Perché te ne stai lì, Sebastião, fiamma che arde senza scopo?
Comparso di tra i drappi che copron l’accesso alla cappella privata, quasi un Polonio, il veggente incalza il suo re, spaurito inerte su scranno foderato in raso rosso.
È giunto al re che lo attende, senza essere chiamato. Perché gli dica del futuro e del destino, il suo destino. Del Sogno che è suo, Portogallo.
Luogo: uno spazio chiuso allumato da bracieri, segreta, confessionale, palcoscenico in fronte a camera fissa, propizio oltremodo a sussurri e profezìe.
O Sapateiro Santo e Don Sebastião. La visione e la potenza. Nell’incantamento ermetico della parola, è il Sogno del Portogallo eterno.
Almeno così lo han sognato i sogni di José Régio e Manoel De Oliveira. O quinto Império, film del 2004, è messa in immagini del primo con l’occhio del secondo.
“Ho fatto un sogno…Il sogno che ho fatto su di te sognalo tu stesso, Sebastião”
“Mi addormenterò e sognerò…è così bello dormire e sognare”
“Fa un sogno GRANDE, re Sebastião”.
Sebastianismo e Quinto Impero non sono in realtà la stessa cosa. Pessoa lo premette, gran mistagogo nel Sogno lusitano, ai suoi affondi ermeneutici nelle trovas del Bandarra, Gonçalo Annes, ciabattino visionario come o Sapateiro Santo Simão (e ciabattino visionario fu anche Jacob Böhme: vorrà pur significar qualcosa, ma chissà che cosa…).
Unione patetica di immagini dal libro di Daniele (quattro imperi, quattro simbolici metalli) e di tragedia, il “suicidio” di una nazione intera ad Alcácer-Quibir il 4 agosto 1578, il Quinto Impero del mondo è intravisto sperato dal gesuita padre Antonio Vieira, “imperatore della lingua portoghese” nella História do futuro, nella Clavis Prophetarum.
Sgorgante dalla tribolazione e dal sangue lusitano, cui “tutto quello che il mare abbraccia, tutto quello che il sole illumina, quello che il cielo copre” sarà soggetto e tornerà l’età dell’oro e ovunque sarà pace, ogni corona intrecciata in unico diadema e Portogallo basamento alla Croce del Cristo… presto si salda, non più scindibile, al sembiante di Don Sebastião I.
Figura di sovrano fragile e ombroso, di complessione debole, anacronistico risoluto a impresa folle improponibile (cristianizzar l’Africa musulmana, scacciarvi il turco, regnare fino in Palestina), s’imbarca col fior fiore di nobiltà lusitana, olocausto gratuito insensato, verso il Marocco.
Ad Alcácer-Quibir appunto, si compie il fato: disfatto l’esercito, il fiore della nobiltà trucidato, El Rei stesso cade.
Ma, confuso tra innumeri altri corpi o le membra contese smembrate da cani selvatici e avvoltoi, o semplicemente “tolto” al semplice vedere, della spoglia mortale di Sebastião non si da traccia.
Il trono, vacante, passa agli spagnoli.
Da qui, sotto la mozione del Sapateiro Santo, del Bandarra (e benedizione finale di Vieira) fiorisce nel cuore lusitano l’attesa del ritorno.
O Encoberto, O desejado. Il Velato, Il Desiderato e Atteso.
Sottratto alla morte in battaglia, rapito agli occhi e sospeso, due volte Encoberto, ché un mattino di nebbia ne annuncerà il ritorno e Portogallo assurgerà al dominio del mondo, regno di pace ed ecumene, al Quinto Impero.
“Ho Paura. Come un bambino in un bosco di fiere” mormora Sebastião.
“La tua incapacità a regnare non è che l’appello del tuo vero Regno” sussurra o Sapateiro Santo.
“…La morte dunque?”
“Morte o re, per curare la tua carne malata, la purità della tua anima […] sarai uno spettro più reale della stessa vita”.
Messianismo ingenuo struggente, che più mette radice dove altro sogno, che diciamo Storia, ha fatto piazza pulita di speranze intramondane, reso cisterna colma di sofferenza un popolo.
“Sono entrata in quel paesino portoghese […] In riva al mare si svolgeva la festa del santo patrono. Le mogli dei pescatori facevano in processione il giro delle barche reggendo i ceri, e cantavano canti senza dubbio molto antichi, di una tristezza straziante. Nulla può darne un’idea. Non ho mai udito un canto così doloroso, se non quello dei battellieri del Volga”.
Il pathos Di Simone Weil, la sua superiore intelligenza analogica scovano un’anima affine alla lusitana, l’anima russa.
Anche lì un re scomparso e i falsi Demetrii (leggete, se vi pungola il confronto, Yves-Marie Bercé, Le roi caché, Fayard).
Ma soprattutto la coscienza, indistruttibile, di un destino messianico, di palingenesi con lo spirito e col fuoco, viva anche sotto i camouflages dei fatti storici (il Cristo di Blok…). Anche lì, solo più “energico”, il sentimento a voler farla finita con la Storia…
Dopo il trattato di Tordesillas (1494) e l’abbrivio dell’ascesa coloniale portoghese, dopo Alcácer-Quibir, dopo le conquiste e le rivendicazioni (Brasile, Africa, India, Sri Lanka, Cina), dopo i Pombal e i Bragança e la monarchia costituzionale…già nel XIX°secolo quel che resta son le briciole, tristi reperti di potenza incompiuta. Salazar, le guerre coloniali novecentesche, brutale inutile appendice.
La Sconfitta, di cui Alcácer-Quibir è vertice e prototipo, è la dominante dell’ alma portuguesa, poco possono garofani rossi e libertà. Ontem como hoje, ieri come oggi, dai tempi di Viriato.
Il mare-Leviatano ha avuto ragione di questa propaggine estrema d’Europa, affatto diversa, estranea.
E a ben vedere, a chi interessa oggi del Portogallo? Di Spagna al massimo si può sentir parlare (se non altro del suo calcio o della sua noiosissima movida). Del Portogallo mai, fateci caso. Fuori d’ogni interesse economico o mondano. Espunto, o solo dimenticato (sportivi a parte, ahinoi).
È così che fatti fuori dalla Storia, coscienti o meno, non resta che sognarsi in altro Sogno, saudade metafisica estrema, Don Sebastião o Quinto impero.
“Sogna Sebastião…” ripete il ciabattino veggente.
“Non siamo altro che sogni? Sogni che sognano altri sogni , che sognano il sogno della Verità?”
Lo Yogavāsiṣṭa contiene storie che svolgono i dilemmi: se un sognatore sia protagonista di un sogno altrui, se siamo certi di essere il sognatore finale di un sogno. Labile è il confine, ingegnose le conclusioni (riportate da Wendy Doniger in Sogni, illusioni, realtà, Adelphi).
Pessoa oscilla tra “sono un sogno di Dio” e “ho in me tutti i sogni del mondo”.
Il Quinto Impero è sogno portoghese, Sebastião il vessilifero. Oppure il Quinto Impero è reale e il Portogallo, tribolato sfinito, è il suo sogno. Oppure è Pessoa in Mensagem che ha sognato l’uno e gli altri?
Artificio sottile, modulabile all’infinito, estenuante.
Ma, quali che siano sognatore e sognato, l’attesa, dissimulata sotto indifferenza, continua.
Una voce insinua che Don Sebastião vive su isole fortunate, in attesa del ritorno.
Ma “ se vamos despertando/ Cala a voz, e há só o mar”, “se ci svegliamo/ la voce tace e resta solo il mare” (Mensagem).
Se Realtà vince sul Sogno, alla fine, si attende…
Il veggente alza il tono:“sarai un re di tutti i defunti e i nascituri, re della morte volontaria e vana. Re dell’umiliazione seppur feconda. Della perdizione, seppur trascesa. Della follia tale solamente agli occhi pavidi degli stolti. Sempre Atteso e sempre Nascosto, vero re di speranza”.
“Si” riprende Sebastião “un re velato in eterno, che sempre si attende perché sempre tarda, sempre si cerca perché sempre ci sfugge, che sempre si ama perché mai si conosce”.
Assolvenza. Un carrello in soggettiva inquadra alberi e cielo. Poi su fondo fisso, una stampa: Coimbra, 1663.
Altre ne seguono, Maranhão, Lisboa, Bahia…
È padre Antonio Vieira che appare e riappare nelle stazioni di sua vita. Altro film, altro Manoel De Oliveira, altra perla (Palavra e Utopia, 2000).
E in mezzo, sempre, il mare oceano. Che non raccorda, ma passa e sembra coprire tutto e tutto sembra votato a infrangersi sulle onde che battono la punta di uno scoglio.
Parola, Utopia, Regno.
“Ó mar salgado, quanto de teu sal / São lágrimas de Portugal!”
Pessoa, Mensagem
Come l’Arca Russa di altra inclassificabile pellicola, Portogallo naviga solitario abbandonico, smarginato fuor della Storia.
Perciò vi si declina (doppio senso: tramonta e manifesta) l’attesa che dispera, messianismo di sconfitti.
Figura amara di quel Regno che sempre tarda a venire.