“Questo libro non parla di eroi. La poesia inglese non è ancora adatta a parlarne.”
Non è certamente una poesia retorica e celebrativa, quella di Wilfred Owen. Lo si intuisce sin dalle prime pagine della sua prefazione. Perché Owen non intende parlare della bella morte e delle eroiche conquiste britanniche. Una poesia “eroica” gli era estranea e non poteva nemmeno riguardare il pubblico della sua opera. Sono infatti tramontati grandi miti della mondialità europea, ovvero di quel trionfo delle speranze progressiste e globali del vecchio continente. La tecnica ha mostrato il suo lato grottesco e terribile. La bella epoque è finita e il malinconico autunno del mondo di ieri cede il passo al freddo inverno di un secolo animato dalla violenza e dalla devastazione. In cui gli stessi poeti si trovano a disagio nel sentirsi vati e medium. Forse per questo l’opera di Owen:
“Non si occupa di poesia.
L’argomento è la guerra e la pietà della guerra.
La poesia è nella pietà.”
Sin dai primi componimenti dei Poems (pubblicati postumi), l’autore offre uno scenario ben definito. Un paesaggio di trincee e relitti umani e metallici, in cui gli uomini vengono macellati in nome del militarismo, dell’onore nazionale, di credi utopici. Un mondo quello della prima guerra mondiale in cui Owen entra nel 1915.
Wilfred Owen è un poeta britannico, nasce nello Sharpshire nel 1893 e si forma tramite le letture della Bibbia e di John Keats. Cresciuto da buon ragazzo anglicano, che scopre presto la propria vocazione di poeta. Che frequenta studi umanistici e che nel 1915, a pochi mesi dello scoppio della WW1, viene arruolato nella artistrifle. Compiendo un addestramento militare che lo porterà algrado di secondo tenente al comando di un plotone che guiderà nell’inferno d’acciaio del fronte occidentale nel 1917. In tale inferno partecipa alla battaglia della Somme, una delle più dure e crudeli della prima guerra mondiale, riportando traumi gravissimi. Tra cui un forte shock da granata che lo porterà negli ospedali militari dell’intesa. In tali ospedali avverrà l’incontro capitale con Sigfried Sassoon. Poeta anticonformista ed antimilitarista, carismatico e magnetico, che incoraggerà Owen a scrivere alla ricerca di un linguaggio crudele e realistico, capace di raccontare l’esperienza del fronte in tutta la sua potenza terribile. Sassoon sarà per Owen una figura fondamentale per la ripresa di uno stile che poi verrà superato dall’autore di 1914, di un riferimento umano che sfocerà nell’ammirazione, nell’adorazione e forse anche in qualcosa di più profondo. Una ricerca della guerra come esperienza assoluta che lo porterà di nuovo, contro le proteste del suo mentore, nel conflitto, dove si spegnerà eroicamente in un assalto. Della sua opera Sassoon celebrerà la vena antiretorica, la profonda intensità del linguaggio e una tendenza allo scomparire, a non galvanizzarsi come eroe o figura epica, tipica di molti war poets.
Tutta l’opera dei Poems è piena di disincanto, di realismo, di uno stile che, giocato su rime imperfette, assonanze e consonanze, cerca la resa della vita del soldato. Dello desolazione del mondo bellico, in cui gli esseri umani sono trucidati con noncuranza da strategie di logoramento, che non hanno nulla a che vedere con l’immagine della guerra dei poeti classici. Facendo suo il mantra di Sassoon sulla fine dei soldati: “Addio! / Vorrei t’avessero ucciso in uno spettacolo dignitoso”.
Tale contrasto tra la battaglia epica dei classici e dei poemi e quella dei fanti e delle trincee, tra guerra letteraria, favoletta dei potenti, e guerra vera, vissuta dai soldati è il centro del capolavoro di Owen: “dulce et decorum est”. La poesia ricalca il verso di Orazio, che celebra la morte per la patria, del bel sacrificio buono e giusto. L’incanto antico sbiadisce nello scenario terribile delle tempeste d’acciaio.
Gas! Gas! Veloci, ragazzi! – Un brancolare frenetico,
il suo volto abbassato, come un diavolo stanco di peccare;
se tu potessi sentire, ad ogni sobbalzo, il sangue
che arriva come un gargarismo dai polmoni rosi dal gas,
ripugnante come un cancro, amaro come il bolo
di spregevoli, incurabili piaghe su lingue innocenti
Come in Ernst Junger di “nelle tempeste d’acciaio” non esistono grandi duelli ed eroiche parate, c’è lo spettacolo indegno della tecnica, che entra pervasiva nel conflitto, che trasforma gli uomini non in soldati ma unità, non in paladini di un idea ma in munizioni di generali antiquati e sadici. Tra i gas e le raffiche di mitra. Rivolgendosi alla poetessa nazionalista Jessy Pope, ribalta mostra il vero volto della guerra:
“amica mia, tu non diresti con tale profondo entusiasmo
ai figli desiderosi di una qualche disperata gloria,
la vecchia Bugia: Dulce et decorum est
pro patria mori”.
Volto che emergerà in un altro capolavoro della raccolta: Anthemfor doomed youth.
“Quali campanelli di passaggio per coloro che muoiono come bestiame?
Solo la mostruosa rabbia dei cannoni.
Solo il rapido rantolo dei fucili balbettanti
può tirare fuori le loro frettolose orazioni”.
Un grido contro tutti gli idealismi e i nazionalismi, lui socialista utopico, contro ogni forma di falsificazione dei conflitti. Contro gli slogan patriottici di una Fatherland che come Crono divora i suoi figli:
“Nessuna presa in giro per loro; niente preghiere né campane,
né voci di lutto salvo i cori, – i cori
striduli e folli di conchiglie lamentose;”
Nel componimento, i giovani inglesi vengono sacrificati innocenti ad un massacro che non li riguarda. Come viene sottolineato in “parabola del vecchio e del giovane”, i soldati britannici vengono immolati come Isacco dai loro padri, ma in questo scenario, nessun messo divino si oppone a quel sacrifico insensato. La frattura col mondo antico si fa più profonda, suscitando nel lettore amarezza e disincanto. In questo rituale si sostituisce ad Abramo, Caifa.
Finisce quel mondo illusorio ed infantile, cavalleresco ed eroico. I soldati subiscono una diseducazione sentimentale che li educa alla violenza, alla spersonalizzazione che trova il suo apice in “armsand the boys”.
“Lascia che il ragazzo provi con questa lama a baionetta
Com’è freddo l’acciaio e bramoso di sangue;
Azzurro di ogni malizia, come il lampo di un pazzo;
E finemente disegnato con fame di carne”.
Preparati a diventare strumenti della guerra i ragazzi innocenti stringono un rapporto con le armi, con la propria fine. Disumanizzandosi sempre di più, al contrario di esse che diventano più umane, più organiche. Disumanizzati e smarriti, abbandonati a se stessi, i soldati di Owen sono preda del caso, dell’assenza di giustizia e pietà. Che in “Exposure” sentono che “l’amore di dio sembra morire”. Soli, circondati da sciami di proiettili, dallo spettro della morte, essi trovano unico rifugio nell’apatia come in “insensibilità”, dove davanti agli “sciocchi in lacrime per le menzogne dei poeti”, gli esseri umani sono solo “spazi vuoti da riempire di cui nessuno si preoccupa”.
Ail’insensibilità, nella vita della trincea si uniscono la follia, come in “casi mentali”, sullo shock dei soldati , e il sogno. Sogno che in “Dream of the soldier” diventa il regalo fatto da cristo di far finire i conflitti e le stragi, di svegliarsi un giorno e vivere di nuovo in pace. Sogno che al risveglio è boicottato: “Ma Dio fu contrariato, pieni poteri conferì a Michele; / E quando mi svegliai lui aveva visto e provveduto”.
Uno scenario orroroso da cui è impossibile scappare. Che come una cicatrice accompagna i reduci, che ingannati da parate e onori, ritornano ad una vita che per loro è una lunga degenza. Che in “a terre” diventa la confessione in lacrime di un mutilato che si accorge che il suo non è il ritorno del veterano, ma di un sopravvissuto, che agli occhi di quella società non è un eroe, ma uno scarto. Che anche nella vita civile vive “ a terre”ostaggio dei ricordi, supino sul fango da cui non riesce a rialzarsi, imprigionato nell trincea della mente e della vita del dopoguerra. Che non è ornata da grandi lezioni morali, ma della conoscenza di “tutte le arti del dolore”.
La prima guerra mondiale di Owen è tragica e misera, fredda e alienante. Oltre le favole del nazionalismo, della propaganda regia, il poeta mostra la vera realtà dei campi di battaglia, che più che a quella dei quadri neoclassici di David, fieri e maestosi, ricorda gli untitled di beksinki, con i suoi carro armati arrugginiti, i suoi uomini simili a rottami e scheletri. Dove compaiono eroismi ed atti epici, come racconta la vita stessa del poeta, ricca di episodi pluridecorati e che lo rendono un eroe dell’esercito britannico, o l’elogio del cameratismo, come massima forma di solidarietà in “Apoloia pro poemate meo”, ma che non giustificano ma anzi sottolineano il disprezzo verso tutte le guerre. Nella war poetry di Owen il novecento è il secolo della tecnica e della guerra, tragico e terribile che, come dice Osbowrne, inizia in quel fatidico 1914, che inaugura la stagione infernale della storia umana:
“Scoppiò la guerra: e ora l’inverno del mondo”