Il 6 e il 7 maggio del 1990 si tengono in 15 regioni, quasi tutti i capoluoghi di provincia e in più di 6mila comuni, le elezioni per il rinnovamento delle amministrazioni. Quella che si apprestava a partecipare alla competizione elettorale era un’Italia ignara del terremoto che due anni dopo avrebbe sconvolto irreparabilmente il sistema partitico, pressocché inossidabile dal secondo dopoguerra, e che avrebbe portato in pochissimo tempo a un ricambio generazionale dei protagonisti della scena politica. Era un’Italia al tramonto del suo Novecento, trepidante, nell’euforica attesa di poter finalmente vivere le notti magiche che aveva canticchiato per tutto l’inverno e che sarebbero arrivate esattamente un mese dopo, con l’inizio dei mondiali di calcio ospitati in casa. Le elezioni amministrative del 1990, all’apparenza abbastanza anonime, sono in realtà il punto di non ritorno per un piccolo movimento che da lì in poi si imporrà per molti anni a venire. In quella tornata elettorale la Lega Nord (che fino ad allora esisteva come coalizione delle leghe regionali, diventerà effettivamente un partito l’anno successivo) dà prova di non essere uno sparuto aggregato d’indipendentisti antisistema condannati alla marginalità, quanto piuttosto un gruppo lungimirante e deciso a crescere cavalcando la narrativa antipolitica e a capitalizzare il dissenso crescente nel Nord del Paese verso i vecchi simboli. Fino a quella primavera il risultato più rilevante era stato ottenuto dalla Lega Lombarda alle elezioni politiche del 1987 con un seggio rispettivamente alla camera e al senato, assegnato a Umberto Bossi. Nel ’90 invece le Leghe si impongono, specialmente in Lombardia: in città come Bergamo, Brescia e Como sono il secondo partito, dopo la DC. Lo stesso vale per l’assemblea regionale, in cui viene sfiorato il 19%. Il risultato a dir poco esaltante per Bossi e i suoi compagni, è il frutto di un lavoro costante e duraturo nel territorio, nelle sezioni, nei piccoli comuni. Da quel momento in poi l’epopea leghista entrerà nella lunga fase di istituzionalizzazione, rimanendo onnipresente nel panorama politico italiano.
Durante le elezioni del 1990, Matteo Salvini ha solamente 17 anni e non può andare a votare, ma si è appena iscritto al partito e si dà da fare attivamente per la causa. Solamente tre anni dopo sarà un giovanissimo consigliere comunale a Milano. Quasi trent’anni dopo, invece, sarà il leader del Carroccio, capace di portare il partito di Bossi a vette sorprendenti di consenso in tutto lo stivale, ma incapace di mantenerlo e di immolare il sogno padano in favore di una vittoria mai raggiunta. Attorno alla sconfitta delle ultime elezioni politiche, che vedono l’allontanamento deciso dell’elettorato leghista della prima ora dal partito di via Bellerio, si sta armando una forte e silenziosa congiura, non tanto nei confronti diretti di Matteo Salvini, quanto in quelli della sua creatura, la Lega nazionalizzata. L’operazione Lega senza Nord, ovvero il partito di respiro nazionale voluto tanto da Salvini, si è rivelata troppo distante dai valori indipendentisti della Lega bossiana, quella che nei raduni urlava Roma ladrona e Prima il Nord, tra ampolle di acqua del Po, intonazioni collettive di Va’ pensiero e Borghezio vestito da vichingo. Sacrificare il mito della Padania indipendente, per quanto potesse sembrare impensabile prima della segreteria a guida Salvini, è stato anche digerito per diversi anni, purché si venisse ricompensati da risultati elettorali soddisfacenti, e questi non sono tardati ad arrivare. La Lega per Salvini premier, dopo le elezioni del 2018, riesce a emanciparsi dalla coalizione di centro destra e diventa il secondo partito del governo giallo-verde. Soltanto un anno dopo è in assoluto il primo partito del Paese, riuscendo a convincere più di un terzo dei votanti alle elezioni europee. Ci sono voluti soltanto tre anni, una pandemia globale, la partecipazione un po’ sofferta al governo Draghi, e l’intervento militare russo in Ucraina, per bruciare tutto quel consenso (si parla di 6.700.000 voti, un’enormità), e ridursi a essere una stampella della coalizione. Ma a rincarare l’amaro della débâcle è soprattutto l’aver perso i voti delle proprie roccaforti settentrionali, aver perso il rapporto con il territorio, il dogma indiscutibile della Lega Nord. Ecco il nodo cruciale che sta portando a un silenzioso scontro intestino nel partito, tra la vecchia guardia e i fedelissimi del capitano.
In realtà, in qualsiasi altro partito (eccezion fatta per Forza Italia, che risponde a un solo padrone), il giorno successivo alle elezioni Salvini sarebbe stato silurato. Eppure, è stato riconfermato alla guida del Carroccio, ma con la tacita condizione che si ritornasse a lavorare sopra il Po, a parlare con gli imprenditori del lombardo-veneto e a rilanciare le battaglie identitarie. Non è da escludere che la momentanea riconferma di Salvini non sia che una transizione verso una nuova leadership con posizioni più veteroleghiste, magari un Luca Zaia, con l’obiettivo di smorzare lo choc che deriverebbe dal passaggio di testimone da una dirigenza sovranista a una autonomista. Al momento non possiamo saperlo. Certamente, i malumori e le critiche interne post-voto non si sono fatte attendere. Immediatamente dopo la mal digerita sconfitta, il Senatur, il vecchio capo, annuncia la creazione del Comitato per il Nord, quella che di fatto è una corrente interna al partito, con l’obiettivo di riconquistare la fiducia dei sostenitori di un tempo. L’operazione è stata accolta positivamente dai vecchi capi, come l’ex ministro della giustizia Roberto Castelli, che si è detto preferire un «5% del Nord guadagnato perseguendo politiche precise piuttosto che l’8% su scala nazionale ma senza una linea chiara». Salvini, dal canto suo, cerca di minimizzare le turbolenze e restare saldo al comando, non senza qualche prova di forza, come la diffida nei confronti del Comitato, per l’utilizzo di simboli e la denominazione del partito e per aver raccolto e utilizzato i dati degli iscritti a Lega per Salvini premier.
L’attuale vicepremier sa di dover concedere qualcosa per evitare uno scontro plateale e per sperare di non essere esautorato o addirittura portare a uno scisma di partito. Le nomine di governo in quota Lega dimostrano già lo smantellamento del progetto di una Lega nazionale: i cinque ministri nominati sono lombardi, i due viceministri vengono da Liguria e Friuli, l’unica sottosegretaria dei nove nominati che viene dal Sud ha una delega ai rapporti con il Parlamento, nulla di così cruciale. A coronare la tendenza “nordifuga” della Lega al governo, l’annuncio, a nemmeno un mese dal giuramento, il ritorno in auge dell’Autonomismo, con una bozza presentata in tempi record dal ministro Calderoli e applaudita presto dai governatori del Nord e contestata da quelli del Sud, capeggiati da De Luca: la bozza, per come è circolata, rischia seriamente di aumentare il divario fra le due Italie. Per salvare le apparenze Salvini ha fatto seguito con il rilancio a gran voce del ponte sullo stretto. Al momento gli alleati di governo hanno raffreddato gli animi leghisti, accantonando l’immediata discussione sul progetto dell’autonomia differenziata, ma varrà quasi certamente come pedina di scambio per la riforma presidenzialista desiderata da Giorgia Meloni.
La Lega, dunque, sta per affrontare una nuova transizione, come quella già condotta dal recentemente scomparso Roberto Maroni, che fra il 2012 e il 2013 ha traghettato il partito umiliato dagli scandali della famiglia Bossi verso il cambio generazionale salviniano. La metamorfosi che si prospetta adesso dovrà trovare il suo equilibrio tra le nuove responsabilità di governo e il desiderio di chiudere quanto prima l’esperienza di Prima l’Italia. Il punto è se sarà o meno Matteo Salvini a ricondurre il partito Oltrepò o se dovrà concedere spazio all’opposizione interna. Le prime prove di riorganizzazione del partito in questa nuova fase, le conte dei sostenitori interni, sono molto inclementi nei confronti del capitano: nell’ultimo congresso provinciale della Lega, a Bergamo, viene eletto Fabrizio Sala, militante critico della linea salviniana e vicino al Comitato per il Nord. Salvini non riesce neanche a esprimere un candidato della propria area, lo sfidante di Sala era infatti un altro militante “non allineato”, il sindaco di Fontanella Mauro Brambilla.
I prossimi mesi saranno fondamentali per Matteo Salvini, rispetto alle ultime esperienze di governo, la pressione degli altri dirigenti su di lui sembra maggiore, dovuta senz’altro ai macroscopici errori di strategia politica che portano la sua firma, dal Papeete in poi. Quello che gli viene chiesto in sostanza è un cambio di passo che parta principalmente dalla comunicazione, da tempo imbambolata sui social, una scelta che ha fatto la sua fortuna ai tempi di Morisi e che ora sta erodendo la serietà del suo ruolo a suon di dirette notturne su TikTok, ma anche una scelta che generalizza e disperde il lavoro del partito stesso. Al contrario, la base vuole tornare a comunicare nelle sezioni e a investire nel territorio, settentrionale ovviamente.