La Primavera è un punto di non ritorno. Nasce sul finire di qualcosa, muore sul principio di qualcos’altro. È una stagione di passaggio, un ponte da traversare per giungere all’altra riva. È morte, vita, fertilità. Rinascita. Può essere crudele – come l’aprile di T.S. Eliot ne La terra desolata – efferata, come quella di David Szalay, che con il suo romanzo, Primavera – edito in Italia da Liberilibri – ne affronta la spietatezza in una Londra dal vapore gelido, dove i suoi personaggi si muovono come ombre inquiete in una luce che diviene sempre più crepuscolare, disvelando la trama stessa dell’esistenza, che si sostanzia nella caducità del tempo e nella solitudine dell’uomo. Tempo e solitudine. Due temi cari all’autore canadese, concepiti in maniera embrionale in questo printemps della sua narrazione e che vedranno compiutamente la luce nella sua opera successiva, Tutto quello che è un uomo (in italiano già pubblicato da Adelphi).
In Primavera un’atmosfera rarefatta accompagna l’incontro delle solitudini di James e Katherine, due vite distrutte da un tracollo personale – il fallimento di una startup milionaria quella di lui, un matrimonio finito quello di lei – interiormente divise tra un prima e un dopo, due vite che non si incontreranno mai realmente, intimamente. Szalay dà voce alla dura consapevolezza che alberga nell’animo di entrambi, la necessità di ricominciare dopo aver assistito al disfacimento del proprio microcosmo, alla perdita del proprio status sociale, confidando nella natura obliterante del tempo e nella conseguente, graduale dissolvenza del senso di umiliazione personale, di sconfitta. Due esistenze che si toccano dando vita ad una relazione deprimente e moderna, in cui ognuno si fa isola, resta nucleo a sé stante. Dialoghi vuoti, atteggiamento blasé, erotismo triste e solipsistico che si riduce a mera carnalità, un rapporto fatto di individualismi, di singole alienazioni. Un debole legame in cui ognuno si serve della solitudine dell’altro per meglio comprendere la natura della propria. L’arida liaison si rivela infatti, in ultima battuta, feconda per entrambi, per giungere al proprio, personale punto di non ritorno. Quello in cui lasciar scivolare via il proprio passato, mutare pelle e vita. Il momento in cui il crepuscolo cala sulla solitudine di ciascuno, quello in cui, per David Szalay, la Primavera si compie.
La narrazione si svolge fuori e dentro il tempo, che rappresenta il leitmotiv dei suoi romanzi, inteso come unico elemento eterno in un’esistenza in cui tutto si rivela perituro. Il tempo si dilata, in una continua alternanza fra un incerto presente e le memorie di un glorioso passato, di primavere felici, inondate di luce. Primavere di ricordi. Per James la reminiscenza di una corsa in cabriolet, l’adrenalina sottopelle, il sapore dolce del successo, la costruzione di una dimora lussuosa, il proprio nome in prima pagina, le interviste dei grandi giornali finanziari. Per Katherine la rievocazione del coup de foudre con suo marito, la percezione di aver vissuto un’affinità elettiva, l’eccitazione delle prime volte, la dimenticanza dell’adulterio che ha portato alla fine. Ma, se non esistono cicatrici guarite nella vita di un individuo, come sostiene F.S. Fitzgerald in Tenera è la notte, è bene, prima che il passato si cronicizzi, ridurlo a quella punta di spillo a cui, per l’autore americano, si restringono le ferite. Ed è in quella punta di spillo che è racchiuso il punto di non ritorno a cui approdano i due protagonisti di Primavera, ognuno per proprio conto, come al termine di un faccia a faccia con sé stessi. Szalay si fa cantore del tempo senza fare appello alla nostalgia né ad infidi moti empatici. Perché se costui scorre inesorabile, laddove i suoi personaggi accennino a crogiolarsi in attimi di malinconia, la sua scrittura ferma, aspra se necessario, diviene per gli stessi un memento mori.
Con la sua prosa cesellata ma priva di orpelli non ricorre a lirismi di alcuna sorta e le sensazioni dei due protagonisti risalgono in superficie per poi sfumare rapidamente, evanescenti come una nuvola di fumo. Compiono un breve viaggio fino al lettore per poi esalare un ultimo respiro. Szalay si serve del tempo per interpretare l’essere con un esistenzialismo dagli echi heideggeriani. Un tempo, che solo per un attimo si arresta, e da cui, dopo quell’attimo stesso, non si può più retrocedere. Un punto di arrivo e di inizio insieme, una frazione di eternità in cui tutto cambia, per sempre. Con il suo stile impalpabile, scava a mani nude nelle macerie umane, ne estrae i resti, li plasma, dando vita a pagine di letteratura che lo erigono direttamente sul proscenio degli autori più raffinati del nostro tempo.