dolce brezza marina della città dei venti: Baku. Qui la polvere del mondo ha offuscato tutto. Le frontiere via terra con la Turchia e l’Azerbaijan sono rigorosamente chiuse, nemmeno i lustrissimi passaporti europei di velluto sono autorizzati a oltrepassare la linea visibilissima del confine.
Qui il mondo (politico) lo si guarda specularmente e la terra appartiene ai pragmatici. Si astengano hippie e i radical chic, il trinomio Dio-Patria-Famiglia trova espressione e gli stati da noi additati come canaglia (Russia e Iran) si scoprono alleati, amici e promotori di cultura oltre che modelli tecnici e, a volte, persino intellettuali. Angeli custodi di una terra che senza fede avrebbe già abdicato alla crocefissione storica: il genocidio subito dai giovani turchi, le pressioni azere e ora la dolorosa perdita del Nagorno Karabackh raccontano parte delle angherie che hanno indurito e isolato il popolo armeno relegandolo tra lo scudo della fede e la spada di un fervente nazionalismo, tra l’incudine azero e il martello turco.
I murales e i cartelloni per le strade celebrano gli eroi e i martiri della nazione per la quale hanno indossato la mimetica e impugnato il fucile sin dai primi anni novanta, quando durante gli ultimi e traballanti anni dell’Unione Sovietica, la quale ha avuto il grande pregio di riuscire a far condividere a tutti la stessa geografia, l’Azerbaijan si discostò da Mosca ma non fu seguita dall’ex oblast a maggioranza armena del Nagorno che si dichiarò a sua volta indipendente. Iniziarono dunque i bombardamenti azeri nella regione e con essi il primo conflitto del Nagorno Karabakh conclusosi con un’ampia vittoria armena grazie al maggior supporto della Russia. Una volta scavalcato il Rubicone le tensioni sarebbero cresciute e acquietate a seconda del momento storico e geopolitico ma c’è un preciso momento nel quale si capì che gli azeri si sarebbero ripresi, in poco più di due decenni, la loro integrità territoriale: è il 1994 e a Baku la “ Azerbaijan International Oil Company” firma la concessione per sfruttare i giacimenti off-shore, al largo del Caspio, di petrolio e gas naturale. A Baku si apre una nuova era che porterà a un riassetto geopolitico e economico molto importante che la consacrerà come affidabile partner commerciale Europeo e potenza energetica mondiale riuscendo nella riunificazione nazionale del Settembre 2023.
Attenzione però a giudicare tutto da una prospettiva culturale che tenderebbe a vederci più affini agli armeni che agli azeri. Questa, più che mai, è una guerra dove l’unico vincente è l’odio che usa la vendetta come vittoria. Di terribili massacri, in quasi 30 anni, ce ne sono stati a decine, centinaia, da entrambe le parti e nessun dibattito sembra volersi concentrare sull’unica vera soluzione duratura: l’analisi, la comprensione, il perdono e la convivenza. Nessun diritto infatti può essere considerato di seconda serie: né quello etnico di autodeterminazione popolare che l’Armenia rivendica né quel principio di integrità territoriale che gli Azeri hanno sentito mancare per 30 anni.
Chi ha vissuto un filo continuo pre e post perdita del Nagorno si accorgerà facilmente quanto questo sia un momento di infelicità collettiva e vulnerabilità nazionale che richiede tempo per essere sanato ma che allo stesso tempo non può essere curato con l’odio o l’eccessivo nazionalismo. Le proteste di Settembre di fronte al Parlamento di Yerevan per chiedere al governo di non capitolare sono inquietanti e spiegano quanto la situazione sia grave. Quando delle madri chiedono di sacrificare il proprio figlio ci si accorge quanto si sia lontani dall’umanità e quanto il terribile detto Spartano “Col tuo scudo o su di esso” sia attuale.
La diplomazia rivolga la propria supplica ricordando quest’avvenimento e sapendo che l’unica posizione contemplabile è quella per la pace, ovunque essa porti.