OGGETTO: L'imperdonabile
DATA: 07 Gennaio 2021
Quella di Julian Assange, definito in passato da Joe Biden "un terrorista hi-tech”, è una storia estrema, un castigo dal mondo durato dieci lunghissimi anni.
VIVI NASCOSTO. ENTRA NEL NUCLEO OPERATIVO
Per leggere via mail il Dispaccio in formato PDF
Per ricevere a casa i libri in formato cartaceo della collana editoriale Dissipatio
Per partecipare di persona (o in streaming) agli incontri 'i martedì di Dissipatio'

“Quando tornerà a casa festeggeremo”, ha detto la sua compagna dopo che la giustizia britannica ha negato l’estradizione per gli Stati Uniti. Ammesso che prima o poi succeda (il governo americano ha già preannunciato il ricorso, e per giunta lo stesso giudice ha respinto proprio ieri la richiesta di libertà su cauzione), il fatto che è che Julian Assange non ha una casa dove tornare. Per essere più precisi, non ha più una casa. Punto. Da dieci anni, praticamente. Ha vissuto prima cambiando posto dove dormire ogni sera, poi per sette anni nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra dopo che vi si era rifugiato nel 2012, quindi, dopo il ritiro dell’asilo per ripetuta violazione dei termini dell’asilo da parte del nuovo presidente ecuadoregno Lenín Moreno (che a dispetto del nome di battesimo di rivoluzionario aveva ben poco), nel carcere di Belmarsh, a seguito della condanna per violazione dei termini della libertà provvisoria, pur avendo finito di scontare l’unica pena inflittagli nel Regno, per aver violato nel 2012 i termini della cauzione quando era sotto inchiesta. Il tutto per sfuggire a un reato per il quale era stato indagato in Svezia, dove si era recato nel 2010. Un’accusa (archiviata, riaperta e quindi definitivamente riarchiviata nel 2017) evidentemente risibile in sé e per sé e assurdamente sproporzionata: “stupro”, ma uno stupro da intendere come “rapporto sessuale senza preservativo”, considerato reato in quel Paese scandinavo.

La storia di Julian Assange è una storia estrema, è un film che sembra scritto da uno sceneggiatore ubriaco, più disturbato ma più visionario del Gary Oldman/Herman Mankiewicz del deludente, da poco uscito, “Mank” di David Fincher. E’ una storia distopica, in fondo, che come protagonisti ha il non luogo, l’assenza, l’altrove, la diversità, la distanza -grottesca, siderale- tra i fatti più che privati, intimi, inizialmente addebitatigli, in nome dei quali è cominciata la sua odissea, e l’ipocrisia del Potere con la p maiuscola, che solo più tardi, nel 2019, doveva mostrare la sua faccia americana, quando all’accusa di crimine informatico si sarebbero aggiunti altri diciassette capi di imputazione sui quali veniva formalizzata la richiesta di estradizione respinta nei giorni scorsi che tanta stizza (“estrema delusione”, l’espressione formale) ha provocato in un Paese che mai nella sua storia è parso così diviso in due.

Perché tutti, compresi quelli che facevano finta di credere ai racconti (piuttosto sconnessi) delle due donne svedesi che l’avevano accusato, hanno sempre saputo che la vera colpa di cui si era macchiato questo australiano poco meno che quarantenne che già nel 2007 aveva fatto parlare di sé con la pubblicazione del manuale delle guardie di Guantanamo, era ben altra. Era quella di aver mostrato per un momento le cose dalla parte delle cuciture, di aver fatto vedere i grandi del mondo in mutande, di aver reso momentaneamente leggibile il sottotesto della diplomazia ufficiale, di aver fatto venire a galla ciò che deve rimanere sul fondo, inconoscibile ai più. Il suo peccato -senza remissione, va da sé- era stato quello di essersi impossessato di milioni di file secretati relativi a ogni genere di attività di governi di mezzo mondo ed averli resi noti grazie a una rete di giornalisti preoccupatisi di decifrarne e pubblicarne il contenuto. Dalla repressione cinese della rivolta tibetana a quella turca contro le opposizioni, dalla corruzione nei Paesi arabi alle esecuzioni sommarie della polizia keniota, fino alle operazioni militari compiute dagli stati uniti in Afghanistan e Iraq (400mila carte solo su quest’ultimo) che avevano comportato uccisioni di civili, senza contare i vari e poco lusinghieri giudizi espressi dai diplomatici americani a proposito dei loro alleati.

Era il 2010 e quel materiale scottante ma il suo atterraggio sulla pubblica opinione risultò in fondo come attutito, grazie a una specie di tacito passa parola sviluppato nel corpo dell’informazione, confortato dall’oggettiva complessità di “tradurre” in forma giornalistica tanto materiale così complicato su materie così complicate, ceduto in prima battuta a un gruppo di testate considerate più sensibili all’argomento “libertà di stampa”, tra cui quel Guardian al quale, in un altro e ben più adrenalinico film, il fuggiasco Matt Damon/Jason Bourne affidava le sue oscure verità. L’ editore hacker Julian Assange aveva toccato il nervo scoperto del Potere, il cui improvviso imbarazzo si poteva leggere nella scomposta fragilità delle prime reazioni: l’accusa assurda a carattere sessuale dalla Svezia, appunto, e l’accusa da parte degli Stati Uniti di crimine informatico, fatto che non solo avrebbe comportato una pena lieve (fino a un massimo di 5 anni), ma che oltretutto Assange fisicamente non aveva commesso, visto che i file in questione erano stati trafugati da due compagni di avventura, perfettamente: Edward Snowden, un ex tecnico della CIA alle dipendenze di una società di consulenza della NSA (la società di sicurezza che Obama si era ben guardato dall’allentare dopo gli otto anni di Bush e che come verrà poi fuori aveva tra i suoi numeri controllati anche quello di Angela Merkel, con relativo scandalo subito rientrato) e Chelsea Manning, un militare statunitense analista per l’Intelligence.

Tutti e due, Snowden e Manning, perfettamente intonati malgrado se stessi in questa storia fatta di vuoti e di pieni identitari, tutti e due diventati immediatamente bersagli critici, nemici pubblici degli Stati Uniti e quindi del mondo occidentale, oggettivamente con ragioni più comprensibili di quelle che spinsero il presidente Nixon a definire in tal modo l’ilare e un po’ invasato profeta dell’LSD Timothy Leary. Il primo rifugiatosi prima in un albergo di Hong Kong su consiglio di Assange, quindi a Mosca, dove continua a vivere dopo esser diventato anche cittadino russo; il secondo -o meglio la seconda, perché nel frattempo era diventata donna a tutti gli effetti- arrestata seduta stante, condannata a 35 anni di reclusione con l’accusa di attentato alla sicurezza nazionale, detenuta per sette fino alla scarcerazione, ottenuta grazie a un Obama molto interessato, nell’ultimo anno del suo mandato, a perfezionare il proprio profilo liberal internazionale, preoccupato di non poter accusare Julian Assange di crimini relativi alla pubblicazione di documenti classificati senza criminalizzare di conserva il giornalismo investigativo, visto che Assange sarebbe il stato primo editore ad essere incriminato sulla base dell’Espionage Act, la famigerata legge (rispolverata poi da George W. Bush) che colpisce duramente il caposaldo dell’americanità come la libertà di opinione. Una legge che ha un padre lontano illustre come John Adams e un altro presidente come Wilson come esecutore, quando alla vigilia della prima guerra mondiale ne aveva fatto lo strumento per una repressione senza precedenti, è la stessa norma tornata alla ribalta nel giugno 1971, quando il New York Times e il Washington Post entrarono in possesso dei documenti (a quei tempi faticosamente fotocopiati) poi pubblicati col nome di Pentagon Papers, che avrebbero riscritto la storia della guerra del Vietnam, come raccontato da Spielberg in The Post, il film che si chiudeva ricordando a tutti la sentenza della Corte Suprema a favore di una stampa che deve essere al servizio dei governati e non dei governanti.

Quella stessa legge aveva fatto di Chelsea Manning la sua nuova e improbabile vittima, bersaglio critico anche del successore Trump che proprio alla stampa dedicò la sua prima, aggressiva e per niente incoraggiante conferenza stampa. Sotto la sua presidenza la Manning doveva tornare in carcere (tra il marzo 2019 e il marzo 2020) per essersi rifiutata di testimoniare contro Wikileaks, con un Trump interessato solo in questa vicenda a un eventuale, agognato tornaconto poersonale sui rapporti con la Russia di Putin. Tra gennaio e maggio 2010 l’ex militare aveva scaricato e inviato ad Assange centinaia di migliaia di documenti segreti, compresi i cosiddetti Guantanamo Files e i 250 mila cablo della diplomazia USA, che portavano a galla per la prima volta abusi ignorati dell’esercito USA e decine di migliaia di morti civili prima non rivelate al pubblico, tra cui l’uccisione di due giornalisti della Reuters.

Una storia, quella di Assange, grondante ormai di parole e di immagini, a parte naturalmente quelle in codice con cui Wikileaks tra il 2010 e il 2011 invase la rete più che i giornali gettando scompiglio nei governi di mezzo mondo. Perché ci sono anche quelle dei tanti articoli scritti su, pro e contro lo sfuggente artefice di tale sconquasso internazionale, quelle delle biografie mai autorizzate (l’unica che avrebbe dovuto esserlo, scritta da Andrew O’Hagan, è saltata malamente così come raccontato dallo stesso scrittore in un racconto intitolato “La vita segreta”), delle interviste e delle dichiarazioni rilasciate qui e là, delle sceneggiature  dei vari film intorno ad essa fioriti: dal dimenticabile e dimenticato Quinto potere, realizzato sulla base del polemico libro scritto da un ex collaboratore di Assange al documentario solidale “Citizenfour” di Laura Poitras, vincitore addirittura dell’Oscar nel 2015, incentrato principalmente sulla figura dell’ex tecnico informatico della Cia Edward Snowden, fino a quello “Snowden” di Oliver Stone,  che  nel 2012 aveva firmato con il collega Michael Moore un editoriale sul New York Times in cui deplorava la politica repressiva del governo americano nei confronti dell’attivista australiano. Quello stesso Stone, definito “di sinistra” solo da chi conosce poco la realtà americana che dopo la vista fatta ad Assange nell’ambasciata equadoregna a Londra ebbe a dire: “Credo che non molti negli Stati Uniti capiscano quanto sia importante l’operato di Wikileaks e il supportare Julian Assange”, che ha fatto tanto per la libertà d’espressione e che viene oggi perseguitato dalla nazione che di questo concetto ha invece abusato”.

Come poche altre, forse come nessun altra, la storia di Assange si presta a far da paradigma di un mondo entrato da tempo in un regime di fragilità, di incertezza che l’emergenza covid ha reso solo più evidente, più popolare. Ragionare ora su cosa avrebbe fatto ora la giudice inglese che ha negato l’estradizione oltreoceano se alla Casa Bianca ci fosse stato ancora Trump o ci fosse già quel Joe Biden che da vice Obama ebbe a definire Assange un “terrorista hi-tech”, potrebbe rivelarsi una perdita di tempo. Perché viste le motivazioni, incentrate su questioni puramente sanitarie (le condizioni provate di Assange e le conseguenze possibili sulla sua salute di una dura detenzione nelle carceri americane) si commetterebbe un errore di valutazione interpretando il no all’estradizione emesso dal tribunale inglese come un assist assoluto alla libertà d’informazione, in una vicenda tenuta sostanzialmente sott’acqua per dieci lunghi anni da un’informazione dimostratasi molto interessata a scene clamorose come l’asportazione di peso di Assange dall’ambasciata dell’Equador da parte della polizia inglese) ma nel complesso ben poco interessata a riflettere su uno dei temi centrali piantati dalla vicenda Weakileaks nelle democrazie occidentali, ovvero quale sia il confine tra libertà di stampa e censura in un mondo sempre più militarizzato e al contempo più gassoso dove la modernità, come individuato dall’americano Marshall Berman molto prima del pluricitato Bauman, è estremamente liquida, sebbene sempre pronta a coagularsi in nome del Potere.

I più letti

Per approfondire

Amici, ma non troppo

Lorenzo Trapassi indaga la storia dei turbolenti rapporti tra Germania e Stati Uniti facendo luce sugli effetti psicologici di episodi poco noti ma fondamentali per il passato e il futuro dell'Occidente.

Scalfari, l’egemone

Imprenditore, editore e giornalista, Eugenio Scalfari ha rappresentato una forza nel dibattito politico-economico del nostro paese da non sottovalutare.

Geopolitica delle Serie TV

Le serie tv dell’ultima Golden Age hanno prima generato paure funzionali a rafforzare il sistema americano, poi hanno spinto la tragedia verso la farsa. Un libro necessario di Dominique Moisi.

La Germania è Angela Merkel

Mentre gli americani supportano apertamente il nascente sodalizio fra Mario Draghi ed Emmanuel Macron, la Germania, senza Angela Merkel, è sempre più condannata all'irrilevanza geopolitica.

Per una filosofia dell’informazione

Nell’era dei nuovi "information network", la filosofia si raccoglie e disegna nuove soluzioni ai problemi del pensiero. Nel corso di ottobre 2024, Raffaello Cortina Editore ha pubblicato la traduzione di un testo di Luciano Floridi - Filosofia dell’informazione - uscito in inglese nel 2011. Una terra d'indagine fragile, ma affrontata dal filosofo, che da poco ha cominciato a guidare il Digital Ethics Center, presso l'Università americana di Yale.

Gruppo MAGOG