Intervista

«L’Italia è il ponte naturale con l’Africa, ma le classi dirigenti del nord stentano a capirlo». L'autonomia differenziata secondo il Prof. Adriano Giannola

«Nel 2018 l’ex rettore della Bocconi [Guido Tabellini, ndr] in un articolo apparso sul Foglio affermava: “Occorre capire che bisogna far correre Milano anche a costo di rallentare Napoli”. Questa è ancora la soluzione che serpeggia sotto traccia e che non è stata ancora sconfessata.»
«L’Italia è il ponte naturale con l’Africa, ma le classi dirigenti del nord stentano a capirlo». L'autonomia differenziata secondo il Prof. Adriano Giannola
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La particolarità dell’Italia è costituita dalla sua ubicazione geografica che la rende un “bene posizionale” la cui valorizzazione passa dal potenziamento della parte meridionale, utile a proiettare il Paese e l’intera Europa verso i nuovi mercati orientali e africani, attraverso l’armonizzazione e l’integrazione delle infrastrutture di trasporto, il potenziamento dei retroporti e i collegamenti con le aree interne oggi afflitte da spopolamento e crisi demografica. Il rischio che si corre con la “legge Calderoli”, che dà attuazione al riformato Titolo V della Carta costituzionale, è di fare imboccare al Paese una direzione completamente differente, con effetti significativi sull’intero comparto logistico che sconterebbe le inefficienze di quello meridionale incapace di esprimere le proprie potenzialità, in uno scenario internazionale in cui i rinnovati processi di globalizzazione e il nearshoring conferiscono ulteriore valore all’area del Mediterraneo. Un Mezzogiorno debole e un sistema logistico frazionato e disarticolato comprometterebbero, infatti, l’intero sistema Paese che dipende dal mare per buona parte delle sue importazioni ed esportazioni. Per comprendere l’essenza della riforma Calderoli e l’impatto che ne potrebbe derivare sul Paese, abbiamo intervistato il Prof. Adriano Giannola Presidente della SVIMEZ.

-Lo scorso 16 giugno è stato approvato il disegno di legge “Calderoli”. Potrebbe illustrarci il suo pensiero sul provvedimento?

Nel 1947 i padri costituenti discussero a lungo e inserirono in Costituzione il Mezzogiorno per dare un segnale di consapevolezza verso una delle priorità fondamentali che avrebbe dato senso alla Repubblica: l’unificazione economica, oltre che giuridica, del Paese. Successivamente, con la riforma del Titolo V, venne inserita in Costituzione l’autonomia differenziata non come obbligo, bensì come opportunità che si può concedere.

Il disegno di legge Calderoli è stato interpretato in tutti i modi tranne che, a mio avviso, in quello più opportuno. Ritengo, infatti, si tratti di un’abile messa in scena per eludere quanto previsto dalla Costituzione per la realizzazione della famosa autonomia differenziata. Infatti, leggendo l’art. 116 comma 3 nella parte conclusiva troviamo che “l’autonomia differenziata si deve fare in armonia con l’attuazione dell’art.119.” Sitratta del famoso art.119, da cui è stato tolto il Mezzogiorno dei padri costituenti ed inserito un sistema di fondi perequativi senza vincoli di destinazione a favore delle realtà fiscalmente più deboli, in modo da garantire i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) di cui all’art.117 comma 2, vale a dire le garanzie fondamentali dei diritti civili e sociali di cittadinanza: salute, istruzione e mobilità. Sostanzialmente, l’art.119 è quello che fa riferimento a un federalismo di carattere cooperativo, dove ognuno ha gli stessi obblighi e gli stessi diritti. Calderoli, sapendo perfettamente che i famosi LEP, così come i fabbisogni essenziali di finanziamento e i costi standard, non sono mai stati definiti e che la definizione avrebbe posto delle problematiche – trovandoci oggi di fronte all’evidenza di livelli di prestazioni fortemente disomogenei a sfavore delle regioni a minore capacità fiscale – ha adoperato un marchingegno che ha distolto l’attenzione dal vero cuore della riforma, che è passato del tutto in osservato alla grande stampa e alla grande comunicazione di massa.

-E qual è il vero cuore di questa legge?

Il vero cuore di questa riforma è l’art.4 il cui comma 1 prevede che per tutte le materie per le quali bisogna fissare i LEP (art. 117 comma 2) non si può procedere a chiedere e contrattare un aumento di autonomia e, quindi, un’autonomia differenziata. Questo significa, intanto, che per altri due anni, finché i LEP non verranno fissati, se mai verranno definiti, prevarrà la spesa storica, quindi la disuguaglianza. Mentre il comma 2 dell’art.4 prevede che per tutte le materie che non hanno bisogno dei LEP si può procedere immediatamente alla stipula delle intese con le risorse vigenti alla legislazione attuale e, quindi, con la spesa storica.

-Sostanzialmente, mi sembra di capire che tutta la legge si metta in moto per le materie non LEP. Il resto rimane bloccato alla spesa storica. E’ così?

Esattamente. Infatti, queste materie non LEP vengono trasferite con le intese e si rifanno comunque alla spesa storica, divenendo estremamente penalizzanti per il sud. Inoltre, tutto ciò risulta completamente disarmonico rispetto all’art. 119 presente in Costituzione che prevede i fondi perequativi e che ha una sua legge di attuazione, la legge 42 del 2009 firmata dallo stesso Calderoli, che in maniera molto equilibrata si prefigge lo scopo di eliminare la spesa storica. Purtroppo, la politica italiana è stata incapace nel corso di questi anni di attuare questa legge e oggi ne abbiamo un’altra addirittura contraria e stiamo dando seguito ad un’opportunità prevista dalla Costituzione – che, pur se non condivido, non posso negare – nel modo più becero e contrario che possiamo fare, ovvero congelando la spesa storica.

-Come avvengono le intese?

Le intese sono come accordi tra Stati. Una volta firmate dal Presidente del Consiglio e dal Presidente della Regione, e approvate dal Parlamento a maggioranza assoluta degli aventi diritto sono immodificabili e irreversibili. La spesa storica, pertanto, rimane garantita fino all’eternità su quei privilegi che il nord ha in merito a tutte quelle materie, quali ad es. le infrastrutture, su cui la Regione diventa sovrana.

-E, quindi, come si coniuga questa legge con l’eventuale riforma sul Premierato?

Ecco, qui subentra la grande contraddizione perché lo Stato centrale attraverso queste intese si spoglia della sovranità su questioni di grande rilevanza strategica quali la protezione civile, le strade, le autostrade i porti e le altre infrastrutture di trasporto. Sostanzialmente, il paradosso è che lo Stato viene spogliato della sovranità in un periodo storico in cui il Governo intende introdurre il Premierato.

-E quali potrebbero essere le reazioni del sud?

Reagirà da neoborbonico con il rischio di disgregazione per il Paese, accentuato dal fatto che a quel punto è probabile che l’Unione Europea focalizzerà le proprie attenzioni più su Milano che su Napoli.

MI faccia aggiungere un’altra cosa….

-Prego…

Questa è la tappa di un disegno che affonda le radici nel 2001 con il progetto del “grande nord”, attraverso il quale il centrosinistra di allora provava a catturare la Lega, i mitici distretti industriali e i padroncini. Trova supporto nel comma 8 dell’articolo 117 che prevede che le Regioni, con legge regionale, possono introdurre istituzioni comuni – un parlamento – per gestire interessi comuni e cioè la sovranità che hanno ricevuto. Questo, purtroppo, potrebbe portare un domani ad un ulteriore passo, previsto appunto dalla Costituzione, ovvero la riunificazione delle Regioni del nord, finalizzata a fronteggiare la grande crisi che le attanaglia. Una crisi dalla quale Calderoli prova a venir fuori attraverso questo disegno di legge che assicura la spesa storica. Il tutto mentre l’Europa ci concede 200 miliardi di PNRR per sanare la questione della coesione sociale e per fare dell’Italia un’avanguardia dell’Europa nel Mediterraneo.

-Quali potrebbero essere le conseguenze per il Paese?

La conseguenza sarà una paralisi italiana in un momento in cui il PNRR dovrebbe risvegliare il Paese concedendo una prospettiva di sviluppo dopo il 2026. Ma, per garantire questo sviluppo purtroppo non basta fare quella che io definisco “la manutenzione di lusso” del sistema Italia, ma occorre un chiaro disegno sul Paese, individuando le sue debolezze e riconoscendo che al momento il sud è l’unica prospettiva su cui fissare i paletti fondamentali per far riprendere all’Italia il ruolo che gli spetta all’interno di tutta l’Unione Europea, con particolare riguardo alla prospettiva euro-mediterranea e africana. L’Italia è il ponte naturale con l’Africa, ma le classi dirigenti del nord stentano a capirlo al punto che nel 2018 l’ex rettore della Bocconi [Guido Tabellini, ndr] in un articolo apparso sul Foglio affermava: “Occorre capire che bisogna far correre Milano anche a costo di rallentare Napoli”. Questa è ancora la soluzione che serpeggia sotto traccia e che non è stata ancora sconfessata.

-Quali altri aspetti critici la legge potrebbero produrre?

Si pensi alla previdenza complementare, quando intende dare spazi di flessibilità contrattuale in ambito scolastico e nella sanità. In particolare, per quando riguarda la sanità, le Regioni che carenti di medici, ma dotate di risorse, potrebbero prevedere condizioni contrattuali più favorevoli e in grado di attrarre i medici che ad oggi operano nelle regioni meno ricche con la conseguenza di accentuare ulteriormente l’immigrazione sanitaria. Si pensi anche agli incentivi finanziari per attrarre imprese. Sostanzialmente, così operando, si innescherebbe un processo di competizione con le politiche di coesione europee portate avanti fino a ora, che marginalizzerebbe ulteriormente il meridione le cui Regioni sono già relegate tra le ultime sette d’Europa.

Si rischia, dunque, di entrare in una nuova spirale dettata principalmente dalla condizione di attuale debolezza in cui versa il nord che sta cercando di attuare strategie difensive e, nel far ciò, attacca in maniera del tutto involontaria la parte meridionale del Paese, percepita come una palla al piede, un territorio che assorbe risorse e le utilizza in modo inefficace. La situazione è, tuttavia, ben diversa in quanto il sud semplicemente non ha risorse e quelle che ha sono solo spesa corrente e molto clientelare.

Se il PNRR fosse stato utilizzato per realizzare e ammodernare le infrastrutture di trasporto, con una visione organica e ben precisa, avremmo dato un’opportunità di crescita al sud, che sarebbe stata anche più veloce di quella del nord e ciò grazie alla spesa in conto capitale che è quella con il più alto moltiplicatore che, se bene impiegata, può di certo cambiare la struttura del Paese.

A tal riguardo, basti pensare il ruolo che avrebbero potuto giocare gli otto porti del meridione (Taranto, Bari, Brindisi, Napoli, Salerno, Gioia Tauro, Augusta, Palermo) se fossero stati interconnessi e inseriti in un efficiente sistema intermodale, dotato di relative zone economiche speciali nei retroporti e il collegamento stabile con la Sicilia. Avremmo, senz’altro, realizzato la Rotterdam europea del Mediterraneo, nonché fatto del Mediterraneo l’Hub logistico della nuova globalizzazione, polo di grandi traffici tra Europa, Africa, Medio Oriente e Oriente. Noi, infatti siamo un bene posizionale, in quanto non ci sono altri competitor che godono della nostra medesima posizione geografica e, in particolare, quella che contraddistingue i porti del Mezzogiorno. Fattore che ci offrirebbe anche maggiore potere contrattuale. Tuttavia, per renderli efficienti è indispensabile una logistica di valore che integri il sud con il nord e con l’Europa.

-Ma la zona economica speciale unica per il Mezzogiorno potrebbe costituire un primo tassello per un simile processo?

Purtroppo no, perché priva di visione strategica. La zona economica speciale unica depotenzia gli otto porti. E’ un concetto del tutto differente, in quanto, le zone economiche speciali legate ai porti sono caratterizzate dai privilegi fiscali doganali e, dubito, che la zona economica speciale unica li possa garantire. Non credo possano dare a tutto il meridione l’esenzione doganale in quanto “non è l’Irlanda”, ma fa parte di un sistema Paese.

-In un mondo caratterizzato dal controllo e dall’armonizzazione delle reti infrastrutturali, utilizzate anche come leva di potenza, a quali rischi vengono esposte le nostre infrastrutture oltre a quello di ulteriore disarticolazione? E quali potrebbero essere gli effetti sullo sviluppo italiano ed europeo se, appunto, consideriamo l’Italia come cuspide verso la parte sud orientale del globo?

Lo sviluppo e la tenuta del sistema infrastrutturale è fondamentale, pertanto mi auguro che nelle intese, per quanto riguarda strade, autostrade, porti e retroporti, possa prevalere il senso di responsabilità e l’interesse nazionale. Ovviamente, tutto ciò rende ancora più complicata la gestione delle infrastrutture strategiche.

I rischi che intravedo potrebbero essere posti dalla finanza internazionale per mezzo dei fondi speculativi, che agiscono in modo spietato e che sono alla ricerca di infrastrutture strategiche su cui investire. Basti pensare al fondo KKR, a cui è stata ceduta la nostra rete delle telecomunicazioni, considerato poco affidabile in quanto ha già fatto fallire molte aziende negli Stati Uniti abbandonandole al proprio destino.

Vi è da dire, tuttavia, che vi sono fondi più sicuri, per loro natura non speculativi ma orientati a promuovere progetti da gestire, che sarebbero anche pronti a venire ad investire in Italia, ed in particolare al meridione, per via del suo enorme appeal chiedendo come contropartita un efficientemento infrastrutturale e il collegamento stabile dello stretto di Messina.

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