«Non è difficile diventare padre. Essere un padre: questo è difficile».
È interessante quanto calzi bene l’aforisma del pittore e poeta tedesco Wilhelm Busch per descrivere la vita, personale e politica, della neopremier Giorgia Meloni. Lei di padri ne ha avuti due, entrambi in un certo senso rinnegati. Ed è forse in questa sua autarchica fierezza che va ricercata la chiave del suo successo. O quantomeno nella creazione dell’immagine da selfmade woman che tanto è piaciuta all’elettorato del 25 settembre.
Col padre biologico Giorgia Meloni chiude i rapporti quando lui va via di casa e lei ha solo 11 anni. Passano pochi anni, ne ha adesso 15, è il 1992, e inizia a frequentare il Fronte della Gioventù, la sezione giovanile dell’MSI. Il partito di Almirante diventa la sua seconda casa, il suo capo politico è allora, e lo sarà quasi ininterrottamente fino all’esperienza con il PdL, il bolognese Gianfranco Fini, il suo secondo padre, il padre politico. Un padre che Giorgia abbandonerà con la decisione di non seguirlo nella fuga dal partito di Berlusconi. Più di tutti gli altri, Fini è un padre a cui Giorgia non vuole proprio assomigliare.
Che sia stato proprio Fini il leader quasi incontrastato per due decenni del maggior partito di Destra è difficile da pensare. La Destra che oggi, in seguito all’esplosione dei sovranismi europei e del populismo di nuova generazione, appare così intransigente e in continua dimostrazione muscolare, stona con la pacatezza del linguaggio che è stata la cifra stilistica finiana, ma probabilmente lo è stata di un’intera classe politica che oggi è scomparsa e che farebbe fatica ad adattarsi alla comunicazione dei social, breve, emozionale e spesso sguaiata. Fini non è stato soltanto a capo del maggior partito di destra in Italia, ma ha avuto anche il gravoso compito di rinnegare un passato ingombrante e di traghettare la sua parte politica verso orizzonti di governo. Ci si può spingere fino a dire che se Fratelli d’Italia oggi è il gruppo più consistente in parlamento e i suoi dirigenti siedono sugli scranni più alti dei palazzi del potere, probabilmente è anche grazie a questa lunga operazione di sbiancamento del post-fascismo italiano di cui Fini, dai primi anni ’90, è artefice e contemporaneamente vittima sacrificale.
Lo scarto più profondo con la nuova generazione meloniana risiede in gran parte proprio nel rapporto col fascismo. Fini ha operato per eliminare le ambiguità della storia della sua parte politica, dallo scioglimento dell’MSI per lasciare «la casa del padre con la certezza di non farne più ritorno», al cruciale viaggio del 2003 in Israele nel quale chiede pubblicamente scusa per le leggi raziali definite il «male assoluto» dell’Italia. Israele diventerà poi un elemento importante della sua vita politica: nell’ottobre del 2009, da Presidente della Camera sigla un protocollo di collaborazione parlamentare con, il presidente della Knesset, il suo omologo israeliano, a cui seguono negli anni successivi alcuni incontri ufficiali. Infine, secondo fonti di Dissipatio, sarebbe stato recentemente richiamato per curare i rapporti con Gerusalemme.
Giorgia Meloni, di contro, ha cavalcato proprio sull’ambiguità di certe vicinanze e presunte simpatie di alcuni dei suoi, come quando non riuscì a riconoscere “la matrice” dell’assalto alla sede della CGIL nell’ottobre del 2001. Gianfranco Fini, dopo essere stato fagocitato dal berlusconismo e aver provato a rilanciarsi con Futuro e Libertà per l’Italia per le elezioni del 2013, è sparito dallo scenario politico. Non ha più alcuna tessera di partito, non fa parte di nessun movimento, non fa l’opinionista. Ultimamente però è tornato a far parlare di sé, contemporaneamente in un articolo su l’Espresso a firma di Susanna Turco sul rapporto tra lui e la Meloni, e in un’ospitata da Lucia Annunziata in televisione.
Dagli studi di Rai 3, l’ex AN riprende alcune tappe della sua storia e analizza gli equilibri formati nella nuova compagine di governo, un governo di «destra-centro», come lui stesso lo definisce. L’occasione che Fini raccoglie è quella di ricucire un rapporto logorato con la Meloni, da quando lei e i suoi compagni di AN non lo seguono nella scissione con il partito del Cavaliere e successivamente decidono di organizzare il primo congresso di FdI proprio a Fiuggi, dove Fini nel 1995 ufficializza la dissoluzione dell’MSI e la nascita di AN. Celebrare la nascita del nuovo partito di destra nella cittadina laziale e riproporre nel simbolo la fiamma tricolore significava porsi in continuità con una storia che evidentemente Fini non sembrava più seguire. Dal suo canto, quell’occasione, il padre di AN la vive come un’operazione puramente nostalgica e riserva ai vecchi compagni di partito una nota sprezzante. Li definisce «bambini cresciuti e viziati» che cercano di «imitare fratelli maggiori», che rischiano di far piangere «di rabbia, non certo di commozione» e chiede di non ripetere in farsa la storia di AN. Una paternale politica alla quale l’ex pupilla replica proprio dal palco di Fiuggi, portando a compimento il disconoscimento del padre politico. Nel suo intervento, le parole scelte richiamano proprio la sfera familiare e vanno a mescolarsi inevitabilmente con la vicenda personale, specie nel passaggio nel quale sottolinea: «Siamo uomini e donne che sono dovuti crescere troppo in fretta» come accade a chi è abbandonato dal padre «che a un certo punto scappa di casa e se ne va in giro a sperperare un patrimonio».
Da quel momento la rottura tra i due è incolmabile e sarà costellata negli anni a seguire da altri attacchi diretti alla leader di FdI. Sarà però proprio Fini, durante l’intervista da Lucia Annunziata, a suggerire un riavvicinamento, provando a ritagliarsi un ruolo precursore, come tra chi ha «indicato una strada» che tocca «ai più giovani percorrere». Minimizza su quello che ora definisce come uno scetticismo sulle scelte dei vecchi compagni di partito, dà ragione alla Meloni dichiarando di averla votata alle ultime elezioni. Continua e spalleggia la premier sulle accuse del centrosinistra di non dichiararsi apertamente antifascista richiamando proprio la svolta di Fiuggi dalla quale la Meloni non si è mai dissociata, né tantomeno il segretario della sua sezione dell’epoca, Fabio Rampelli. Sulla questione antifascismo continua, affermando l’assenza di ambiguità del governo in merito e chiedendo alla sinistra di includere nella pretesa di un antifascismo condiviso anche quella di un patriottismo condiviso e di evitare di assimilare l’idea di patria tra quelle della destra più nostalgica. Ritorna, poi, sulla questione ripresa nell’ultima campagna elettorale sulla fiamma tricolore nel simbolo di Fratelli d’Italia, ma in realtà presente anche nel simbolo di AN senza che facesse scandalo o che gli venisse chiesto di cancellarla da parte della sinistra.
In chiusura, alla richiesta della conduttrice di dare un consiglio alla Presidente del Consiglio, l’ex AN centra subito il punto, riproponendo un tema che già una ventina di anni fa esponeva a critiche interne: i diritti civili. «È una materia delicata» soprattutto quando si parla di «famiglia e orientamento sessuale», perché si incrociano questioni di identità culturale e religiosa con l’assunto imprescindibile della laicità delle istituzioni, il mutamento delle sensibilità popolari e il progresso della scienza. «Su queste questioni», conclude, «i governi farebbero meglio» a lasciare che sia il «parlamento a occuparsi di questo». In ultima battuta non si trattiene dallo scoccare una frecciatina: «E magari è anche meglio che rimangano le mascherine obbligatorie per i medici negli ospedali». Gianfranco Fini non vuole ritornare in politica, né vuole avere un ruolo attivo in questa nuova stagione della destra, anche se forse lo avrà. Ma è impossibile non leggere nel suo sguardo un piccolo senso di orgoglio e senso di colpa, come quello di un padre che torna e vede che a casa ce l’hanno fatta senza di lui.