Il mondo attuale, complesso e caotico, contraddistinto da diverse reti di interazioni di carattere antropico, articolati secondo diversi livelli gerarchici, quali idee, culture, nuove attitudini mentali, costumi comportamentali sembra focalizzarsi verso una dissipazione dei valori fondati sulle identificazioni nazionali Otto-Novecentesche, soprattutto tra la generazione Z più istruita, oltre a una sempre minore aderenza ai legami di carattere familiare, metamorfosi dell’etica del lavoro, non più fondata su logiche dell’etica lavorativa dicotomica tra classe borghese e operaia. In Italia specialmente, tuttavia, permangono dei valori culturali secolari che sembrano non avere soluzione di continuità e che a volte si sovrappongono ai nuovi. Ne consegue che lo sviluppo della storia sembra essere quindi fermo, immobile.
Adam Ferguson, esponente dell’illuminismo scozzese, nella sua opera History of civil Society, sosteneva l’esistenza di una diversa velocità nel processo storico tra le diverse popolazioni, in cui vi erano società, con alcune che si modificano velocemente e altre che si modificavano lentamente. Se Ferguson vedeva l’economia come motore di sviluppo, nella mentalità italiana può essere declinata in maniera diversa. All’interno di una società vi sono forme culturali, costumi morali, che sembravano nascere e svilupparsi velocemente, altre che invece permangono imperiture.
Per addurre ciò, possiamo prendere a prestito autori che avevano la capacità di saper osservare i costumi dei propri contemporanei e trasferirli nelle loro opere, nei generi più disparati, lasciando una testimonianza dei valori fondanti della società della penisola italiana e che ancora, anche sotto diverse forme, permangono attuali.
Diego Quaglioni, storico del diritto, nella prefazione alla traduzione del De tyranno di Bartolo da Sassoferrato, testo classico della saggistica giuridica tardo medievale, lo definisce un’opera «destinata alla base di sempre nuove riflessioni». Prendendo in prestito la tesi di Quaglioni, uno dei classici del pensiero politico per antonomasia è Il Principe di Machiavelli, che in questo contesto può essere interpretato come una sorta di trattato di storia antropologica. Una fotografia dei costumi italiani d’inizio Cinquecento, ma che sembrano ancora persistere. Il passo da analizzare fa parte del capitolo VII, intitolato De Principatibus novis qui alienis armis et fortuna acquisintur, inerente la decisione di mettere a morte il presidente della Romagna e suo stretto collaboratore Ramiro de Lorca, per accontentare gli animi dei riottosi romagnoli, stanchi delle vessazioni della politica attuata da Lorca. Cesare Borgia, sorprendentemente, per mantenere lo Stato saldo nelle sue mani, fece uccidere lo fece uccidere esponendo poi il suo corpo nella piazza di Cesena «in due pezzi in su la piazza, con uno pezzo di legno e uno coltello sanguinoso accanto». Il gesto spettacolare, crudele, causò nel popolo romagnolo, oltre che un sentimento di soddisfazione per l’avvenuta esecuzione, anche anche un sentimento di sorpresa, «la ferocia del cui spettacolo fece quegli popoli in un tempo rimanere satisfatti e stupiti». Il popolo, secondo Machiavelli, non aveva capito che Lorca aveva attuato le politiche volute da Borgia, ma quest’ultimo vedendo il popolo sempre più scontento di quella politica fece uccidere il suo collaboratore, scaricando su di lui tutte le colpe politiche.
L’altro fiorentino, sodale di Machiavelli dal 1521, Francesco Guicciardini, nel Trattato intitolato Dialogo sullo Stato di Firenze – trattato culturale, politico, filosofico, scritto in forma dialogica – fa dire agli «uomini da bene», Bernardo del Nero, che il popolo di Firenze preferiva la tirannia al vivere civile. Per Guicciardini la tirannia era quella velata del regime mediceo: «La plebe ancora molte volte si inclina, perché quando il tiranno ha del savio, ha sempre cura dell’abbondanza e la diletta spesso con feste, giostre e giuochi pubblici: e gli piace la magnificenza della casa e corte sua, che sono le cose che pigliano la gente basse».
Fotografia di certi valori italici può essere data dalla “filosofia della musica” ma non nell’accezione repubblicana di Mazzini, ma analizzata come letteratura sociale. Il riferimento è alla lirica, genius loci italiana, tra l’altro entrata nella lista dei patrimoni culturali immateriali dell’umanità dell’Unesco nel 2023. A riguardo è emblematico il ruolo che ha avuto la cavatina «La Calunnia è un venticello» (Atto I, scena 8), dell’opera buffa del Barbiere di Siviglia, libretto di Cesare Sterbini e musicato da Gioachino Rossini, composto nel 1816 e andata in scena nello stesso anno al Teatro Argentina di Roma.
Sterbini inserisce il tema della Calunnia quando Don Basilio, maestro di musica, consiglia al poco vegliardo Don Bartolo, che vuole sposare la bella e giovane Rosina, di utilizzare l’arma della calunnia per sconfiggere il suo rivale in amore, l’aristocratico Conte di Almaviva. Calunnia, che deve essere un “venticello“, come viene riportato nella metafora al primo verso, pettegolezzo, diffamazione, messa in giro appositamente per denigrare una persona, per poi diventare un colpo di cannone e infine un temporale. Così, dal sussurrare, in un crescendo rossiniano, si va infine ad insinuare nella mente della persone. Ciò che ha riportato Sterbini, può essere reinterpretato con quello che era la cultura della Roma papalina di inizio Ottocento e che ancora oggi sembra persistere nella cultura italica, ovvero l’arte del sussurro: pettegolezzo come fattore determinante nell’elaborazione del giudizio in una parte della società italiana.
Ma il pettegolezzo, la calunnia, come filosofia morale per una certa società si insinua anche in un altra caratteristica atavica: il menefreghismo, l’indifferenza. Il giovane Antonio Gramsci, nel celebre Odio gli indifferenti, editoriale della rivista Città futura dell’11 febbraio del 1917, denunciò i costumi dell’Italia liberale e in pieno conflitto bellico, parte di una società fondata sul parassitismo, qualunquismo: «I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa». Ma quando la storia, per Gramsci, presenta il conto, colui che rimane indifferente, si dispera e “bestemmia”, ma nessuno si fa un esame di coscienza intellettuale perché – aggiungiamo noi – quella coscienza intellettuale è assente. Indifferenti, come categoria sociale e intellettuale, insita nella società italiana del primo ventennio del Novecento, che utilizzò anche Mussolini, il 4 ottobre del 1922, qualche settimana prima della Marcia su Roma: «Dividiamo gli italiani in tre categorie: gli italiani indifferenti che rimarranno nelle loro case ad attendere; i simpatizzanti, che potranno circolare; e finalmente gli italiani nemici, e questi non circoleranno».
Ma la domanda che ci si può porre è una: ma chi sono gli indifferenti oggi? Quella categoria, trasversale, non chiaramente definibile, la si può ritrovare nel 2024 in quel 51,4% che non ha esercitato il diritto di voto in occasione delle elezioni europee, che ha come filosofia politica il commento da bar con la frase fatta: «I politici sono tutti uguali, pensano solo a farsi gli affari loro». Ma chi è che fa queste affermazioni? Secondo un sondaggio abbastanza recente, stilato dalla rivista portoghese Divergente, insieme all’Osservatorio sui Balcani e Caucaso-Transeuropa e al Sole 24 Ore, coloro che non votano sono in larga parte impiegati nel settore primario, agricoltura, che hanno un basso grado di livello d’istruzione e perlopiù anziani. Con le successive elezioni a questa tipologia di profili si è unità anche una parte della generazione Z, che si sente esclusa o a cui semplicemente non importa. L’Uomo del Guicciardini di De Sanctis, costituito dal mero interesse personale, sembra essere ben presente nella società italiana.