OGGETTO: L'insostenibile ottusità del riarmo
DATA: 04 Aprile 2025
SEZIONE: Difesa
FORMATO: Analisi
AREA: Europa
Aumentare la spesa militare, come sostenuto dalla Premier, per sostenere sull’asse geopolitico il ruolo del nostro Paese nel caos mondiale (segnato dalla rimonta delle politiche di potenza degli Stati Uniti e il consolidarsi dei loro rivali) è davvero una scelta previdente o corre il rischio di trascinarci in una spirale fatale con una guerra ai confini che avremmo tutto l’interesse a disinnescare?
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L’esigenza di riarmarsi, fatta valere dalla presidente della Commissione europea Von Der Leyen sulla scorta della Realpolitik invocando l’importanza della deterrenza militare per garantire la pace e tutelare l’unione dagli attacchi esterni, spingendo ad un piano monstre da 800 miliardi spalmati su quattro anni grazie allo strumento finanziario Safe e al ricorso ad una procedura accelerata del trattato Tfue (scavalcando così il dibattito tra gli stati membri). Questo ha occupato il dibattito degli ultimi giorni, rimbalzando sulle vetrine social e accendendo lo scontro tra gli schieramenti politici. Difatti le mosse geostrategiche del presidente statunitense Donald Trump con l’obiettivo di spostare il fuoco di concentrazione (vedremo dai prossimi sviluppi fino a che punto, essendosi detto recentemente deluso dal premier della federazione russa) sulla Cina e il Medio Oriente cercando di strappare in punta di Patriot e Nasams un accordo con la Russia congelando così gli scontri bellici alle porte d’Europa sono state una doccia fredda per i paesi del blocco occidentale, che col cambio di amministrazione americana sono stati presi in contropiede e devono decidere della propria difesa.

Con l’ingombrante alleato d’oltreoceano in posizione sempre più defilata sullo scacchiere geopolitico della UE di cui lamenta il parassitismo, con il disegno americano di fare incetta di risorse strategiche per eventuali conflitti con le potenze emergenti (in questo senso possono interpretarsi le mire sulla Groenlandia espresse come boutade) mentre tenta di contenere l’ascesa del Dragone cinese, la fragile unità europea rischia così di sbriciolarsi per effetto delle spinte centrifughe a parere della Von Der Leyen, che caldeggia un esercito comune.

A fronte dell’emergere di conflittualità ai confini dell’Unione, il tema della difesa del proprio paese in nome della sicurezza dei confini e della tutela della democrazia riveste un ruolo centrale nel discorso pubblico, fungendo da utile spia sulla salute e la solidità di un sistema paese avanzato. La difesa sacrosanta delle proprie istituzioni democratiche e degli spazi di libertà assicurati dall’esercizio del diritto, però, nascondono spesso l’incognita di essere strumenti di “manufacturing consent” per dirla alla Chomsky, mettendo sotto il tappeto e nascondendo al filtro del pensiero critico una serie di ombre minacciose che si addensano intorno ai più nobili ideali. La presidente della Commissione europea seguita a ruota dal professore della Cattolica parla dell’urgenza di armarsi, di implementare un arsenale comune sufficientemente efficace da poter rispondere qualora servisse alle destabilizzazioni e ai tentativi di guerra ibrida correrebbe forse il rischio di assecondare quella che Paolo Borgognone definisce la “dottrina Stranamore”, la russofobia imperante, l’incapacità di slegarsi dall’egemonia del dominus americano per inseguire una propria rotta geopolitica, la sudditanza al Washington Consensus ecc.

In prima battuta, pertanto, si tratterebbe di capire se il ricorso alla deterrenza militare con l’acquisto di copiose risorse tecnologiche da impiegare nelle guerre prossime venture non possa innescare una spirale perversa irrorando di fiumi di denaro il complesso militare industriale che una volta fattosi sempre più potente potrebbe dettare legge alla politica per bocca di fondi speculativi divenuti nel frattempo ciclopici, come illustrato in un articolo sul Manifesto del 25 marzo scorso in riferimento al governo di Gerusalemme dove l’industria delle armi ha fatto di Gaza un laboratorio per dispiegare le proprie innovazioni sulla pelle dei palestinesi come nel caso dell’unità israeliana 8200 che fa largo uso di AI. In questo senso il pericolo di una fusione tra interessi bellici a scopo difensivo e ragioni economiche di tutt’altra natura come nel caso dell’arena dei capitali monopolistici prodotti dalla fusione tra trust, cartelli, ecc. che nella foia di spartirsi le risorse mondiali sfociano nella guerra tra imperialismi borghesi contrapposti ognuno col suo complesso capitalistico descrittaci da Lenin nel lontano 1917 non è così peregrino. Un’Europa unita contro un nemico comune esterno identificato da uno stuolo di intellettuali e sedicenti esperti con la Russia non accrescerebbe la nostra consapevolezza di fare parte di qualcosa di più grande di noi come vorrebbe farci credere una facile volgarizzazione di alcune idee controverse di Altiero Spinelli, spingendoci invece verso un baratro senza ritorno, immolandoci in guerre per conto di terzi che non abbiamo nessun interesse a combattere.

Roma, Gennaio 2025. XXIII Martedì di Dissipatio

Se poi è vero come sostiene la Meloni che rinunciare ad incrementare le proprie risorse difensive fa il gioco di quanti meditano di attentare alle nostre libertà, condannandoci all’inazione mendicando la protezione altrui estorta sempre con precise assicurazioni e monete di scambio, allora forse conviene maggiormente al nostro paese  optare per una neutralità intelligente, una geopolitica della grazia, super partes, per dirla alla La Pira, anche in ragione delle lacerazioni in seno alla politica italiana sul tema del ReArm Europe tra i partiti del nostro arco costituzionale (come rilevato in un articolo di Renato Mannheimer per Italia Oggi). Un’Italia finalmente autonoma, ponte tra Oriente e Occidente capace di porsi come mediatrice tra potenze in ascesa e quel che rimane del blocco di paesi occidentali preda della necrosi nichilista analizzata dall’accademico Emmanuel Todd contro un’Italietta “nave senza nocchiere in gran tempesta” deprivata di sovranità (che non è come vogliono gli strilloni del luogocomunismo un termine protofascista) ed esposta all’arbitrio geopolitico di quanti non facciano i suoi interessi. Proprio il sociologo Todd in dialogo con il politologo David Teurtrie riferendosi all’improvvida iniziativa della Von Der Leyen sponsorizzata da Macron e dal codazzo di politici europei favorevoli all’esercito comune, constatava che malgrado la de-demonizzazione del popolo russo grazie all’elezione del presidente americano la UE si stesse incamminando pericolosamente verso politiche prive del senso di realtà, in un tripudio di keynesismo militare, aggiunge Teurtrie, facendo debito per siliconare l’industria delle armi reinvestendoci il surplus economico (descritto dai marxisti Paul M. Sweezy e Paul Baran nel 1966) precipitando verso l’autodafé.

Impossibile non citare in tema di derealizzazione per i politici europei, incapacitati, a detta di Todd come nel caso di Macron di fare uso di raziocinio esercitando distacco sulla guerra russo-ucraina anziché dare adito a riarmi bellicisti, quanto notavano antropologi quali Roger Caillois e René Girard a proposito dell’attitudine umana alla guerra: se il primo in un saggio del 1963 delineava un profilo del conflitto mortale avvolto nei fumi inebrianti del sacro e resosi più sanguinario con il progredire delle tecniche e della civiltà sempre più irregimentata e standardizzata fattasi festoso sacrificio supremo sacrale, il secondo nel 2008 ravvisava nella guerra un tropismo verso l’estremo di carattere religioso, per azione reciproca dei contendenti che cedendo all’escalation tendono fatalmente verso l’autodistruttività. A partire da queste considerazioni risulta chiaro che, se l’Europa si incamminasse inopinatamente sulla strada del confronto armato con la federazione russa trasformandosi in un polo imperialista facendo venire meno la sua partecipazione democratica (già ora relativamente fragile vedesi la gestione della crisi greca, il discusso fiscal compact che impedirebbe politica espansiva, ecc.) per effetto del formarsi di un complesso militare-industriale sarà la fine dell’Unione e di rimbalzo dei valori democratici che ne animavano sulla carta il progetto originario, mentre tutti noi ci troveremo trascinati nel gorgo di un conflitto che suonerà la campana a morto della UE.

Proprio per scongiurare questa possibile deriva del tutto in contrasto con i nostri interessi, bene farebbe l’Italia a prendere la via strategica austriaca di tirarsi fuori meditatamente dal conflitto ucraino, rinunciando a partecipare all’invio di forze di peace keeping e nel contempo preservando da un lato buoni rapporti diplomatici con il Cremlino per ottenere risorse energetiche a prezzi maggiormente convenienti e dall’altro cercando il supporto cinese per negoziare un accordo tra le parti che coinvolga davvero tutti volto sia a preservare l’autonomia di Kiev che a garantire il rispetto delle minoranze russofone riconoscendo le ragioni russe dietro all’intervento armato in Ucraina. In questa direzione più che un riarmo servirebbe una maggiore cooperazione pragmatica dei paesi dell’Unione escludendo la cancellazione delle sovranità particolari, come muro di gomma rispetto a rischi antidemocratici di governi verticistici da Bruxelles in giù, come sostenuto dal ministro della difesa italiano intervenendo a Quarta Repubblica il febbraio scorso. Una razionalizzazione della spesa militare e un efficientamento delle risorse belliche puntando sulla condivisione di expertise potrebbe fungere da valida alternativa al pericolo di un impiego delle forze militari calato dall’alto, rinforzando una serie di paletti comuni negoziabili e aprendo ad una riforma democratica della UE rendendola finalmente al servizio del benessere popolare.

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