Tre anni, una settimana e due giorni. Viene difficile credere sia passato tanto dalla sgangherata marcia dei trumpiani su Washington D.C., quel January 6th infilato a mo’ di cuneo nelle cronache del tardo impero a stelle e strisce. All’epoca pareva dovesse essere la prova in costume — letteralmente, per alcuni — di una seconda Guerra Civile, immaginata, temuta, caldeggiata lungo tutta la permanenza di Forty-Five alla Casa Bianca; rossi contro blu, se non nelle cabine elettorali che a novembre avevano proclamato Presidente Joe Biden, allora al Campidoglio, ultima spiaggia per il tycoon e per settantacinque milioni di cittadini, e poi magari dietro casa, trasformata per l’occasione in campo di battaglia. Niente da fare. La giornata, metà grido di disperazione e metà allucinazione psicopolitica, si risolse in tragicommedia: cinque morti e duecento feriti, mentre i barricaderos populisti si aggiravano per i corridoi dell’edificio neoclassico, chi in cerca di souvenir, chi intontito da un luogo così lontano, in ogni senso, da sembrare rarefatto.
Di J6 ci restano le immagini surreali, e la netta sensazione che gli States abbiano perduto anche quel briciolo d’innocenza faticosamente sopravvissuto agli innumerevoli scandali figli della loro primazia mondiale. Beninteso, non si è trattato di un episodio straordinario; la sede delle Camere riceve spesso visite inattese, la più recente da parte di una nutrita folla di manifestanti filopalestinesi, ed è sufficiente richiamare alla memoria il fiasco del Russiagate — o l’ormai dimenticato tentativo democratico di ribaltare i risultati della tornata del 2000, vinta per un soffio da Bush Jr. dopo un controverso riconteggio in Florida — per rendersi conto che oltreoceano neanche l’urna è mai stata off-limits. Stavolta però il tempo non sembra aver dissipato l’astio reciproco, anzi: la retorica via via più feroce dell’una e dell’altra parte, che vorrebbe dipingere gli avversari ora come terroristi, ora come traditori, lascia pensare che la ferita del 6/1 si sia allargata fino a diventare uno squarcio.
Chissà cosa direbbe John Brown. Vero e proprio zelota dell’abolizionismo, nel 1859 prese d’assalto l’arsenale federale di Harper’s Ferry, in Virginia, intenzionato ad armare una rivoluzione degli schiavi in stile haitiano. Gli andò male: al posto dei servi galvanizzati sopraggiunsero i Marines e Brown, costretto ad arrendersi insieme ad un manipolo di fedelissimi, finì sulla forca. Ma invece di allontanare la catastrofe del fratricidio che incombeva sulla giovanissima nazione, la morte di questo «uomo d’idee e di princìpi», come lo definì Henry David Thoreau, ne fece una certezza. La vicenda spaccò in due la neonata compagine repubblicana, consentendo ad Abramo Lincoln di prevalere dapprima alle primarie del partito e poi alle fatidiche presidenziali del 1860, preludio della ribellione sudista. «Sono assai convinto che i crimini di questa terra colpevole non potranno mai venire espiati, eccetto che col sangue», ebbe a scrivere Brown in cella; nel giro di un anno e mezzo i cannoni di Fort Sumter gli avrebbero dato ragione.
Che la fallita sollevazione dei deplorables divenga un analogo punto di non ritorno è comunque inverosimile. L’America di allora era divisa da ben prima dell’incursione antischiavista di Harper’s Ferry: favorevoli e contrari al commercio d’uomini si contendevano l’anima del Paese da almeno cinque decenni, durante i quali avevano entrambi maturato un’utile dimestichezza col sotterfugio e la violenza. Soprattutto erano divise le élites politiche, economiche, militari ed intellettuali, conditio sine qua non di ogni conflitto intestino. Nulla a che vedere con gli USA di oggi, dove il Giano Bifronte del sistema a due partiti è sempre meno capace di dissimulare la sostanziale unidirezionalità delle spinte istituzionali che arrivano dai vertici di The Blob, la colossale ed imperscrutabile macchina della burocrazia manageriale. Gli eventuali screzi riguardano chi e in che modo debba muoverne le leve, mai a che scopo: il potere brandito dal tanto chiacchierato Deep State è fine a sé stesso, ed è tramite sé stesso — non tramite il voto — che si perpetua.
Tuttavia, anche sullo sfondo di questa disamina permane l’impressione che l’esperimento statunitense sia effettivamente agli sgoccioli. Una miriade di sondaggi e reportage descrivono la reciproca incomunicabilità ed il crescente isolamento dei distinti schieramenti; persino la cultura pop, da Hollywood alla musica indipendente, sembra guardarsi attorno con sconsolato pessimismo. John Doe non capisce più i suoi vicini e i suoi vicini non capiscono più lui, un po’ come in un matrimonio esausto, di quelli che vanno avanti per mera abitudine. E dunque qualcuno propone la separazione. I suoi fautori lo chiamano National Divorce: appunto una separazione incruenta, decisa di comune accordo con un referendum e implementata strada facendo in attesa dell’addio definitivo. Una stretta di mano senza (troppo) rancore, tanti saluti e via, ciascuno a costruire la sua America, bianca, cristiana e di destra oppure marrone, atea e di sinistra a seconda delle preferenze; l’idea, sebbene alquanto bizzarra, piace.
A voler giocare ai guastafeste verrebbe da domandare che ne sarebbe del patrimonio familiare: cinque trilioni di dollari di entrate nel 2022 (nonché trentaquattro di debito totale), quarantacinque miliardi di barili di greggio e ottomila tonnellate d’oro, per non parlare delle oltre cinquemila testate nucleari o delle circa settecentocinquanta basi militari sparse ai quattro angoli del mondo. In che proporzione andrebbero spartite le spoglie della patria defunta? E cosa bisognerebbe raccontare agli amici ed ai nemici? Nessuno degli aspiranti scapoli sembra interessato a chiederselo, figurarsi a rispondere; il loro mantra si direbbe essere «ci penseremo dopo», possibilmente affatto. Insomma, molta teoria e poca pratica. Con tutta probabilità questo divorzio non s’ha da fare, anche perché, lo ribadiamo, gli sposi non sono in buoni rapporti: facile che il risentimento prenda il sopravvento, e trasformi il mite commiato in un braccio di ferro cui naturale conclusione è la medesima guerra che si vorrebbe evitare in prima battuta.
Meglio piuttosto lasciare che il legame si sciolga da solo, senza che se ne discuta, forse che ce ne si accorga. Così la pensano i sostenitori del Great Sorting, l’altra faccia della secessione soft. Saranno a loro avviso le scelte politiche dei suoi singoli membri a determinare la morte de facto dell’Unione: gli Stati conservatori lo diventeranno via via di più, emulati in maniera speculare da quelli progressisti in una spirale di radicalizzazione che indirizzerà le correnti migratorie interne fino a dar vita a due entità inconciliabilmente diverse. Partita dai meandri dell’Internet Alt-Right, questa visione accelerazionista ha infine trovato un aderente entusiasta in Ron DeSantis, sotto la cui egida la già menzionata Florida si è trasformata in un’oasi ideologica per gli anti-woke. L’intento è ora di estendere l’esperienza del Sunshine State ad altri feudi dell’elefante, così da forzare l’auto-esilio della popolazione non allineata e garantirsi quindi uno spazio al riparo delle contromosse avversarie.
Da par loro, le sinistre continuano a favorire in maniera sistematica l’impressionante afflusso di persone dal confine meridionale (il record è stato registrato a dicembre, con circa diecimila attraversamenti in un singolo giorno). La politica è volontà, ma la demografia è destino: valga in proposito l’esempio del Minnesota, dove la foltissima comunità somala garantisce ormai ai democratici una base di consensi semplicemente inerodibile. È anche per sottrarsi a questo malthusianesimo politico che le frange più combattive del Grand Old Party puntano sul localismo, talvolta in contrasto con la leadership apicale; intanto, da prospettiva fantasiosa la grande cernita si fa quasi profezia. I campi opposti si compattano e fortificano i guadagni passati alla stregua di castelli, in un’ottica che è nel contempo di difesa e di reciproca offesa. Così facendo tratteggiano una linea di demarcazione che si preannuncia pericolosa da valicare quanto e più della Mason-Dixon, vecchio steccato immaginario tra libertà e catene.
Può darsi che infine emergano davvero due Americhe, l’una la negazione dell’altra e nondimeno ancora accomunate da una sola bandiera; può darsi che trovino una qualche forma inedita di equilibrio, per convivere alla buona da separate in casa. È però altrettanto possibile che ascoltando un’unica campana, la propria, una delle due concluda di potersi e di doversi (ri)prendere tutta l’abitazione. Come l’ultima volta.