Dovunque è un florilegio di retorica europeista: ci vuole l’esercito comune, dicono all’unisono le principali testate. Una grande armata targata UE, costruita attorno al nucleo della Brigata Franco-Tedesca e integrata in una sola struttura centrale di comando e controllo, del tutto indipendente da Washington e dai suoi chiari di luna. Ma al netto di certi facili entusiasmi e delle spicciole considerazioni di cui sopra, non si può fare a meno di constatare la generale superficialità con cui ci si sta approcciando alla questione. Tra i molti impegnati in questi giorni a perorare la causa di una difesa comune, nessuno pare realmente interessato ad immaginarla; i pochi che si cimentano sono invariabilmente scettici.
Non lo si deve ad un qualche difetto del carattere; dare forma concreta ad un apparato militare europeo è un esercizio estremamente complesso. Tanto per cominciare, qualsiasi iniziativa comunitaria andrebbe finanziata, probabilmente con un incremento del budget dell’Unione; e dal momento che l’apporto dei singoli Stati membri a quest’ultimo è calcolato in base al loro PIL, sarebbero la Germania, la Francia e l’Italia, in quest’ordine, a doversi fare carico del grosso delle spese. Come è un dilemma a sé: la scelta sarebbe tra tagliare altro, con prevedibili ripercussioni politiche, fare debito, o stampare valuta, entrambe cose queste che da par loro richiederebbero un vero e proprio stravolgimento della dottrina economico-monetaria che indirizza le politiche della BCE fin dall’adozione dell’Euro.
Comunque la si metta, in termini di esborso il confronto con la NATO è impietoso. Stando ad un accordo interno siglato nel 2006, ciascun firmatario del Patto Atlantico dovrebbe destinare al comparto militare almeno il 2% del proprio PIL; ma finora i soli Paesi UE ad aver tenuto fede a questo adempimento sono la Polonia, la Romania, le nazioni del Baltico e la Grecia, spinte da null’altro che la presenza minacciosa di vicini decisamente più grandi e turbolenti. Ciò significa che il grosso del danaro che foraggia l’Alleanza proviene dagli Stati Uniti: una circostanza alquanto comoda, che ci ha consentito di indirizzare la spesa pubblica su un welfare paradossalmente divenuto l’invidia di milioni di americani e che andrebbe per forza incontro ad un forte ridimensionamento.
Vi è poi l’ovvia questione degli armamenti. Stare nell’alveo della NATO garantisce ai Paesi europei la possibilità di appoggiarsi alla potentissima macchina da guerra a stelle e strisce, e accedere così ad assetti bellici altrimenti al di fuori della loro portata; va da sé, quindi, che lo scioglimento dell’Alleanza implicherebbe necessariamente l’avvio di un colossale processo di riarmo. Scarseggiano anzitutto i carri, appena 5mila contro i quasi 18mila della Federazione Russa: è un gap numerico che ci trasciniamo dietro dai tempi della Guerra Fredda, cui oggi si deve aggiungere una certa disomogeneità nella qualità dei mezzi, largamente dettata dall’ingresso nell’Unione dei Paesi dell’ex blocco socialista. Mentre ad Occidente si preferiscono piattaforme all’avanguardia, quasi ovunque sulla frontiera orientale non abbiamo da offrire che materiale del Patto di Varsavia perlopiù obsolescente.
Simile il discorso per i caccia, nel complesso pochi per numero effettivo; è emblematico il caso della Luftwaffe tedesca, che nel 2018 contava non più di dieci apparecchi Eurofighter pronti al combattimento su centoventotto totali. Va altresì sottolineato come una buona parte dei velivoli in servizio nell’Unione Europea-incluso il nuovo F35-sia di fabbricazione statunitense: non è da escludere che qualora l’UE decidesse di costituirsi in un blocco armato avulso al loro controllo, gli USA reagirebbero sospendendo le vendite ed estromettendo i loro partner oltreoceano dal programma di sviluppo del controverso jet di quinta generazione. Una possibile euro-aviazione si troverebbe allora a corto di aerei e priva di capacità indispensabili, per sostituire le quali servirebbe un corposo investimento in tempo e risorse.
Non va infine meglio in campo navale. Incrociatori e fregate ultramoderni compensano solo parzialmente l’assenza atavica di portaerei di livello; e che l’ipotesi di un vascello condiviso sia stata rapidamente scartata per via dell’intransigenza fiscale dell’attuale governo di Berlino la dice lunga sull’intera questione di una forza armata europea. La marina unica annovererebbe nella sua flotta appena quattro carriers, con soltanto la De Gaulle in grado di competere in qualche modo con i corrispettivi americani delle classi Nimitz e Ford. Un dato che riassume l’eccezionalità della situazione militare francese: oltre alla già citata De Gaulle, i nostri vicini d’oltralpe sono in grado di schierare reparti terrestri molto ben equipaggiati, ottimi velivoli – peraltro di produzione locale, ossia autonoma – e, soprattutto, l’arma atomica.
La Francia è infatti il solo Paese dell’Europa continentale a possedere un dispositivo nucleare, eredità di una certa megalomania gollista ben incarnata dall’attuale inquilino dell’Eliseo. Macron sa perfettamente che Parigi sarebbe il naturale centro nevralgico di una difesa europea, di cui non a caso è da sempre uno strenuo promotore; il suo fervore non sembra però trovare riscontro presso gli alleati, comprensibilmente timorosi dello spostamento degli equilibri di potere che l’avvio di un progetto militare comune causerebbe all’interno dell’Unione. La Germania non vuol vedersi scalzata dalla posizione di primazia di cui finora ha goduto, e per gli altri Paesi il collasso della NATO rischierebbe di tradursi nel mero passaggio da un padrone ad un altro, per giunta assai meno munifico.
Ma a pesare sulle ambizioni transalpine c’è anche il precedente della Comunità Europea di Difesa. Furono proprio i francesi a volerla nel 1951: la CED sarebbe dovuta essere il braccio armato dell’allora Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, che sperava così di tutelarsi da una possibile aggressione sovietica senza dover fare totale affidamento sugli angloamericani. Il trauma della sconfitta indocinese e il rapido deteriorarsi della situazione in Algeria spinsero però il governo Mendès-France a rivalutare le sue priorità strategiche; l’Assemblea Nazionale votò contro la ratifica del trattato istitutivo, consegnando l’idea di un organismo alternativo al patto atlantico al dimenticatoio. De Gaulle scelse poi di chiamare fuori il Paese pure da quest’ultimo, col pieno rientro avvenuto solo dopo quarantadue anni: un ulteriore motivo di sfiducia per dei partner già incerti.
Proclami a parte, non vi è certezza che Parigi sia davvero disposta a farsi guida della difesa europea. E se pure volesse, non ne sarebbe in grado: le sue forze convenzionali restano nettamente inferiori a quelle di tutti i nostri principali competitors, e il divario tra la force de frappe e gli arsenali nucleari stranieri, in primis quello russo, è semplicemente troppo vasto perché i soli missili tricolore possano assicurare una deterrenza credibile. In altre parole, una bomba UE dovrebbe essere per forza di cose parte integrante di qualsiasi iniziativa in ambito militare. Tuttavia, un programma nucleare cozzerebbe coi piani per una svolta green che, ironia della sorte, pare si voglia avviare proprio con la dismissione di numerosi reattori in tutto il continente, e anche con gli impianti regolarmente in funzione reperire il necessario materiale fissile sarebbe difficilissimo.
Dato conto di queste criticità pragmatiche, comunque, la vera partita resta strettamente politica; ed è una partita, lo diciamo senza troppi giri di parole, persa in partenza. La postura neutralista di Paesi come l’Irlanda basterebbe da sola a stroncare sul nascere qualsiasi serio dibattito su un’iniziativa militare comunitaria, figurarsi sul riarmo non convenzionale. E se pure Dublino dovesse rivedere il proprio atteggiamento, continuerebbe a mancare quella linea diplomatica condivisa di cui un esercito europeo dovrebbe essere strumento. A quasi trent’anni dall’istituzione dell’Ufficio per la Politica Estera e la Sicurezza Comune (PESC), questo è ancora il grande tallone d’Achille della UE: ne è la riprova proprio il superficiale abbandono con cui abbiamo seguito gli USA nel pantano mediorientale, solo uno dei tanti fallimenti – ricordiamo su tutti la Yugoslavia – di quella che ad oggi è un’organizzazione internazionale che pretende d’essere uno Stato senza averne titolo.
Per cosa combatterebbero gli europei, privi come sono di un reale senso d’appartenenza a quello che oggi i più vedono come null’altro che un apparato burocratico? Sarebbero disposti, i giovani di qualche altra nazione, a morire per gli interessi francesi in Africa o per quelli italiani nel Mediterraneo? Sarebbero disposti, i nostri giovani, a morire per qualcosa? È forse questa la domanda più pressante: la nozione di un continente in armi non è solo antitetica alle fondamenta storiche e valoriali di questa Europa, ma appare inconciliabile con la nostra psiche collettiva. Abbiamo rigettato la dottrina del sangue e del ferro, proprio noi che ne eravamo fautori e maestri. Alla forza preferiamo una bontà innocua e pacifista: mentre altrove si ridisegnano le carte geografiche, noi ci contentiamo di preoccuparci dei rifugiati e di nient’altro.
(originariamente pubblicato a settembre 2021)