Fondo nero. Titoli
Si principia dalla fine.
Cinema: ultimo buen retiro degli dèi. La star un astro da mitologia antica.
Non c’è cinema “d’autore” a bacchettar cinema popolare (cinema non ha autore, o ne ha molti).
La forma-cinema manifesta Feticismo totale (tutto il cosmo è grande magazzino di merci, i fantasmi della psiche ne sono i materiali, il guanto di Gilda primo tra gli exempla).
Si entra nella cavità buia del cinema come si entra in rêverie (o nei misteri antichi), tutto il contrario che a teatro. Tra l’occhio/obiettivo/proiettore e occhio di chi vede solo il masticar pop-corn, atto sacramentale a rammentar all’occhio umano che possiede un corpo.
Tutto il resto, sala buia, a macchina avviata, immagini che scivolano sul telone bianco, simulacra, è vorticante condivisa Allucinazione…
Buio. Assolvenza
Nell’ultimo Roberto Calasso, Allucinazioni americane (Adelphi) si trova certo anche una teorìa (seminale) sul cinema. Meglio ancora, c’è riflessione (si può dire dire altrimenti?) sull’atto del vedere, dell’esser visti, fisiologia dell’occhio. Lui che alla vita misteriosa-perturbante delle immagini si dedica da sempre (il prediletto Warburg!), manipola segni-concetti nuovi, se li fa alleati.
Figmentum, immagine mentale, sempre sospetta d’inganno, equivoca attraente; Fosfeni, fenomeni luminosi nel campo visivo, si stia ad occhi chiusi oppure aperti, che producono talvolta immagini autonome, mai viste (“truppe delfigmentum”, suoi mattoncini). Catafratto in nuovi concetti (immagini?) scandaglia Hitchcock sotto le specie delle opere filmiche maggiori (Vertigo, Rear Window), se le trova congeniali, in convergente sguardo. Ma su tutto cerca (trova) conferme all’ispirazione vedica che lo sostiene, lui col suo Libro Unico.
Primo rullo
Vertigo è film di idolo e copia, che Bibbia e Platone condannano. Canto al potere fatale del figmentum, l’immagine che si sdoppia e reduplica (Carlotta Valdes/ Madeleine/Judy), con tanto di chignon/fosfene ritornante spiralico segno di vertigine. La vertigine del protagonista è tutta giocata sull’immagine e la copia. E la copia è più potente, attrae, bigger than life più che la prima (e la copia è il cinema). Film feticista estremo, pellicola impressionata come eccesso di realtà; Scottie/James Stewart risucchiato dalla potenza dell’immagine, succube e complice dell’inganno originario, quadro/copia/doppio/ Kim Novak. Celebra l’occhio, umano e tecnologico. È film del pathos del vedere, soprattutto (ma ce ne sarebbero da Powell-Pressburger fino a De Palma…).
Rear Window film “gemello” di Vertigo, è in realtà set disposto a teatro mnemotecnico lulliano-bruniano, didascalica mostra di Ars Magna (“totalmente un processo mentale, condotto attraverso mezzi visivi”). I comprimari, Cuore Solitario, il pianista, il commesso viaggiatore… statue, immagini mentali, phantasmata. Anche qui James Stewart come occhio, occhio potenziato, “raddoppiato” da protesi tecnologica (fotografia), costretto all’immobilità, spettatore/voyeur porno-teologico di processione fantasmatica, tutto compresso nel “guscio di noce” della mente. Ma l’interno del guscio è smisurato, infinite kingdom.
E cinema è estroflessione del regno del mentale.
Intermezzo
(Ci sarebbero, di sfuggita, anche Max Ophuls e Lola Montès, già evocati nella Rovina di Kasch, ma solo Alfred è ossessione, campo di verifica).
Secondo rullo
Calasso cala le sue carte.
L’occhio cinematografico, l’occhio che vede è ātman e aham, il Sé e l’Io. Sguardo sovrano immobile (Stewart) e fabbricante dei tanti nostri “io” (il commesso, gli altri).
Camera e sguardo.
Come “il brahamano che vigila, silenzioso e immobile, sul sacrificio e l’officiante che lo compie”.
Ancora e sempre il sacrificio. Atto più rivelatore, metafora più totalizzante per Calasso non c’è, fin da Kasch lo va dicendo. Che cos’è, ci dice, Rear Window, se non mise en abîme di sacrificio e sdoppiamento? Fotografo immobilizzato e fantasmi mentali, il commesso viaggiatore e assassino della moglie, ātman e aham in confronto mortale fino al ripristino dell’ordine cosmico/palazzo? Anche il cinema ripete l’identico, l’atto originario. Come la letteratura deve agir su nervi e immaginazione, al di là delle esegesi. Anzi, più che la letteratura, cui ha sottratti da tempo convenzioni e generi.
Ecco pura dottrina vedantico-hitchockiana!
Perché dietro ogni fenomeno saturo di elettricità Calasso vuole India arcaica, di ogni figura fa riverbero di Vāc, parola primordiale. E cartografa gli spazi aperti della mente al lume di Śaṅkara. E anche il cinema si gioca ad Hollywood, ma finisce tra i Saptaṛṣi de L’Ardore. Se sia ermeneutica corretta non sappiamo, fascino e persuasione non le mancano. Né profondità e vertigine.
Cut
(Ci sarebbe anche il Kafka di America, che però nulla aggiunge, se non che America è luogo deputato al cinema e allora leggetevi direttamente K.).
Off screen
Cinema: Vedere il vedere (perché non Eckhart, Ruysbroeck?). Sacrificio. Replica dello spazio mentale e Sdoppiamento. Allucinazione. Si finisce da dove siam partiti, come al cinema. Che non scorre a senso unico. È circolare, rotondo, reversibile. La pellicola si riavvolge (rotondi sono anche i dischi laser). Guardare quel film assoluto che è L’arca russa di Aleksandr Sokurov per capire. Questo Calasso non lo dice, è verità esoterica che lascia fuor di schermo. Rotondo come l’anello di Lisa/Grace Kelly, come la verità degli eleati, come il circolo sacrificante-sacrificato e le “pizze” di pellicola, come il mondo dove senza posa ritornano gli dèi.
Sarà anche per questo che Calasso ci fa sopra della metafisica?