OGGETTO: L’eterna disputa tra Oriente e Occidente
DATA: 20 Ottobre 2024
SEZIONE: Società
FORMATO: Analisi
AREA: Altrove
Oriente e Occidente. Espressioni quasi metafisiche. Luoghi più del pensiero che della geografia. Rappresentazioni di differenze incommensurabili. Per rintracciare ciò che fonda tale alterità è necessario intraprendere un viaggio concettuale, più che temporale e spaziale. È infatti nella Ragione che tutto ha inizio. Non nel contenuto della Ragione, ma nella Ragione come contenuto.
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Ciclicamente l’umanità ripropone a sé stessa la somma disputa: Oriente contro Occidente. Sfida di luoghi, di idee, di religioni, di civiltà. Dai Greci contro i Persiani agli Europei contro gli Ottomani, fino ad arrivare ai giorni nostri, le rivalità geopolitiche tracciano nuove linee di frattura. Oltre alla storica Terra di Mezzo, ribattezzata dagli europei “Levante” o “Medio Oriente”, emerge anche quello che è stato definito “Estremo Oriente”.

Raramente, però, vi è la sincera intenzione di voler scorgere quel che c’è dietro i fatti, ciò che li muove, li motiva, li determina. Forse si ha il timore di perdere in questo viaggio sé stessi, offrendo così il fianco al nemico. A prescindere dalle intenzioni, si pone a parer nostro necessario cercar di cogliere l’essenza e l’origine di tale alterità.

Oriente e Occidente. Espressioni quasi metafisiche. Luoghi più del pensiero che della geografia. Rappresentazioni di differenze incommensurabili. In essi vi abbiamo sempre scorto l’origine di due umanità. Differenze interne all’uomo, non connaturate nel sangue o nella pelle.

Esse affondano le radici nel concetto per poi incarnarsi nel sentimento e nella cultura umana.

La struttura dei popoli, le loro tradizioni e condizioni, le regole che ogni comunità si è data, trovano il loro fondamento in tali concetti.

L’uso dei due termini conferisce un significato strettamente geografico che in effetti ha riscontro nella realtà, per lo meno quella odierna. Tuttavia inganneremmo noi stessi se credessimo nella loro staticità, vincolandoli a confini ben definiti lungo il corso della storia.

Occidente è oggi l’Australia, che si colloca però tra gli stessi paralleli del Giappone. Un tempo parte dell’Asia Minore era considerata Occidente. Secoli dopo, la Sublime Porta fu vista come l’inizio dell’Oriente. Duemila anni fa gran parte del Nord Africa era Occidente assai più di Gallia, Germania e Britannia. E ancora la Russia, da secoli in preda a questo strabismo, incapace di comprendere quando di orientale e occidentale ci sia nel proprio sangue. 

Solo grandi eventi possono sconvolgere un territorio dalle fondamenta e portarlo a spostare il suo asse da Oriente a Occidente, o viceversa. Nella storia, il Medio Oriente è divenuta la regione di incontro e di scontro tra questi due modi di essere dell’uomo. Geograficamente e concettualmente in mezzo fra due mondi.

Per quanto elementi del pensiero più che della geografia, la lontananza col “diverso” cementa uno stato d’essere, l’idea si incarna in un luogo e la lontananza concettuale diviene anche geografica. È l’idea che modella il reale.

Le distinzioni sono così evidenti che solitamente ci si ferma agli effetti senza interrogarsi sulle cause. 

La diversa concezione di individuo e comunità, di natura e società, del tempo e dell’educazione; differenze lampanti che prescindono da qualsiasi interrogazione. Ma ogni cosa ha un’origine. Per rintracciare quella che fonda il modo d’essere occidentale e orientale, bisogna intraprendere un viaggio concettuale, più che temporale e spaziale. È infatti nella Ragione che tutto ha inizio. Non nel contenuto della Ragione, ma nella Ragione come contenuto. Il risultato del processo in cui la Ragione si fa oggetto di sé stessa attribuendosi un valore, un incarico, un significato. È dalla conclusione di questo viaggio che deriva ogni differenza a noi immediatamente visibile.

Tutto si riduce alla distinzione della Ragione come soggetto o come oggetto.

Nel pensiero occidentale Coscienza e Ragione si fondono. Non divengono strumenti del soggetto ma sono essi stessi soggetto. Tale concezione, che molti adducono ai primi filosofi greci, si mostra invero, seppur in germe, già nella mitologia dei secoli precedenti.

Ciò che distingue la religione greca da molte altre culture antiche è proprio la prossimità tra l’umano e il divino. Gli dèi greci riflettevano un modello sociale con caratteristiche riconoscibili e dinamiche familiari, attraverso le quali i Greci interpretavano le questioni cosmiche e morali con storie e miti che avevano un valore quasi teatrale. L’antropomorfismo non riguardava solo l’aspetto fisico, ma anche e soprattutto quello spirituale. Ogni divinità era strettamente legata ad aspetti della vita umana più che naturale, mentre altrove, in Mesopotamia, Egitto, India e Cina, la trascendenza aveva un ché di assoluto. D’altronde, in Grecia, non vi era alcun libro sacro che indicasse una qualche legge o prescrizione divina. La mitologia sorse e si diffuse oralmente tramite poeti e oratori e, in un secondo momento, iniziò ad essere tramandata per iscritto (ad esempio con Esiodo). Erano quindi i Greci stessi a costruire nel tempo il proprio credo. Non vi era autorità trascendente che incarnava i suoi precetti in sacre scritture, ma racconti liberamente costruiti che avevano funzione allegorica – vi fu certamente anche la fede religiosa, ma per nulla paragonabile alle altre religioni. Rimane ancora incompresa l’enorme portata di una simile condizione. Quella era forse l’unica popolazione nel mondo antico che, allo stesso tempo, (a) non aveva libri sacri – come la Bibbia, il Corano, l’Avesta o i Veda – (b) non aveva divinità che fossero altro dall’uomo – come invece le divinità mesopotamiche e orientali – e dove (c) non vi era autorità umana che pretendeva di imporsi agli altri spacciandosi per divinità incarnata – come invece erano i faraoni o i re sumero-akkadiani.

Con la trasposizione dell’umano al divino, i Greci si ersero a dèi di sé stessi.

Era l’uomo che dava ordine e leggi alla comunità politico-sociale e, cosa ben più importante, i Greci erano coscienti di tutto ciò.

Quel che la mitologia sottintendeva, i filosofi successivi resero chiaro e manifesto. L’uomo divenne dio di sé stesso poiché dotato del più alto, potente, nobile e temibile strumento: la Ragione. Una facoltà siffatta è più, però, di un semplice strumento. Impone all’uomo uno stato d’essere del tutto diverso da ogni altro. È ciò che determina la coscienza di sé, dell’altro, del mondo. La Ragione è solo per l’uomo e l’uomo è solo per la Ragione. I due divengono sinonimi. Relazione che oggi ci appare così ovvia da essere quasi ignorata.

Eppure tale “scoperta” è ben più importante di ogni scoperta scientifica successiva. Senza la prima, infatti, non vi sarebbero potute essere le seconde e il fatto che queste germogliarono in occidente non fu affatto casuale. La concezione greca dell’uomo fu poi rafforzata dal sorgere del Cristianesimo. La prima grande religione monoteista che diede a dio il volto umano (Cristo). Dio, che è Logos (dunque Ragione), ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, ponendolo a capo della terra, di tutte le cose animate e inanimate. Così si legge nel libro della Genesi.

Non risulta difficile comprendere ora da dove derivino alcuni fondamentali aspetti che riconduciamo all’Occidente: l’antropocentrismo; la Ragione come soggetto e al tempo stesso come oggetto di dominio e trasformazione del mondo; l’uomo come fautore del proprio destino che ricerca nella, e con la, Ragione i princìpi e le norme con cui regolare la propria società; l’esaltazione della figura dell’individuo, di pari dignità come chiunque altro proprio perché chiunque è dotato di logos. Questi aspetti, nonostante alti e bassi nell’interpretazione secolare, sono rimasti delle costanti nel pensiero occidentale. Essi sono alla base dei grandi progressi dell’Occidente. Il criticismo non avrebbe senso se privo di tali presupposti, così come la tendenza a volgere la propria Ragione verso l’infinito (dell’oggetto e del soggetto) per superar continuamente sé stessa. Allo stesso modo il concetto occidentale di Libertà, il quale si pone in relazione circolare con la Ragione: la Libertà diviene il principio che fonda la Ragione e quest’ultima il presupposto per esprimere la Libertà.

Solo quando la Ragione si pone come oggetto di sé stessa si potrà giungere a tale conclusione. Solo riconoscendo che l’uomo è in sé libero (proprio in quanto uomo) si potrà perseguire tale libertà, riconoscerla e raggiungerla tramite la Ragione. Viceversa, non ponendo la libertà come principio, e pur vivendo in condizione di libertà, questa non potrà essere riconosciuta e tantomeno perseguita. Sarebbe una libertà come accidente, non come conquista, per cui temporanea. La Libertà non sarebbe potuta emergere in questa veste se non si presupponesse che ogni uomo è uguale all’altro poiché ognuno dotato di Ragione. Se, dunque, la Ragione è soggetto, oltre che oggetto; se l’uomo si erge sopra ogni cosa poiché possiede la Ragione; se questo “dono” è comune ad ogni uomo; se il principio della Ragione è la libertà; allora tutti gli uomini risultano uguali nell’essere intrinsecamente liberi. La Ragione deve essere libera nel suo movimento e, nel momento in cui si trova in tale condizione, può produrre (quindi perseguire, ricercare) la libertà nel reale, la libertà come contenuto.

Il pensiero orientale, al contrario di quello occidentale, presenta una concezione dell’uomo intimamente legata all’ordine cosmico, in cui il singolo individuo non è il regolatore di sé stesso né della vita sociale, ma è parte di un ordine più grande che trascende la sua esistenza. 

Le civiltà orientali si sono dotate nei millenni di divinità prescrittive, poste al di là della Ragione. Divinità che non si limitano ad impartire indicazioni dall’alto – alle quale si può o meno obbedire – ma si insinuano in ogni piega della vita umana: organizzano la struttura socio-politica, stabiliscono una gerarchia sociale, definiscono i doveri e i privilegi di ogni ceto (o casta).

La Ragione non è vista come il più alto strumento dell’uomo, bensì come una facoltà limitata, subordinata all’armonia universale. Di conseguenza, non è l’uomo ad essere al centro, ma la sua interconnessione con il cosmo, il divino, e l’ineffabile equilibrio delle forze.

In India, ad esempio, la concezione della vita umana è intimamente connessa al ciclo del saṃsāra, il continuo fluire delle rinascite, regolato dal karma. L’uomo non è che un frammento di un processo molto più ampio e complesso. I Veda, i testi sacri più antichi della cultura indiana, non conferiscono all’individuo la posizione di creatore del proprio destino, ma insistono sul fatto che l’umanità deve conformarsi a un ordine sacro preesistente, il Rta, principio di verità e armonia cosmica. L’Induismo sviluppa la visione per cui ogni uomo deve svolgere il proprio Dharma, il dovere, in accordo con la propria posizione sociale (varna) e il proprio stadio di vita (ashrama), in un contesto dove la realizzazione individuale non si ottiene attraverso la pura Ragione, ma tramite la sottomissione a un ordine divino e la ricerca della liberazione (moksha) dal ciclo del divenire.

Centrale è il concetto di Brahman (neutro), l’essere supremo, «colui che solo lo spirito può concepire, che sfugge ai sensi, che è senza parti visibili, eterno, l’anima di tutte le cose, che nessuna creatura può comprendere». Brahman è astrattezza assoluta.

La perfezione religiosa, nell’Induismo, è proprio l’elevazione a Brahman. Per far ciò, è necessario elevarsi al di sopra della concretezza del reale, rinunciare ai propri sensi e desideri, ma soprattutto alla Ragione, poiché l’essere supremo sfugge a qualsiasi forma di conoscenza. «Dio è l’Inconoscibile, senza nomi né attributi, noto solamente a coloro che non sanno». Non è logos ma essenza.

Brahman è quindi una divinità vuota, poiché può essere raggiunta solo annullando sé stessi, la propria soggettività. Egli è presso l’uomo solo se l’uomo alberga altrove. È negazione.

In quanto essenza, Brahman è in ogni cosa, animata o inanimata. Tale panteismo fa sì che l’uomo sia quasi svilito di fronte alla natura, poiché l’essere supremo non chiede a questa altro da ciò che è già, al contrario di quanto invece vien richiesto all’uomo. Al tempo stesso, però, la presenza dell’eterno nella natura rende questa tutt’altro da ciò che concretamente è. L’aria, la terra, le montagne e i fiumi assumono caratteri che trascendono il loro spirito concreto. La terra e il cielo sono Brahma (maschile), l’acqua e il sole Vishnu, il fuoco e la luna Shiva. Anche gli animali rappresentano innumerevoli divinità.

In tale concezione, dunque, il valore della Ragione viene ridimensionato e così anche quello dell’uomo. È per questo che sorge come necessario l’imposizione di un ordine che provenga dall’alto. Le prescrizioni si ritrovano nei libri sacri (I Veda, le Leggi di Manu ecc.) i quali, oltre ad imporre una precisa struttura sociale (le caste) e indicazioni di tipo morale, forniscono precise e dettagliate istruzioni di comportamento (ad esempio: quale bastone debbano avere i bramini e di quale materiale debba essere composto; non mangiare dallo stesso piatto della moglie e non guardarla mentre starnutisce o sbadiglia; non guardare il sole né all’alba né al tramonto; non disturbare una vacca mentre beve e non andare a darne avviso a colui del quale questa beve il latte, ecc.).

Ciò che in India vediamo prescritto nella religione, in Cina ritroviamo nella filosofia.

Il pensiero confuciano pone l’accento sull’armonia sociale e sull’ordine collettivo, piuttosto che sulla centralità dell’individuo. L’essere umano è definito in base alle sue relazioni con gli altri: è figlio, suddito, padre, membro di una comunità. La Ragione individuale non è lo strumento privilegiato per garantire il benessere sociale; piuttosto, è la conformità alle norme rituali e all’etica comunitaria che assicura l’armonia. La Ragione viene utilizzata per comprendere il proprio ruolo nelle relazioni umane e nella società, non per dominare o manipolare il mondo esterno. L’uomo, dunque, ha il compito di “scoprire” e adattarsi alla struttura in cui è inserito, non di “costruirla”.

Confucio insiste sull’importanza della saggezza che deriva dall’esperienza e dalla tradizione, piuttosto che da un processo di razionalità autonoma. È l’equilibrio tra gli individui e il mantenimento del Dao (la Via) che garantisce il funzionamento dell’ordine umano e cosmico. Per quanto una filosofia sia indubbiamente meno rigida e prescrittiva di una religione, va comunque notato come nei “Quattro Libri” del confucianesimo venga posta la centralità del rispetto di una struttura sociale dove è esplicita la figura del sovrano e dei sudditi: «Lascia che il sovrano sia sovrano, il suddito sia suddito, il padre sia padre e il figlio sia figlio» (Dialoghi, 12.11). Per quanto non si possa parlare strettamente di religione, sia nel confucianesimo che nel taoismo, viene espressa la connessione che gli imperatori avevano col divino, incarnata principalmente attraverso il concetto del “Mandato del Cielo” (天命Tiānmìng). Il Mandato legittimava il potere del sovrano come voluto dal Cielo, a condizione che egli governasse con giustizia, virtù e nell’interesse del popolo.

C’è qualcosa che accomuna concezioni religiose e filosofiche così diverse come l’Induismo, il Confucianesimo, il Taoismo, ma anche lo Shintoismo e le antiche religioni mesopotamiche: l’uomo non si erge a dio di sé stesso; piuttosto, si pone in relazione con un ordine trascendente che lo supera. La Ragione, pur riconosciuta, non è mai considerata l’apice della facoltà umana. Essa deve essere integrata, o addirittura superata, per raggiungere la vera comprensione e armonia (sociale e cosmica). Da ciò ne consegue che l’ordine sociale derivi non direttamente dall’uomo (e dunque sia mutevole nel suo sviluppo), ma da divinità, libri sacri o, più semplicemente, sia connaturato in un ordine naturale che deve essere solo riconosciuto e rispettato. Di qui, anche la necessità di una gerarchia sociale imposta dall’alto che dia ordine alla comunità. L’uomo, quando è necessario – e solo in alcune delle religioni e filosofie menzionate – può ribellarsi all’individuo che in quel momento rappresenta una posizione dominante, ma non può ribellarsi al ruolo in sé.

Si delinea, dunque, un panorama nel quale il pensiero occidentale e quello orientale si ergono come poli opposti, distanti e inconciliabili. Tali divergenze, pur profondamente radicate, potrebbero apparire mere astrazioni concettuali se non venissero ricondotte alla sfera della realtà tangibile. 

Si consideri, a tal proposito, l’evoluzione delle rivoluzioni socio-politiche come esempio eloquente di tali dissimiglianze culturali. In ogni tempo e in ogni luogo, queste sorgono dal desiderio di una parte di spodestare i potenti (o il potente) in carica. Tuttavia, se in Occidente queste possono portare ad uno stravolgimento degli equilibri sociali e politici del paese, in Oriente è assai più raro che ciò accada e quand’anche avvenga, il nuovo si mostra come il vecchio ma con colori e nomi diversi. Si pensi ad esempio alle rivoluzioni inglese e francese da un lato e quella cinese dall’altro. Se la si guarda da un punto di vista meramente istituzionale, quella cinese parrebbe più rivoluzionaria di quella inglese. Eppure, nella sostanza, quest’ultima rappresentò un cambiamento epocale ben più della prima, poiché in un periodo di assolutismo monarchico, riuscì ad imporre la centralità del parlamento, modificando così l’equilibrio di poteri. Al contrario quella cinese, se non fosse per il velo ideologico (necessario a movimentare le masse agrarie), rappresentò in sostanza la lotta contro il caos che si ebbe dal crollo dell’Impero qualche decennio prima. Di fatto, fu l’imposizione di un ordine sociale che ricalcava quello imperiale, dove il segretario del partito divenne il nuovo imperatore e i suoi funzionari i nuovi Mandarini. A mutare rispetto la vecchia struttura imperiale non fu tanto l’organizzazione del potere e come questo era distribuito (vero aspetto rivoluzionario), ma semplicemente chi lo esercitava e il colore ideologico di costoro.

La Rivoluzione Francese, al contrario, fu un cambiamento radicale sotto ogni aspetto. Fu la rivolta di una classe sociale (borghesia) contro il dominio di altre (aristocrazia e clero) in merito alla distribuzione di potere. Tra le diverse rivendicazioni vi erano due aspetti cruciali: il diritto alla proprietà privata e i diritti fondamentali dell’uomo. Se in Cina la lotta fu contro chi deteneva il potere, in Francia e in Inghilterra la ribellione fu contro la logica di redistribuzione del potere. Tutt’altra questione.

Quanto si è affermato per la Cina lo si può ribadire anche per molti altri paesi tra il Medio Oriente e l’estremo oriente. A parte rare eccezioni, in Oriente siamo soliti vedere una struttura verticale nell’organizzazione di potere. Vi deve essere infatti una figura che faccia rispettare l’ordine precostituito, secolare o millenario. Se in Occidente si abbraccia l’idea che la storia evolva per cesure, cambiamenti, progressi e stravolgimenti radicali, in Oriente si ha la necessità di mantenere quel filo che unisce passato, presente e futuro. A tutto ciò si legano altri aspetti, evidenti a qualsiasi osservatore, come le forme dell’apprendimento.

Quando si pensa all’apprendimento in Occidente e in Oriente una delle questioni che balzano subito alla mente è la distinzione tra pensiero critico e apprendimento per ripetizione. Il primo, che si crede sia emerso da non più di qualche secolo, in verità era già una peculiarità nell’antica Grecia e ha attraversato la storia occidentale fino ai nostri giorni (seppur a tratti limitato). Il pensiero critico – ovvero la tendenza a mettere in dubbio ciò che vien dato per scontato, a cercare di ragionare fuori dagli schemi – è direttamente collegato all’idea di un individuo che si pone a capo di sé stesso; all’uomo consapevole che la Ragione è in sé libera da ogni vincolo e che tende verso l’infinito.
Dal socratico “so di non sapere” al cartesiano “dubbio metodico”, si ravvisa la necessità per l’uomo occidentale di non appoggiarsi a verità precostituite, ma di essere lui stesso il criterio di accettazione di una qualsiasi conoscenza. Ogni cosa deve passare al vaglio della nostra Ragione.

Emblematico, a tal proposito, che per secoli molti filosofi cristiani abbiamo tentato di spiegare l’esistenza di Dio attraverso dimostrazioni logiche (Anselmo d’Aosta e Tommaso d’Aquino su tutti). Perfino Dio non è esentato dal nostro esame. Cosa che per noi occidentali appare scontato, ma che per il resto del mondo non lo è affatto.

Al contrario del pensiero critico, l’apprendimento per ripetizione prolifera inevitabilmente lì dove vi è necessità di uniformare il pensiero. In quelle culture e civiltà che si rifanno a verità rivelate e indiscutibili, siano esse di matrice religiosa o filosofica. Lì, dove la struttura sociale e politica non può essere messa in discussione e dove i limiti e le funzioni della Ragione sono stabiliti e condivisi. Dove al di sopra della Ragione vi è la prescrizione, la quale non può essere contraddetta dalla prima. 

Come sottolinea Jin Li (professoressa di educazione e sviluppo umano alla Brown University) nel suo “Cultural Foundations of Learning: East and West”, mentre il modello occidentale enfatizza l’espressione individuale, il pensiero critico e creativo, la capacità di formulare idee originali e sfidare concetti preesistenti, quello orientale ha come obiettivo il perfezionamento morale e intellettuale della persona, ponendo così l’accento sulla memorizzazione e l’assimilazione continua di informazioni attraverso la ripetizione. 

L’apprendimento in Oriente è quindi soprattutto una questione morale, dunque sociale.

Ultimo aspetto che intendiamo sottolineare fa riferimento a tre concetti: Dispotismo, libertà e libero arbitrio.

Un breve episodio raccontato da Ernst Jünger ne “Il nodo di Gordio” riassume magistralmente quanto intendiamo affermare. «Quando nel 1194 il conte di Champagne, in viaggio per l’Armenia, lambì il territorio degli Assassini [o Nizariti, principale setta degli ismailiti], il loro Gran Maestro lo accompagnò in visita ai suoi castelli e alle sue piazzeforti. Giunsero presso una fortezza munita di torri altissime, sulla cui sommità erano piazzate due sentinelle biancovestite. Per dimostrare al conte che i suoi seguaci gli ubbidivano più di quanto facessero i sudditi cristiani con i loro principi, il Gran Maestro alzò il braccio e le due sentinelle si gettarono nel vuoto. Poi chiese al conte se con un secondo segnale avesse dovuto mandare a morte l’intera guarnigione, ma egli rispose negativamente».

Questo episodio, come afferma lo stesso Jünger, “è più di una lezione dimostrativa impartita da un potente orientale a uno occidentale”. Esso esprime con chiarezza l’incommensurabilità di due approcci alla vita e alla morte. In Occidente, anche il despota più efferato non comanderebbe mai ad un suddito il suicidio per la pura dimostrazione del proprio potere. Potrebbe mandare il suo esercito al massacro, coscio della scarsissima probabilità di successo, ma anche quest’atto lascerebbe accesa la possibilità della vita e non equivarrebbe comunque ad un ordine di suicidio. Questo perché ogni uomo occidentale, per quanto autoritario possa essere, riconoscerà che in ogni uomo c’è un nucleo di libertà che non può mai essere violato. “Nessun comando deve equivalere a una condanna a morte, nessuna ubbidienza a un suicidio”. 
Il sacrificio di sé stesso, in Occidente, è accettato solo se volontario, ovvero se risponde al libero arbitrio. In questo caso, colui che si immola per la causa, è visto come un eroe e il gesto come uno dei più nobili, proprio perché proviene solo da sé stesso. Volgendoci all’Oriente, oltre alle sentinelle nizarite, si pensi ad esempio ai kamikaze giapponesi, ai quali veniva dato l’ordine di sacrificare sé stessi in nome del proprio paese. Oppure, per rimanere sempre in Giappone, si pensi al rituale suicida chiamato seppuku. Un atto che non poteva essere inteso come volontario anche se non impartito ufficialmente da una specifica autorità. Esso faceva parte del codice d’onore del bushido, dunque integrato in precise regole di comportamento.

Tutti questi casi sono possibili in Oriente proprio perché vi è un diritto, una norma, una legge che precede la libertà del singolo. Se in Occidente, infatti, l’assunto iniziale è la presenza di un nucleo di libertà individuale che precede ogni cosa e che ciò che viene dopo (le norme) ne deve tenere conto e rispettarlo, in Oriente, invece, la libertà è un prodotto non una condizione preesistente. Per cui è questa che deve modellarsi in base a regole e strutture socio-politiche che la precedono (in quanto prescritte). 
L’idea della libertà come assunto e l’idea di libertà come prodotto, sono all’origine di civiltà così diverse.

In Occidente, la libertà come assunto impone la mutevolezza della struttura socio-politica come effetto. Questo perché, porre al centro la libertà comporta che sia la struttura a doversi modellare su questa e non viceversa. Nel momento in cui la Ragione dà vita a qualcosa di nuovo (o nuove rivendicazioni), tutto il resto muta. 

È per questo che in Occidente il dispotismo avrà sempre vita breve. Il despota, infatti, per sua stessa natura, cerca di congelare la struttura insieme alle sue norme, provando così ad invertire quell’ordine gerarchico sacro all’Occidente. Prima o poi, però, la reazione sarà la stessa che ebbero i generali macedoni allorquando Alessandro, conquistata la Persia, volle identificare sé stesso come un dio e introdusse anche per i suoi vecchi compagni l’usanza del proskýnesis

In Occidente si pretende il rispetto della libertà dei sudditi e dei cittadini, ma al tempo stesso, o proprio per questo, il governante è privato del libero arbitrio. Egli, proprio perché il suo compito è quello di governare nell’interesse e nel rispetto della libertà di tutti, non può perseguire nella posizione che occupa il proprio interesse, poiché il ruolo che ricopre lo avvantaggerebbe rispetto agli altri. In quanto primus inter pares, egli è l’unico a cui viene negato il libero arbitrio.

Roma, Marzo 2024. XVI Martedì di Dissipatio

Al contrario in Oriente, dove l’ordine precede l’uomo e la sua libertà, il despota è di casa. Egli infatti – che sia rappresentante di un credo religioso o di gerarchia sociale filosoficamente prescritta – non è visto come colui che priva gli uomini della loro libertà, ma come colui attraverso il quale l’ordine che tutti riconoscono si materializza. Egli è il garante di quell’equilibrio che gli individui anelano poiché da qualche parte prescritto. Per questo in Oriente il sovrano è spesso inteso come un dio. Non solo per legittimare la sua figura, ma perché è colui che ha la responsabilità dei suoi sudditi, come un padre dei suoi figli. 
In ogni sfumatura delle diverse collettività orientali, l’ordine prescritto indica ad ogni posizione (ceto, casta ecc.) i limiti del suo benessere e della sua libertà. Compito del sovrano è garantire niente più e niente meno che questi. A differenza che in Occidente, il sovrano qui è l’unico che può esercitare il libero arbitrio, purché nel frattempo si mostri capace di fornire ai sudditi quanto ad essi è dovuto. In caso contrario, il sovrano viene spodestato e sostituito con qualcun altro. Il ruolo rimane, la persona cambia.

Quel che si è voluto mettere in risalto in questa breve rassegna, non è tanto l’inconciliabilità tra il pensiero Occidentale e Orientale. Di questo si continua a discutere oggi come lo si fa da secoli e millenni. L’obiettivo di questa analisi era piuttosto quello di scavare nelle profondità di tale alterità per scorgerne le cause profonde e remote. Troppo spesso, infatti, incatenati alla logica del tifo, ci si concentra più sugli effetti che sulla loro origine, così da poter dire cosa di buono ha fatto l’uno o l’altro.

Ma nel rapporto-scontro tra queste due civiltà è necessario, in primis, tenere a mente da dove queste differenze derivino, così da scongiurare spiacevoli sorprese, come per coloro che per anni, un po’ fingendo e un po’ credendoci convintamente, erano convinti che si potesse “esportare la democrazia” in luoghi nei quali era la Ragione stessa che le impediva di attecchire. Ma anche oggi, dove molti anelano un cambio di regime in Iran, sperando in un impulso democratico di stampo occidentale.

Vane illusioni che possono generare disastri.

La questione non è dunque quella di decidere a tavolino quale delle due sia migliore. Per quanto ci riguarda, da occidentali, non possiamo che prediligere l’Occidente. Ma non è questo il punto. Il tema centrale è come gestire tale rapporto e cosa ci si può aspettare dall’uno e dall’altro a partire dai presupposti che li determinano in questa forma. Un nodo gordiano, ne siamo consapevoli, ma che si deve avere almeno la sincera intenzione di voler sciogliere.

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