Sulla tematica del populismo, dopo Tarchi, Veneziani e Formenti l’indagine prosegue con l’intervista al Prof. Franco Cardini, storico di fama internazionale. Già nel 2017 era intervenuto sull’argomento (con un’intervista pubblicata su vita.it che qui riproponiamo in forma aggiornata) “profetizzando” il riflusso dei movimenti populisti e evidenziato le differenze con i movimenti popolari. Oggi, alla luce dei nuovi assetti politici, sociali e geopolitici, determinati anche dall’avvento della Pandemia Covid-19, Cardini esclude una “resurrezione in tempi brevi” del fenomeno populista ormai “fagocitato dalla politica” e, soprattutto, non scorge opportunità per l’Europa subordinata al disegno egemonico statunitense.
Negli ultimi tempi si sta assistendo ad una crescita esponenziale del populismo. Potrebbe aiutarci ad inquadrare il fenomeno da un punto di vista storico spiegandoci cos’è, dove nasce e come si è sviluppato?
Credo che a questa domanda abbia già risposto in modo esauriente l’amico e collega Marco Tarchi, col quale concordo perfettamente perché gli riconosco una straordinaria competenza su tale tema.
Quale è stata la sua evoluzione in Italia?
Non andrò troppo all’indietro, e in particolare non affronterò la questione se il fascismo sia stato un populismo o se ne avesse comunque qualche carattere. Va da sé che in Italia i grandi movimenti “popolari” (incluso il comunismo, che si presentava come classista ma nella realtà non lo era) non erano populisti in quanto del populismo non avevano un carattere fondamentale: la sfiducia e/o la stanchezza e/o il disprezzo per la politica. Lo stesso fascismo, che in comune col populismo classico (il boulangismo, ad esempio) aveva il disprezzo per la politica come prassi o come pretesa “democratica”, risolveva tale disprezzo in termini di gerarchia e di disciplina nella militanza; allo stesso modo, essendo anticlassista e interclassista, aveva risolto tale posizione in termini corporativi ispirandosi a teorici molto vicini alla dottrina sociale della Chiesa (Toniolo). Quanto ai movimenti “populisti” attuali, la loro parabola è stata già percorsa nell’ultimo ventennio dalla “Lega” ed è percorsa adesso dal “M5S”: iniziale successo repentino dovuto alla novità, all’insistenza su pochi facili temi propagandistici declinati con alcune variabili (antislamismo, xenofobia, antieuropeismo, “antipolitica”, moralismo ecc.), alla stanchezza per il politicantismo professionista e incompetente, quindi impasse e crisi dovuta a un rapido deperimento-invecchiamento. La mancanza di veri e propri programmi e soprattutto di un’autentica tensione civica conduce fatalmente a un fallimento ciclico e magari a una rapida resurrezione su moduli ricorrenti (il berlusconismo e il riciclaggio di temi e simpatie ex-leghiste nel grillismo ne sono prova).
In Europa, oltre all’avanzare del populismo, stiamo assistendo ad una crescita esponenziale di partiti e movimenti nazionalisti. Quali sono i risvolti che potrebbero derivare da tali fenomeni?
Non ho alcuna stima né alcuna fiducia nei movimenti neomicronazionalisti: l’unico possibile esito per un movimento nazionalista serio in un paese europeo, nei decenni tra Anni Cinquanta del secolo scorso a oggi, sarebbe stato il puntare insieme con movimenti nazionalisti analoghi a una seria identità europea, alla costruzione di un patriottismo europeo e di una coscienza civica europea. In materia, c’erano stati alcuni conati negli Anni Sessanta (il movimento di Jean Thiriart, erede in gran parte del “socialismo europeo” di Pierre Drieu La Rochelle). La costellazione di gruppi e di personalità di cultura – non voglio definirli “intellettuali” perché il termine non mi piace – che dagli Anni Settanta ha trovato un catalizzatore in Alain de Benoist avrebbe potuto riprendere quei temi: ha scelto un altro cammino, peraltro molto interessante. Dallo sviluppo e magari dal successo elettorale dei gruppi neomicronazionalisti non mi aspetto nulla, se non un uso isterico e al tempo stesso strumentale della xenofobia. Se e quando qualcuno di questi gruppi assumerà come suo scopo primario la necessità di una seria riassunzione della sovranità nazionale, il che comporta anzitutto l’uscita dalla NATO, allora potremo rintavolare il discorso su basi più serie e concrete. Fino ad allora, vedo solo velleitarismo e caccia alle poltrone.
Può il populismo essere letto come l’ennesima disintegrazione di un pensiero europeo costruito sulle cattedrali, sui monasteri e sulle università?
Il pensiero “europeo” della Cristianità occidentale – quello espresso in un celebre saggio di Novalis – è quello che si è espresso appunto nelle cattedrali, nei monasteri e nelle università. Era un pensiero fondato sulla metafisica, sulle distinzioni gerarchiche e sul comunitarismo. La Modernità, ch’è essenzialmente individualismo e primato dell’economico-tecnologico, lo ha distrutto. Il mondo moderno, quello dell’economia-mondo, dello “scambio simmetrico” e dello sfruttamento generalizzato dell’uomo sull’uomo (la globalizzazione è questo) non è nato da uno sviluppo armonioso di quello che c’era prima, bensì da una rivoluzione: la Rivoluzione appunto individualista e materialista. Ci vorrà un’altra Rivoluzione per distruggerlo. A livello sociale e antropologico, la parola greca che meglio esprime il carattere di questo tipo di Rivoluzione è Metanoia.
La definizione “populista” è stata adottata, da parte di autorevoli studiosi, anche per il pontificato di Papa Bergoglio. A suo avviso potremmo parlare di momento populista nella Chiesa cattolica?
Mario Jorge Bergoglio in gioventù è stato peronista: ha conosciuto quindi un movimento dai caratteri populistico-carismatici abbastanza espliciti ed avanzati. Quando è entrato nella Compagnia di Gesù, ha certamente mantenuto intatta quella tensione verso la giustizia che aveva caratterizzato molto probabilmente la sua esperienza peronista, ma l’ha metabolizzata, appunto, in termini di Metanoia. Non vedo traccia di populismo nel pensiero di Bergoglio: vi scorgo una profonda vocazione escatologica e una vocazione profetico-apocalittica. Non so se Bergoglio sia l’”Ultimo Papa” profetizzato da Malachia: so che è un Papa dei Tempi Ultimi, uno che invita a vivere gli Eschata.
Nell’intervista rilasciata nel 2017 lei aveva profeticamente preventivato il riflusso dei movimenti populisti. A fronte dell’attuale situazione politico sociale quale direzione intraprenderà il fenomeno? E sotto quale forma potrebbe risorgere?
Non c’era profezia: questo è il trend dei movimenti populisti che o falliscono in quanto tali, o vengono riassorbiti dalla politica. Max Weber direbbe che, siccome sono a modo loro dalla parte del “carisma”, prima o poi l’ “istituzione” ha la meglio su di loro. D’altronde, come i rivoluzionari e gli estremisti, i populisti se non scompaiono sono condannati a trasformarsi in conservatori o in progressisti “moderati”. Ora, a parte le boutades di Grillo il quale – quanto meno oggi – è il primo a non crederci, il grosso del M5S riprenderà la strada degli scontenti vagamente di sinistra, a parte qualche frangia di destra che tornerà alla sua originaria posizione. Senza dubbio la scelta di Giorgia Meloni, a parte ch’era obbligata se voleva evitar la parte dell’inutile fanalino di coda governativa, è stata politicamente intelligente: quando la “luna di miele” fra Draghi e gran parte della politica italiana (non parliamo della società civile “reale”, che non si riesce nemmeno più a distinguere, sommersa dal clamore dei media) sarà trascorsa, cioè tra alcune settimane o pochi mesi, l’ex M5S riemergerà frammentato o comunque ridimensionato, a parte i politici più abili al suo interno che si vanno già accodando a un PD a sua volta peraltro in crisi. Una “resurrezione populista” nei tempi brevi non è prevedibile: la metabolizzazione del movimento pentastellato divenuto semipartito sarà lenta.
Possiamo considerare l’istituzionalizzazione quale fattore di declino dei movimenti populisti?
Ne è ordinariamente la regola: o ce la fanno e si metabolizzano in forze politiche o scompaiono. Il fatto è che hanno ragione a diffidare della politica, una cosa scorretta e disonesta. E’ per questo che essa ha sempre la meglio su di loro: li fagocita, anche perché in genere alla loro guida c’è gente che muore dalla voglia di far politica trasformandosi da esclusa in leader.
La Pandemia Covid 19 ha accelerato alcuni processi che hanno interessato l’architettura geopolitica, e rivelato, qualora ve ne fosse ancora bisogno, il limite dei modelli di organizzazione economica e sociale vigenti. A suo avviso come sarà la prossima globalizzazione? I nuovi cambiamenti potrebbero costituire un’opportunità per l’Europa?
Francamente non vedo alcun cambiamento in grado di costituire un’opportunità. Draghi è stato chiarissimo: volontariamente o meno, ha enunziato un programma e un progetto chiarissimi, parlando di atlantismo ed europeismo. Per “atlantismo”, Draghi intende fedeltà ai patti costituivi della NATO, che sanciscono la subordinazione politica e militare, quindi diplomatica, dell’Unione Europea al disegno neo-egemonistico statunitense, una caricatura del “multilateralismo” nel quale Obama forse credeva sul serio caratterizzata dal ritorno al programma “classico” del partito democratico statunitense: gli USA “gendarme democratico” del mondo intero, nel nome del principio assiomatico secondo il quale la pace e la prosperità del mondo (vale a dire del 10% della popolazione mondiale, che detiene e gestisce il 90% delle ricchezze del pianeta intero), quindi la stabilità dello status quo, coincidono con gli interessi degli USA. Per “europeismo” Draghi intende appunto lo status quo, vale a dire una “Unione” economico-finanziario-tecnologica che deve considerare la NATO come il suo braccio militare (la politica del quale è dettata a Washington) e non sognarsi mai di raggiungere indipendenza e sovranità politica trasformandosi in una Federazione o Confederazione sovrana in grado di sviluppare una sua posizione internazionale che sarebbe utilissima e benemerita, di mediazione fra i due blocchi della nuova “guerra fredda” che si va preparando tra USA da una parte, Russia e Cina dall’altra. Che io sappia, il varo di una vera Federazione Europea – ora che i progetti di costituzione, varati anni fa, sono miseramente falliti sul finto scoglio del preambolo relativo alle “radici cristiane” – non è più in agenda né a Bruxelles, né a Strasburgo; non si scorgono all’orizzonte movimento politici europeisti; l’unica persona che ha avuto l’intelligenza concretezza di rilanciare un discorso politico unitario europeista scartando esplicitamente al formula federalista, inadatta alla storia europea, e parlando invece di un possibile progetto confederato, è stata Giorgia Meloni. Era un appello nuovo e intelligente, avanzato che io sappia una sola volta e non ripreso da nessuno. D’altra parte la Meloni non può far niente: è “sotto schiaffo” e lo sa benissimo. Se in qualche futura competizione elettorale riuscisse ad arrivare sopra il 15%, immediatamente da qualche parte scoppierebbe una qualche bomba sotto un monumento alla Resistenza, sui muri di qualche sinagoga comparirebbe qualche svastica, l’ANPI si metterebbe subito in moto, rinascerebbe la “questione morale antifascista” e lei sarebbe di nuovo anche formalmente isolata. D’altronde con un “parlamento europeo” così, espressione dei parlamenti dei vari paesi e prono pregiudizialmente alla volontà statunitense, forse si fa la politica dei “recovery funds” ma non si va oltre l’euro. Questa è la fine del progetto europeista inaugurato decenni fa da De Gasperi, Adenauer e Schuman.
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