C’è chi dice che bisogna ‘prenderne atto’ senza troppi rimpianti, chi invece segnala l’avvenuta rivoluzione nella consapevolezza ormai acquisita di cosa è cambiato. Escono manuali di mascolinità fai da te, mentre da un buon decennio la psicanalisi ha fatto della ‘scomparsa del padre’ e del ‘complesso di Telemaco’ la propria gallina editoriale dalle uova d’oro. Il leitmotiv che tiene insieme questa galassia di diagnosi è sempre uno, da ormai molto tempo: il maschio si è estinto in quanto specie antropologica, nel senso aristotelico del termine: l’insieme delle differenze specifiche che differenziavano nell’immaginario comune il ‘maschio’ non solo dalla ‘femmina’, ma anche e soprattutto dalla sottospecie ‘femminuccia’, epiteto di successo per denotare il ‘mezzo uomo’, quello venuto male (chi può, pensi allo Schlechtweggekommenen nietzscheano), è venuto meno, trascinando con sé la distinzione stessa.
Ne è che ad oggi, in una società più liquefatta che liquida, di maschi non c’è più traccia rilevante. Le mille contraddizioni in cui ci si avviluppa se si rimpiange un certo modello di mascolinità tendono ad essere particolarmente dissuasive per chi abbia a cuore l’estetica del discorso, dunque non è questa la strada migliore per capirci qualcosa. Nemmeno le diagnosi sopracitate (ma che, si badi bene, hanno fatto scorrere litri d’inchiostro) sono da prendere come oro colato: non c’è nulla di veramente fondamentale in esse, non c’è comprensione (il cum-prehendere, il dominio vero e totale dell’oggetto), ma solo valide e in certi casi anche profonde constatazioni sulla superficie dei dati di fatto. Se si è dell’opinione per cui bonum ex integra causa, soluzioni parziali saranno nella migliore delle ipotesi insoddisfacenti.
È di uso comune al giorno d’oggi distinguere tra virilità e mascolinità quando si parla di questi temi: la virilità, nel suo portato di «idéal de performance, de vigueur et de courage», sarebbe da dissociare dal ‘maschio’ per poter parlare di una virilità al femminile. Vedremo come accettare un simile rilievo sia sintomatico di una incomprensione sistematica che agisce fin dall’inizio e inquina alla sorgente le acque della riflessione. Posto che la virilità sia questo, quindi un insieme di caratteristiche che dalla modernità abbiamo preso erroneamente a chiamare ‘valori’ come se avessero bisogno dell’approvazione di un intelletto umano per ‘valere’ qualche cosa, la virilità è qualcosa di assiologicamente buono, di eticamente promettente, di socialmente positivo. Non c’è cultura in cui il coraggioso non sia tenuto in gran conto, così come non c’è ambito in cui il vigore non sia, a conti fatti, un vantaggio. Il problema essenziale, nel senso autentico dell’ostacolo gettato-in-mezzo che impedisce la comprensione totale, è la dialettica del dominio nella quale il concetto è stato inserito e da cui non riesce, da almeno due millenni, a liberarsi.
È fortemente evocativo e ha una sua eloquenza evidente la pretesa contemporanea di parlare al femminile della virilità, andando a contestare l’etimo, la radice stessa del linguaggio: poiché oggi anche il linguaggio è visto solo come dominio, se la virilità si traduce in dominio be’, da femmina quale sono, la voglio anch’io. Considerare ogni concetto e ogni sfumatura del reale nei termini del dominio è caratteristico di una civiltà consegnatasi alla volontà di potenza, priva ormai di qualunque spessore teoretico e di capacità speculative, sporca le nozioni, avvelena la ricerca. Esistono, infatti, aspetti puri della vita, dotati di un quid intrinseco che si sottrae ai calcoli arbitrari, e la virilità è uno di questi: non coglierlo significa mistificare fin da principio ogni tipo di riflessione, quandanche intrapresa con le migliori intenzioni: per comprendere, è necessario cessare di essere autoreferenziali, di pensare le cose per come le vorremmo o le sentiamo; è necessario rinunciare alla maneggevolezza dei concetti puri, alla pretesa di volerli usare, cioè di volerne ricavare un utile, un profitto, un dominio.
Sulla scorta di queste decisive acquisizioni metodologiche si apre di nuovo la strada alla teoresi, cioè al silenzioso parlare della mente nella contemplazione del proprio oggetto. Chi è l’uomo virile? Chi è la donna virile? Siamo usciti dalla logica del dominio, costruire castelli su cosa sia parte di una toxic masculinity e su cosa no, si rivelano per quello che sono: castelli, appunto, variazioni sull’unico tema realmente ‘tossico’, il dominio. Virile è Plutarco che passa alla storia per il rispetto amoroso e l’amore rispettoso di Timossena, virile è Giuditta che esce dalla città e si erge a baluardo di Dio in terra. Plutarco non è virile perché da maschio greco si china paternalisticamente sulla moglie, Giuditta non è virile perché uccide Oloferne. Questi due semina che la memoria della civiltà non ha voluto obliare, insieme a milioni di altri, testimoniano silenziosamente che parte costitutiva della virilità è l’essere a servizio, la servitù volontaria (all’amata, alla volontà divina). Un tassello va dunque ad aggiungersi, ma ancora il quadro non è completo.
Il concetto di servizio è l’ostacolo che la logica del dominio ha abbattuto per ultimo in quanto importante ma non essenziale, effetto di qualcos’altro, non causa prima. L’idea della servitù volontaria, infatti, si è persa solo ‘di recente’: ad inserirla negli ingranaggi del potere politico e nelle spire della dialettica del dominio è stato La Boétie, ma i medioevali l’avevano compresa perfettamente nel suo autentico significato nei riferimenti tanto al re quanto alla dama. Bisogna cercare più in profondità. È l’evento fondante dell’ultima scena della civiltà Occidentale a ricapitolare in sé il nucleo centrale della questione e a ricondurre ad esso. Il virile per eccellenza è il Cristo, la quintessenza della virilità è la kenosis, lo svuotamento di sé, l’auto-abbassamento. Solo la rinuncia al sé, con tutto quello che ciò comporta, può produrre un autentico servizio. La virilità è dunque ricondotta alla sua scaturigine, cioè all’esatto opposto del dominio inteso come kratos, come potere-su: è realmente dominus chi ha rinunciato a sé ed è ‘tutto per tutti’, chi ha avuto la forza di spogliarsi di ogni riferimento egoico, chi non agisce più per dimostrare qualcosa né per competere a scapito degli altri nel bellum omnium contra omnes. Una civiltà composta da uomini simili, così vicini all’ideale aristotelico dell’uomo virtuoso, sarebbe una civiltà di virili, di persone che hanno la forza di vincere l’unica battaglia a prima vista invincibile, quella contro se stessi.
È questo, a ben vedere, quello che abbiamo perso, e non l’abbiamo perso solo in riferimento ai ‘maschi’. Il maggior rumore che produce la perdita del ‘maschio’ ha la stessa funzione del dolore fisico: è un campanello d’allarme, una sveglia, che altrimenti non suonerebbe così forte e sinistra. Ci si accorge del maschio perché naturalmente l’essere umano non nasce ideologo; dunque, sa nella propria spontaneità originaria che il concetto di virilità porta traccia dell’uomo guerriero, del vir, non perché il maschilismo sia un’idea platonica ab aeterno sussistente, ma perché ha fatto più scalpore agli occhi degli antichi il maschio che fisicamente potrebbe soggiogare la femmina, ma sceglie la virilità e si spoglia delle armi di fronte a lei. Non a caso, pensiamo ancora all’uomo virile in camera da letto non come un dominatore violento, ma come colui il quale riesce a far stare bene la propria donna da ogni punto di vista e quindi non solo e non soprattutto fisico. Allo stesso modo, il vero senso della virilità femminile è quello della mulier perfecta che sa essere roccia del marito, simulacro di vita in tempo di pace, ma che sa prendere le armi in tempo di guerra.
Ancora una volta, sforziamoci di andare oltre il senso meramente letterale delle parole. Cadono le ultime maschere: si svelano per ciò che sono le ultime tendenze dello spirito occidentale, il tentativo di convincere la femmina ad abbruttirsi a maschio in miniatura, meschino come lui nelle sue meschinità; l’utopia di realizzare l’androgino perfetto, che non ha bisogno di nessuno, che è oltre a ogni differenziazione perché può essere tutto e il contrario di tutto ad ogni istante di tempo t. L’individuo perso nel suo ego, e quindi nelle sue insicurezze, è il vero precipitato della nostra epoca. Il rilassamento etico-antropologico, l’incapacità governativa delle ultime generazioni, l’inverno demografico, il collasso social non sono dati di fatto su cui recriminare moralisticamente: sono i sintomi di un mondo che ha rinunciato ad essere virile, che non sa più fare rinuncia e penitenza, che macera nei suoi vizi incapace di ergersi forte contro di essi. Questo è andato perduto, questa è la ‘crisi del maschio occidentale’, nulla più e nulla meno.