Il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano, in una recente intervista a Pietro Senaldi su Libero Quotidiano pubblicata lo scorso 7 novembre, ha dato un quadro programmatico, di massima, per la gestione del suo ministero. In un passo dell’intervista, il neo ministro ha definito la costruzione dello Stato Italia avvenuto attraverso un processo storico-culturale, delineato secondo un andamento cronologico che va dall’età classica, dall’Umanesimo, passando per il Rinascimento e che giunge fino al Risorgimento:
«…è anche vero che l’Italia non è nata nel 1860 ma si è venuta definendo attraverso una storia millenaria che ha avuto nel Risorgimento il suo efficace riconoscimento in Stato nazionale. Prima ancora, l’Italia si era forgiata attraverso le tappe del diritto romano, dell’umanesimo, del Rinascimento e del Romanticismo. All’unità politica, il nostro Paese ha fatto precedere quella culturale e linguistica».
(Pietro Senaldi, Meloni premier: ribellione culturale, Libero quotidiano)
Ad una prima analisi dello stralcio dell’intervista del Ministro, si nota come la formazione dello Stato italiano, nella sua interezza politica e intellettuale, sia avvenuta secondo una linea retta contrassegnata da aurea aetas, senza soluzione di continuità, per compiersi in tutto il suo splendore durante la fase risorgimentale. In realtà gli studi storiografici, rispettivamente per le varie età storiche prese in esame dal Ministro, hanno evidenziato che il percorso culturale, sociale e politico è stato contrassegnato da eventi disomogenei e a tratti anche drammatici. Ma per argomentare tali riflessioni, si possono prendere in considerazione due epoche fondamentali della storia italiana, il Rinascimento e il Risorgimento.
Rinascimento
Per questa età bisogna, in prima istanza, fare un’analisi storiografica. La genesi del termine Rinascimento può essere attribuita a Jules Michelet, quando scrisse il periodo storico del XV secolo nell’Histoire de France nel 1857. Stando al mero pettegolezzo di carattere biografico dell’autore, l’ispirazione nel coniare il termine «le mot Reninascense» gli venne in mente quando si innamorò di Artemide Mialaret, come scrisse in una lettera ad una sua amica Madame Dumesnil, nel quale fece un parallelismo tra la sua condizione di innamorato, all’epoca cinquantenne rinvigorito, e la Firenze al tempo di Botticelli. Ma dal punto di vista storico, per Michelet, il Rinascimento era la “genesi laica” della Rivoluzione francese:
«La rivoluzione francese trovò pronte le sue formule, scritte dalla filosofia. La rivoluzione del secolo XVI, giunta più di cento anni dopo il decesso della filosofia di allora, s’imbatté in una morte incredibile, in un nulla; e partì dal niente. Fu lo zampillo eroico di un’intera civiltà. Generazioni che avete troppa fiducia nelle forze collettive che hanno la grandezza del secolo XIX , venite a vedere la mia fonte in cui si ritempra il genere umano, la fonte dell’aria che sente di essere da più del mondo e non attende dal vicino il soccorso prestato per la sua salvezza».
Tre anni dopo la pubblicazione dell’opera Michelet, nel 1860 lo svizzero-tedesco Jacob Burckhardt dava alle stampe l’opera che divenne paradigmatica per lo studio del Rinascimento italiano, Die Kultur der renaissance in Italien. Ma che allo stesso tempo creò uno stereotipo dell’età rinascimentale, quello a cui lo stesso Sangiuliano sembra far riferimento. Per lo studioso svizzero-tedesco il Rinascimento era stato un generatore della nuova civiltà a discapito del Medioevo, questo fu dovuto grazie alle opere pittoriche di Raffaello, di cui Burkhardt era un suo grande ammiratore. Solamente all’inizio del Novecento le tesi di Michelet e Burkhardt vennero confutate da Konrad Burdach, il quale sostenne che non vi era nessuna differenza tra Medioevo e Rinascimento. Questa tesi venne ripresa dalla generazione di studiosi della scuola degli Annales e in Italia divulgata da Etienne Gilson nel 1932, con il saggio Filosofia medievale ed umanesimo. Sempre in Italia seguirono le ricerche di storici tout court come Delio Cantimori, che si rifaceva alle teorie Burkardiane e poi Federico Chabod. Quest’ultimo designò il termine “Rinascimento” per delimitare una fase storica: un movimento di idee e culture che però ebbe continue interferenze con la vita pratica. Proprio quelle azioni pratiche erano diretta conseguenza di un contesto difficile, mutevole, come hanno dimostrato successivamente sia Eugenio Garin che Michele Ciliberto. Proprio quest’ultimo, in modo particolare, ha sostenuto che il Rinascimento fu di fatto un’età di crisi sotto molto diversi aspetti, in primis quello politico e culturale.
Un testimone fondamentale di questa età di crisi possono essere i Dialogi ad Petrum Histrum, scritti tra il 1404 e il 1406 dall’umanista e cancelliere fiorentino Leonardo Bruni. Il testo è un dialogo, ambientato nel 1401, tra l’umanista Coluccio Salutati, maestro e predecessore di Bruni alla cancelleria della Repubblica fiorentina, Nicolò Nicoli e Roberto de Rossi. L’energico e anziano Salutati si confrontava con un nutrito gruppetto di intellettuali e disfattisti, dove nel clima di emergenza educativa che all’epoca si palesava, in cui questi giovani si lamentavano della desertificazione e dell’appiattimento culturale e civico dei cittadini fiorentini, dove rispetto allo scambio di tipo dialettico delle idee predominava la volgarità dell’alterco nei contraddittori pubblici. Sotto il punto di vista culturale, i giovani intellettuali si lamentavano della mancanza di testi classici per colpa dell’incuria dei custodi di quei patrimoni librari, ovvero gli incolti e incivili monaci. Alle deplorazione di quei giovani, si opponeva il vecchio saggio Salutati, che da una parte ammetteva l’incuria e la conseguente perdita di testi importanti per la conoscenza che avrebbe avuto conseguenza sull’agire pubblico, ma dall’altra sosteneva che quello che rimaneva del patrimonio librario bastava a spingere i lettori ad attivare il proprio ingegno.
Di una generazione successiva a Bruni, l’architetto del rinascimento per antonomasia, Leon Battista Alberti mise in risalto la limitatezza ontologica dell’uomo, non solo nelle sue opere architettoniche maggiori, come la chiesa di Santa Maria Novella a Firenze e il Tempio Malatestiano di Rimini, in cui dominava la razionalità , l’equilibrio. Nel Theogenius paragonava l’uomo alla bestia, anzi, quest’ultima aveva dei privilegi maggiori rispetto all’uomo. Per quanto l’uomo si industriava con la saggezza e l’industria non aveva nessuna possibilità di riscattarsi dalla sua condizione perpetua di non essere libero. Secondo Alberti l’uomo era sottoposto sin da giovane al gioco dal pedagogo, poi dalle norme della polis e poi ancora dal giudizio del vulgo. L’unica soluzione per liberarsi da questa era la morte. Nel Momus, il romanzo allegorico-filosofico, il filosofo-scrittore-architetto rincarò la dose. Il protagonista, un semidio pagano, era costretto a scendere dall’Olimpo sulla Terra. Tra gli uomini impara che la vita degli uomini era fondata sulla dissimulazione ovvero l’ipocrisia:
«Che razza di animali a due zampe, gli uomini! escama Momo. Alla larga! Eppure, di questo duro esilio c’è una cosa che mi sta bene: essere diventato con la filosofia e con l’inganno, un autentico esperto nel trasformismo e nell’arte di lilar via per la tangente , simulando e dissimulando».
(L.B. Alberti, Momo o del principe, Berlusconi editore, Milano, 2004, pag. 69)
Quasi un secolo più tardi, anche Pico della Mirandola, nell’ Hominis Dignitate, metteva in evidenza l’emergere di un’epoca di decadenza intellettuale, soprattutto nel sapere filosofico:
«Siamo ormai arrivati a tal punto, ed è ben diverso, che i sapienti non si ritengono se non coloro che attendono al sapere per prezzo, così che possiamo vedere la casta Pallade, cacciata, fischiata, derisa».
(Pico della Mirandola, De Hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno e scritti vari, a cura di E.Garin, Torino, 2004, pag.131)
Non solo i pensatori rinascimentali sono stati importanti per definire il contesto di crisi a livello politico e culturale in cui si trovava la penisola italiana tra il XIV e il XV secolo. Ma emblematica è stata anche la coeva letteratura di consumo. Il testo di riferimento del Rinascimento in Italia è stato sembra ombra di dubbio l’Orlando Furioso. Il romanzo ariostesco insieme alle: donne, i cavalier, l’arme e gli amori, influenzato dalla chiara matrice classica di stampo virgiliano: arma virumque cano, fu impregnato e contaminato dalla contingenza storica. L’Orlando Furioso era incastonato nella realtà, dove tra il genere epico, cavalleresco ed encomiastico, veniva raccolto tutto lo scibile umano, tra l’intreccio delle armi e degli amori si aveva un quadro sinottico della contingenza in Italia, per dirla con le parole di Giulio Ferroni:
«Uno specchio ideale della propria condizione contemporanea, tra sogni, conflitti , illusioni, costruzioni idealizzanti del proprio essere».
(Giulio Ferroni, Ariosto, Salerno editrice, Roma, 2001, pag. 118)
Mentre l’Ariosto scriveva le ottave del Furioso, Ferrara e tutta l’Italia era l’epicentro di un conflitto tra le due superpotenze dell’epoca: Francia e Spagna. Ferrara si era schierata con la Francia e partecipò alla guerra contro Venezia, con la vittoria nella Battaglia della Polesella e nel 1512 con la partecipazione alla Lega Santa e poi alla successiva vittoria di Ravenna, che fu la causa della rovina di Machiavelli. Ma non finì qui, nel 1525 ci fu la Lega di Cambrai promossa dalla Francia, Stato Pontificio, Venezia, per cacciare Carlo V dall’Italia e che culminò con il terribile sacco di Roma ad opera delle truppe sbandate dei Lanzichenecchi. Quelle guerre che erano cominciate nel 1494, nella famosa spedizione militare del sovrano francese Carlo VIII, che di fatto ruppe l’equilibrio della Pace di Lodi del 1454 tra gli Stati italiani e che diede l’avvio di quella fase storica che si concluse nel 1559 con la Pace di Cateau Cambresis che assoggettò l’Italia al dominio spagnolo.
«Vedete Carlo VIII , che discende
da l’Alpe, eseco ha il fior di tutta Francia,
che passa il Liri e tutto il regno prende
senza mai stringer spada o abbassar lancia,
fuor che lo scoglio ch’a Tifeo si stende
su le braccia, sul petto e su la pancia;
che da l buon sangue s’Arabo al contrasto
la virtù trova d’Inico del Vasto».
(Canto XXXIV-24)
Quell’armonia perduta del presente faceva ricercare a l’Ariosto di trasferire quella lacerazione impossibile da restaurare nella prospettiva dell’epica. La Guerra, una guerra nuova, fatta con l’utilizzo delle nuove armi distruttrici, come il cannone e lo schioppetto, minava quell’ideologia cavalleresca. Il poeta, l’intellettuale che percepiva la realtà, la interiorizzò, come un parafulmine e non poteva far altro che portare la guerra dentro di sé dentro la sua creatura, la poesia. Nella stesura del poema gli intrecci diplomatici, le battaglie combattute, facevano parte dell’intreccio del testo. Nel canto XVII Ariosto lanciò un j’accuse contro l’inquieta politica dei principi italiani, che per il loro assetato gusto di potere chiamavano al loro servizio le «più affamate belve straniere», ovvero i deprecati eserciti mercenari.
Fernand Braudel, nella Storia d’Italia, pubblicata da Einaudi nel 1972, definì il periodo tra il 1450 e il 1650: «Due secoli e tre Italie». Le tre Italie erano suddivise in tre fasi cronologiche: la prima caratterizzata da un contesto pacifico: «Che ha creato da sé la propria pace secondo gli accordi complessi e difficili di Lodi», poi seguì, «Un’Italia straziata dal 1494 al 1559 da una guerra sopraggiunta dall’esterno». Poi l’ultima fase, quella contrassegnata dalla dominazione spagnola, definita: «Un’Italia inattesa, al di là di un’altra pace […] il Trattato di Cateau-Cambrésis (1-3 aprile 1559)».
L’età del rinascimento è stata attraversata da contraddizioni, inquietudini, crisi strutturali, ma che proprio da queste ha tratto la linfa vitale in svariati campi dello scibile umano: letteratura, architettura, scienza politica con Machiavelli, ponendo questioni che ancora oggi, gli addetti ai lavori concentrano i loro studi e continuano a porsi domande.
Risorgimento
Nel suo complesso, il movimento risorgimentale può essere cronologicamente stabilito tra il 1796 e il 1861. La concezione nazionl-popolare della sovranità italiana nacque grazie agli spasmi della Rivoluzione francese ed al suo diffondersi in Europa e nella Penisola italiana, grazie alla campagna militare di Napoleone nel triennio 1796-1799. La scoperta della patria fu, in principio, un fatto puramente teoretico che avvenne grazie alla fantasia di intellettuali e scrittori, quali: Foscolo, Berchet, Pellico e Poerio. Il triennio ’96-’99 costituì la scoperta della coscienza politica per i proto italiani, nel giro di un cinquantennio sfociò nel biennio 1846-49, e in quei due anni rivoluzionari si vide la partecipazione di volontari in massa nelle molteplici azioni rivoluzionarie nelle maggiori città della penisola italiana, senza nessuna distinzione di classe sociale o culturale. Come ha sostenuto Alberto Mario Banti, le barricate divennero il vero e proprio simblo della sovranità popolare:
«Iniziata sule barricate, la rivluzione nazionale si chiude sulle barricate a Roma allinizio di luglio del 1849, dove la Repubblica democratica di Mazzini proclamata nel mese di febbraio dopo la fuga a Gaeta di Pio IX è abbattuta dalle truppe traditrici della repubblica frnacese del principe presidnete Luigi Napoelone Bonaparte, e a Venezia alla fine di agosto del 1849 , dove i bombardamenti austriaci, la famee il colera piegano la repubblica liberale di Manin dopo, o dei più lnghi assedi dell’epoca contemporanea».
(Gian Luca e Alessio Petrizzo, Risorgimento di massa (1846-1849), in Nel nome dell’italia: Il risorgimento nelle testimonianze, nei documenti e nelle immagini,a cura diAlberto Mario Banti, Bari, Laterza, 2010, pp. 83-83)
Tutti i militanti che, in quel quadro di tempo furono i protagonisti di quella fase, avevano l’unico obiettivo comune l’ideale della costruzione di uno Stato nazione. Diverse, invece furono le posizioni riguardanti l’assetto politico istituzionale da dare al venturo e ipotetico Stato: da una parte i repubblicani avversi ai monarchici; dall’altra i centralisti avversi ai federalisti; dall’altra i liberali avversi ai democratici. Questi gruppi, talvolta non ben identificati uno dall’altro, a seconda dei contesti politici si combinavano con nuovi gruppi politici. I repubblicani e i democratici avevano teorie politiche costituzionali in antitesi con quelle che erano state poi eseguite da Cavour e Vittorio Emanuele. Una volta terminata la campagna militare da parte dell’esercito sabaudo nel Regno borbonico, con lo scopo di fermare Garibaldi, per la paura che potesse prendere la strada per Roma, l’unificazione era stata militarmente compiuta. I vecchi giacobini e i mazziniani confluirono nell’area parlamentare della sinistra nella nuova Camera dei deputati nel neo regno italiano. Garibaldi e i suoi accoliti scelsero una linea che può essere definita apolitica, in cui perseguì ostinatamente la presa di Roma. In quel frangente di tempo era palese che il sistema istituzionale e culturale che reggeva lo Stato era fragile. Il nation building, come contenitore di calori, vincoli e leggi, ancora non era nato.
Uno dei tanti effetti di questo stato di cose, era stato il fenomeno del brigantaggio. Secondo statistiche elaborate da diversi storici del Risorgimento, gli insorti tra il 1861 e il 1870 furono intorno alle 85.000 persone. Quelle bande organizzate godevano dell’appoggio degli abitanti, in modo particolare delle regioni dell’Abruzzo e del Molise, delusi dalle aspettative di Garibaldi, perché credevano che avrebbe portato, oltre un’unità politica nazionale, anche una vera e propria rivoluzione sociale ed economica. All’interno delle stesse bande di briganti, confluirono molti ex soldati dell’esercito borbonico. Alcuni capobanda dichiaravano di svolgere attività di brigantaggio con lo scopo di restaurare il Regno borbonico. La reazione del governo centrale fu ferma e tempestiva. Con la legge speciale del 1863, la legge Pica, veniva autorizzato l’invio di oltre 40.000 soldati e l’attuazione di processi sommari ed annesse esecuzioni. Grazie a questo tipo di operazioni, a metà tra operazioni militari e di polizia giudiziaria, nel giro di un paio d’anni il fenomeno del brigantaggio venne debellato.
Il brigantaggio e la sua repressione aveva, di fatto, provocato una vera e propria guerra civile, seppure limitata solamente al sud Italia. Ma svolgendo un’analisi comparata, tutti gli Stati moderni hanno avuto la loro formazione attraverso delle guerre civili efferate: la rivoluzione in Gran Bretagna con il regicidio di Enrico I e la dittatura di Cromwell; in Francia la Rivoluzione francese prima e la Comune parigina poi, dove gli avvenimenti della Comune e la sua repressione causarono più di diecimila vittime. Anche gli Stati Uniti ebbero la loro nascita da una secessione contro la casa madre Inghilterra, che fu contrassegnata da una vera e propria guerra civile. Ma per non bastare, proprio mentre in Italia si combatteva tra l’esercito sabaudo e i “briganti nel sud”, negli Stati Uniti si scatenò un’altra vera e propria guerra civile che causò più di settecentomila vittime e che può essere definita come la prima guerra moderna per l’utilizzo di nuove tecnologie e tattiche militari, che furono da preludio per la Prima guerra mondiale.
Ma tornando ai primi anni di vita del Regno d’Italia, il suo esercito alla prima chiamata alle armi nella Terza guerra d’indipendenza del 1866 subì, di fatto, una vera e propria debacle contro l’Austria per la conquista del Veneto e della Venezia Giulia. Secondo lo storico militare Piero Pieri, la sconfitta fu causata da una deficienza politica dello Stato Maggiore dell’Esercito italiano. Con una forza di più di 220.000 soldati, oltre ai 38.000 volontari di Garibaldi, l’esercito regio aveva di fronte a sé quello austriaco di 190.000 soldati e tra l’altro impegnato su un altro fronte a nord, contro la Prussia. Sempre secondo Pieri, le causa della sconfitta fu interna, dovuta all’acerrima competizione tra i due generali: La Marmora e Cialdini, che causò la sconfitta di Custoza e poco dopo quella navale di Lissa, per colpa di una tattica avventata dell’ Ammiraglio Persano. Proprio per colpa di quella sconfitta finì sotto processo da parte della Procura militare. Solamente il bistrattato Garibaldi, proprio il giorno dopo la sconfitta di Lissa, il 21 luglio, vinse a Bezzecca in Trentino e si trovava a poche decine di chilometri da Trento, quando gli austriaci stavano stipulando una tregua contro i Prussiani e nell’a trattativa rientrava che il Trentino sarebbe dovuto rimanere sotto l’Impero bicefalo. Proprio quel giorno, fu reso famoso, più che dalla vittoria di Garibaldi , dalla sua risposta al telegramma alla richiesta di Lamarmora che gli intimava di non procedere in direzione di Trento: «Ho ricevuto il dispaccio n. 1073. Obbedisco. G. Garibaldi». Negli accordi di pace, l’Austria si rifiutò di cedere il Veneto direttamente al Regno d’Italia, attraverso la cessione alla Francia di Napoleone III, come accaduto precedentemente nella II Guerra d’Indipendenza.
Una vittoria che sapeva di beffa e che era emblematica di come l’Italia era considerata dalle altre potenze europee. Esemplifico il commento dello storico Pasquale Villari, all’indomani della guerra, nel famoso articolo intitolato, Di chi è colpa? O sia la pace e la guerra:
«Bisogna però che l’Italia cominci col persuadersi, che v’è nel seno della nazione stessa un nemico più potente dell’Austria, ed è la nostra colossale ignoranza, sono le moltitudini analfabete, i burocrati macchina, i professori ignoranti, i politici bulimici, i diplomatici impossibili, i generali incapaci, l’operaio inesperto, l’agricoltore patriarcale che ci si rode le ossa. Non è il quadrilatero di Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino; ma è il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di arcadi».
Ma la costruzione del mito fondativo degli eroi del Risorgimento, necessaria per creare un senso di appartenenza ad uno Stato, comunità, avvenne anche grazie all’opera della letteratura. Il romanzo Cuore di De Amicis, pubblicato nel 1886, dove lo Stato Italia venne raffigurato come una comunità unita per ruolo culturale in cui gli eroi del risorgimento dell’ultima generazione, come Cavour, Mazzini e Garibaldi erano posti al centro del pantheon ideale costitutivo della nazione. Parallela alla letteratura fu anche l’opera politica di Francesco Crispi, che perseguì l’obiettivo, durante i suoi due prime mandati come presidente del Consiglio dei ministri (1887-1891), di costruire il sentimento nazionale tramite l’edificazione di monumenti e statue per gli eroi del risorgimento. Proprio in quel preciso contesto si sviluppò nel martirologio degli eroi nazionali in tutte le sue sfaccettature.
Facendo un salto temporale di più di centotrent’anni, bisogna vedere se il ministro Sangiuliano consideri il Risorgimento e la costituzione dell’Italia nella sua interezza, oppure se vuole spostare l’asticella ancora più avanti, ovvero alla costruzione del mito dell’Italia, che va dalla fine dell’Ottocento alla Grande Guerra, dove sono entrati in scena i nazionalisti bellicisti che ruotavano intorno ad Enrico Corradini ed Alfredo Rocco e confluirono nel fascismo.