Il regime democratico occidentale sembra giunto all’età del tramonto. Lo attraversano crepe e scollature, sia in ambito sociale che tra popolo e governanti, che si innestano in un più ampio e complesso scenario globale caratterizzato dal crescente aumento di conflitti disputati nei punti nevralgici del pianeta. Il tutto in un momento di grandi rivoluzioni e conquiste in ambito tecnologico, i cui effetti sull’umanità sono ancora del tutto incerti e imprevedibili, ma che hanno già spianato il terreno ad un nuovo tipo di guerra, quella cognitiva, il cui campo di scontro è la mente di ogni singolo individuo.
Il Prof. Mario Caligiuri, pedagogo e massimo esperto di intelligence a livello nazionale, in “Maleducati” – uno dei suoi ultimi volumi pubblicato dalle edizioni LUISS University Press – ha bene illustrato tali problematiche e, focalizzandosi sull’ambito nazionale, ha concentrato l’attenzione su due aspetti cruciali, la disinformazione e lo scarso rilievo dato all’istruzione, due pilastri portanti la cui attuale fragilità ha contribuito a mandare in crisi l’intero sistema.
Al fine comprendere la natura e la portata dei rischi ed esplorare eventuali soluzioni, abbiamo intervistato l’autore partendo con l’indagare cosa cela un titolo così di impatto.
-Il titolo del suo ultimo libro è molto forte e inequivocabile. Perché siamo una società “maleducata”?
Perché credo che i risultati che stiamo vivendo nella società democratica siano conseguenza della insufficiente o inadeguata preparazione sia delle élite che dei cittadini. La democrazia, come è noto, è una ideologia, allo stesso modo del comunismo e del fascismo, e come tutte le ideologie presenta dei limiti. La democrazia si basa su due presupposti educativi: il primo è di avere dei cittadini consapevoli che riescano ad individuare, controllare ed eventualmente sostituire i propri rappresentanti; il secondo è di avere delle élite responsabili capaci di assolvere le proprie funzioni e di avvicinarsi il più possibile agli interessi della maggioranza. Qualora questi due presupposti siano insoddisfacenti o insufficienti siamo difronte ad una procedura elettorale e non ad un sistema democratico. Lascio a voi giudicare in che tipo di ambito noi stiamo operando nei primi decenni del XXI secolo.
-Sostanzialmente, l’emergenza educativa incide profondamente sui processi democratici. Con quali conseguenze per la tenuta del sistema Paese o, più in generale, del comparto europeo ed occidentale?
L’emergenza democratica è la conseguenza di un’emergenza educativa e coinvolge tutti i sistemi che fanno riferimento ai regimi democratici. Ciò diventa ancor più evidente con il consolidamento della globalizzazione che richiede decisioni veloci che i sistemi democratici, per loro natura, non riescono ad assicurare in maniera tempestiva. Quindi, in tale contesto, sono favoriti i sistemi autoritari, le multinazionali finanziarie, le organizzazioni criminali e i gruppi terroristici che, a differenza dei sistemi democratici, individuano le élite in relazione alle capacità individuali e non a categorie astratte come le elezioni e come i concorsi.
-Quindi, in Occidente, siamo di fronte ad una vera e propria crisi delle élite. Questo creerà degli scompensi anche di carattere geopolitico. Con quali effetti?
La crisi della democrazia è crisi della rappresentanza, cioè il modo con cui noi formiamo e selezioniamo le élite democratiche. Questo è un problema che riguarda tutto l’Occidente, tutti i regimi democratici. Se, infatti, facciamo riferimento all’attualità notiamo che la guerra tra Ucraina e Federazione Russa è anche un confronto tra diversi sistemi di governo. Questo fa presupporre che oggi, e nell’immediato futuro, i sistemi che producono élite più efficienti sono quelli che hanno la maggior possibilità di prevalere.
-I repentini cambiamenti sotto il profilo tecnologico pongono l’umanità di fronte ad ardue sfide. A fronte delle emergenze da lei descritte, come dovremmo proiettarci verso queste nuove dimensioni che vanno profilandosi e di cui conosciamo ancora poco?
Noi viviamo in un contesto in cui si stanno saldando tre dimensioni: la dimensione fisica, quella digitale e quella ibridata tra uomo e macchina. Credo, pertanto, che il nostro immediato destino sia quello dell’ibridazione tra l’uomo e la macchina. Tuttavia, bisogna comprendere che non siamo di fronte alla caduta dell’Impero Romano, alla scoperta dell’America o alla presa della Bastiglia. Bensì, siamo di fronte ad un cambio epocale dove non ci sono precedenti nella storia dell’umanità, in un contesto in cui il bruco sta diventando farfalla e l’uomo di Neanderthal sta diventando Homo Sapiens. Stiamo assistendo ad un salto di specie. Per cui noi non abbiamo le parole, le categorie culturali, i concetti mentali e le teorie pedagogiche e politiche per descrivere quello che abbiamo davanti e utilizziamo parole, categorie, concetti e teorie che sono superati. Anche quando noi vogliamo regolamentare il digitale oppure, come è stato fatto recentemente dall’Unione Europea, intendiamo regolamentare l’intelligenza artificiale lo facciamo pensando in analogico e, quindi, non cogliamo affatto la dimensione del problema. Nel caso dell’intelligenza artificiale mi sembra molto improbabile andare a regolamentare un fenomeno che si modifica di ora in ora con uno strumento superato come quello della legge tradizionale. Soprattutto quella di derivazione del Diritto Romano.
-In questo contesto siamo alle prese anche con la guerra cognitiva. Ci può spiegare come e con quali armi viene combattuta e i pericoli che ne derivano?
La mia lettura della guerra cognitiva è abbastanza diversa rispetto alle interpretazioni correnti. Noi siamo di fronte alla geopolitica della mente, nel senso che oggi il campo di battaglia in cui si sta giocando la lotta per il potere è rappresentato non più solo dal controllo dei mari, del centro terra, dell’aria, dello spazio, ma anche dal controllo del cyber spazio da cui arriviamo alla mente dei singoli individui – considerando che entro il 2030 tutti i cittadini sulla terra saranno connessi a internet – che costituisce il definitivo campo di battaglia oltre il quale non potrà esserci nulla. Questa battaglia viene inquadrata nell’ambito della disinformazione. Sul punto occorre precisare che noi viviamo in una società della disinformazione che si materializza in modo molto preciso con la dismisura di informazione da un lato e il basso livello di istruzione sostanziale dall’altro. Questo determina un cortocircuito cognitivo che impedisce alle persone di avvicinarsi alla sempre difficile comprensione della realtà. Noi siamo come i pesci nell’acqua. Ovvero quello di cui i pesci non sanno assolutamente nulla è l’acqua e noi, al pari dei pesci, siamo totalmente immersi nella disinformazione e non ce ne rendiamo affatto conto. La dismisura dell’informazione significa che il nostro cervello che si è evoluto in migliaia di anni riesce a ricordare solo sette concetti alla volta e rispondiamo alla velocità di 365 bit al secondo.
Circa il basso livello di istruzione sostanziale per comodità di analisi prendiamo come riferimento il nostro Paese, che tuttavia non è poi così dissimile dal resto dei Paesi dell’Occidente anche se in Italia la situazione è più grave. Nel nostro Paese, infatti, come diceva Tullio De Mauro, oltre il 75% dei nostri connazionali non è in grado di comprendere una frase complessa in italiano, mentre da un’indagine dell’OCSE risulta che quasi il 27% dei nostri concittadini sono analfabeti funzionali, ovvero sanno leggere, scrivere e far di conto ma non sanno utilizzare in maniera adeguata queste abilità. Parliamo delle stesse persone che rispondono ai sondaggi, viaggiano sui social e che votano. Ciò deve fare riflettere sulla natura del sistema democratico.
-Quali sono a questo punto gli schemi di difesa da mettere in campo sia come comunità che come singoli individui?
Ci sono a mio avviso diverse strategie da poter utilizzare; su tutte quella dell’educazione, pur sapendo perfettamente che parliamo di un’arma spuntata. L’educazione presenta tuttavia dei limiti: il primo è che dà risultati efficaci dopo decenni; il secondo è che l’educazione tradizionale, ovvero quella impartita attraverso scuole e università, non può essere la soluzione perché fa parte del problema, anzi costituisce la parte rilevante del problema. Nonostante ciò, costituisce una strada da perseguire con tutte le inadeguatezze che presenta. È, inoltre, opportuno precisare che il confronto tra intelligenza umana ed intelligenza artificiale sarà così devastante da non poterci precludere alcuna pista, anche quelle più controverse. A riguardo, c’è un esempio che vale per tutti ed è quello della valutazione medica. Se noi diamo la nostra cartella clinica ad un medico in carne ed ossa questo individuerà la nostra patologia con una percentuale superiore al 50%, se noi ripetessimo la stessa operazione con un algoritmo esso individuerà la nostra patologia con una accuratezza superiore al 90%. Inoltre, se noi andiamo a vedere quali sono state le cause di morte negli USA nel 2022 troviamo come prima causa le malattie cardiovascolari, come seconda i tumori, mentre come terza causa gli errori medici. Pertanto, è chiaro che, a fronte di questo trend, ci affideremo sempre più all’intelligenza artificiale.
Vi sono anche altre strategie possibili e a mio avviso da perseguire. Tra queste quella delle ibridazioni, tema fondamentale se consideriamo che internet, per come è noto, viene avviato dal DARPA nel 1969 con una modalità di utilizzo delle comunicazioni capace di funzionare anche in presenza di una guerra nucleare. Sempre il DARPA, nel 1994, si pone un altro problema, ovvero quello del potenziamento delle facoltà umane dando avvio al progetto che si chiama AugCoc (Augmented Cognition) e da quanto fino ad ora fatto trapelare da tale progetto, il cervello umano ibridandosi con le tecnologie inizia a potenziare le sue facoltà in modo rilevante. Un’altra strategia da utilizzare nel confronto con l’intelligenza artificiale è l’esplorazione dei poteri ancora poco noti della mente. Noi conosciamo solo in minima parte il funzionamento del nostro cervello, lo stiamo conoscendo di più attraverso quello che sta facendo l’intelligenza artificiale che svela a noi stessi quello che siamo per alcuni aspetti. La vicenda di Cambridge Analityca ci mostra in maniera evidente che attraverso l’analisi di oltre 70 like espressi sui social è possibile individuare le preferenze sessuali, elettorali e il livello economico di una persona; mentre con quella di 150 like l’algoritmo sa di noi più di quanto possano saperne i nostri partner o i nostri familiari; con 300 like l’algoritmo ci conosce al pari di noi stessi. Un’ultima strategia, anch’essa controversa, è quella di potenziare la nostra mente attraverso sostanze, una pratica già utilizzata dagli antichi, che Aldous Huxley, che faceva uso di mescalina, chiamerà “porte della percezione”, così come Hofman faceva uso dell’ LSD.
Essendo il livello dello scontro talmente elevato occorre esplorare qualunque tipo di possibilità, senza precludere nessuna forma di conoscenza. Come spiega una delle opere d’arte più importanti dell’umanità, la Scuola di Atene affrescata da Raffaello, l’uomo ha il dovere della conoscenza e noi non solo dobbiamo conoscere il pensiero degli antichi, ma dobbiamo confrontarci anche con quello che pensa il musulmano Averroè o l’ateo Epicuro. Il dovere della conoscenza è il dovere che ha l’uomo verso sé stesso e verso l’umanità.
-Nel conoscere e nel tramandare, sostanzialmente nella tradizione, risiede la capacità di deterrenza per convivere con l’innovazione?
Assolutamente. E anche lì che dobbiamo cercare per trovare il modo per convivere. Diversamente verremo guidati dalle macchine.
-Professore, lei è senz’altro uno dei massimi esperti di intelligence sul panorama nazionale. Potrebbe spiegare ai nostri lettori cosa effettivamente intendiamo quando parliamo di intelligence?
Con il termine intelligence noi individuiamo tre concetti differenti: individuiamo un apparato dello Stato, i cosiddetti servizi segreti, individuiamo un metodo di trattazione dell’informazione e individuiamo il complesso di queste funzioni. A mio avviso, la più corretta definizione di intelligence ci viene fornita da Bill Gates che ne parla come “una certezza semplice ma incrollabile”, aggiungendo che “il modo migliore per prevalere sugli altri è quello di eccellere sul terreno dell’informazione, ovvero il modo con cui si raccolgono, analizzano e utilizzano le informazioni”. Sostanzialmente, Bill Gates ha parlato del metodo dell’intelligence: raccolta, analisi e utilizzo delle informazioni. Pertanto, credo che l’intelligence costituisca una necessità sociale utile tutti, ai cittadini per difendersi dalla società della disinformazione che non è costituita solo dalle fake news, che sono l’elemento più banale ed immediatamente riconoscibile. Ma, la vera disinformazione che incide, determina e orienta una visione del mondo è una disinformazione prodotta quotidianamente dallo Stato e dalle multinazionali. In secondo luogo, l’intelligence serve alle aziende per poter solcare la globalizzazione sempre più feroce e in terzo luogo serve agli Stati per garantire il benessere e la sicurezza dei propri cittadini in quanto gli Stati nascono con un preciso scopo che è quello di difendere la vita delle persone. Non a caso uno dei più acuti studiosi di intelligence del nostro Paese, il sociologo Francesco Sidoti, scrive che il fine ultimo dell’intelligence è salvare vite umane.
-Se l’intelligence costituisce una necessità sociale, il metodo utilizzato dall’intelligence può essere funzionale a fronteggiare l’emergenza educativa?
Assolutamente sì. È una componente fondamentale dal momento che la disinformazione è l’emergenza educativa e democratica di questo tempo. Per cui lo studio dell’intelligence andrebbe affiancato al leggere, scrivere, e far di conto, cioè alle competenze di base. Orientarsi nella realtà è il presupposto per capire il mondo e l’intelligence ci aiuta ad individuare le informazioni rilevanti, ad unire i punti che sembrano dispersi, a contestualizzare le informazioni – in quanto un singolo dato, se non è inserito in una dimensione, non serve a nulla – e cogliere i segnali deboli perché i segnali forti li vedono tutti e spesso portano da un’altra parte.