OGGETTO: I nuovi populisti. La lettura di Marcello Veneziani
DATA: 07 Marzo 2021
Marcello Veneziani, una delle grandi voci della cultura contemporanea, ci offre un’analisi di taglio culturale e filosofico sulla genesi, l’essenza e il propagarsi del “Momento Populista”. L’intervista, rilasciata nel novembre 2017, viene qui riproposta in forma aggiornata alla luce dei nuovi assetti politici, sociali ed economici.
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In Europa e Stati Uniti si sta assistendo ad una crescita esponenziale del populismo. Quali sono, a suo avviso, le radici culturali in cui attecchisce tale fenomeno?

Il populismo è un’onda che sorge dalla realtà e dal disagio più che dalla teoria e dall’ideologia, e s’ingrossa strada facendo come un magma, un flusso polimorfo. È una ribellione all’establishment politico, culturale ed economico, al dominio del politically correct, ai danni prodotti dall’egemonia delle oligarchie finanziarie all’economia reale dei popoli e alla vita singola delle persone e delle famiglie. Ma ciò non significa che sia un fenomeno puramente irrazionale, barbarico, incolto, un basic instinct che fa riemergere uno spirito primitivo. Ci sono radici culturali vicine e lontane. Negli Stati Uniti, prima del fenomeno Trump ci furono letture culturali e sociologiche come quelle di Cristopher Laschsulla ribellione alle élite o di Paul Piccone e di alcune fondazioni che elaborarono studi e formarono intelligenze. Ma c’è una linea nell’America profonda che si riannoda alla tradizione, allo spirito delle origini, alla difesa della religione, dell’amor patrio, della famiglia e sfocia nella risposta populista. In quell’alveo profondo si riconosce il filo conduttore culturale meno caduco del populismo, che annoda alla radice i vari populismi. In Europa il populismo si carica delle esperienze culturali nazionaliste del passato, fino a lambire il fascismo. Ma il fenomeno populista si diffonde in ambiti molto diversi: il suo carattere nazional-populista poi si ritrova a fare i conti da un lato con movimenti radicali come quello di Tzipras, degli Indignados e da noi il Movimento 5Stelle e dall’altro col populismo evangelico di Papa Bergoglio.

Da molti autori lItalia è definita laboratorio del Populismo”. Quali sono le caratteristiche sociali e culturali che ne hanno favorito lo sviluppo? 

L’Italia è stata un grande laboratorio del populismo sia che si consideri la sua storia del Novecento e in particolare l’esperienza del fascismo, ulteriore al socialismo e al liberalismo; sia che si consideri la fine del Novecento e l’esperienza berlusconiana, sulle ali della Lega e della destra nazionale. Per restare al nostro tempo, Berlusconi che oggi si presenta come l’argine ai populismi, è stato il primo populista europeo andato al governo per volontà popolare. La matrice antica dei populismi è cattolica, e si riassume nell’antico detto vox populi vox dei; il populismo ne è la versione secolare. L’idea che il popolo sia depositario di una verità che affonda nel sentire comune precede ogni teoria democratica sulla sovranità popolare e nazionale. A questa impronta si unisce un tratto spiccato dei popoli latini, mediterranei e degli italiani in particolare: quella tendenza alla ribellione, all’insorgenza, unita al desiderio di autorità, di un principe paterno e provvidenziale che possa decidere per tutti. Cola di Rienzo ne è in qualche modo il paradigma classico. Secoli di dominazioni hanno alimentato questa doppiezza tra ribellione e sottomissione; l’esperienza dei comuni ha composto questo fermento in un’organizzazione civica. E una letteratura vasta, che delineò Asor Rosa nel libro Scrittori e Popolo, ha dato dignità di pensiero e di mito a questa tendenza. 

Che relazione sussiste tra populismo e post modernità

Il populismo sorge sul collasso della modernità ma ne coglie le eredità, perché è effetto e risposta al tempo stesso all’individualismo di massa, tipico frutto della modernità. Il populismo sorge però sulle rovine delle ideologie della modernità – il liberalismo, il progressismo, il socialismo – e sui suoi agenti, come il partito, la casta intellettuale, l’apparato burocratico, la tecnocrazia. Ma non solo: il populismo sorge sulla disintegrazione sociale, l’imborghesimento dei ceti proletari e la proletarizzazione della borghesia, la perdita di status della piccola borghesia schiacciata tra le élites e i nuovi poveri (in primis i migranti, che hanno un ruolo essenziale per il coagularsi del fenomeno populista). Nel populismo si perdono gli argini che distinguevano la classe operaia, la classe intellettuale, i ceti medi; c’è una riduzione indistinta a quell’individualismo di massa che è poi il lascito sociale della modernità. Si può in questo senso parlare della postmodernità come del suo bacino anche se il tempo del populismo – come ho cercato di spiegare nel mio recente libro Tramonti. Un mondo finisce e un altro non inizia (Giubilei Regnani, 2017) – è l’epoca dell’odiernità, in cui cioè la dimensione temporale si è ridotta al momentaneo, al presente. E la vertigine e l’angoscia di questa riduzione della contemporaneità a estemporaneità, questa precarizzazione universale che rende tutto labile, effimero, alimenta il rifugio nel ventre caldo e corale del populismo.

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Che relazione intercorre tra il populismo e quella che lei ha definito, in uno dei suoi libri più fortunati, “La rivoluzione conservatrice in Italia?

A voler semplificare, potremmo dire che la rivoluzione conservatrice sia il populismo nella sua consapevolezza più alta, il populismo che assume coscienza storica e civile di sé e si accorge che per attraversare la linea della modernità occorre saper portare a sintesi la tradizione e l’innovazione. La rivoluzione conservatrice di cui scrivevo io trent’anni fa era il frutto di quel che allora definì come l’ideologia italiana, ovvero un tratto specifico della cultura italiana che ripensa lo spiritualismo politico, l’eredità cattolica e la volontà di nazione nell’epoca delle masse e degli individualismi. La rivoluzione conservatrice è un populismo che assume coscienza comunitaria, riconosce radici al suo lievito, e si riconduce a una visione e a una cultura. E ripensa al punto debole del populismo: l’abisso che si apre tra il capo carismatico o provvidenziale e il popolo. Un vuoto da colmare. Per farsi proposta culturale, politica e sociale, l’onda populista ha bisogno di riconoscere un’élite di riferimento, un’aristocrazia che diventi classe dirigente e che guidi la rivoluzione conservatrice. Altrimenti sfocia nella demagogia inconcludente, e perde i suoi tratti smaglianti che l’avevano caratterizzata quando era movimento d’opposizione per farsi al governo una mediocre pratica del compromesso di basso profilo, appena condita da esibizioni tribunizie. Sono questi i pericoli preminenti del populismo odierno, più che una involuzione autoritaria o addirittura dittatoriale.

D) Quali le differenze tra il populismo di Berlusconi, Grillo e Salvini, assunti a casi di studio dai cultori del fenomeno? 

Il populismo berlusconiano ha due ambiti originari di riferimento: lo sport e la tv, il suo popolo è il pubblico, la sua politica è la continuazione dello spettacolo in altri modi, il suo plebiscito è l’audience, il suo governo è la squadra che scende in campo. Ma per farsi politico, il populismo berlusconiano accede al linguaggio, ai riti e ai simboli del populismo seppure in questa dimensione. Egli stesso si presenta attraverso un racconto confidenziale a lieto fine, come la gigantografia dell’italiano comune e il seduttore del popolo. Grillo cavalca invece la scontentezza, non c’è ottimismo ma rivolta contro la catastrofe; il suo canale espressivo parte anch’esso dalla tv, da cui sorge la sua notorietà e il suo primo seguito, ma cresce con la rete, con il popolo di Internet, con qualcosa che sta a metà strada tra i social e Scientology. Perché poi il populismo grillino, al di là delle declamazioni rousseauiane, è diretto da un ristretto gruppo, procede per campioni minuscoli elevati al rango di volontà popolare. È un populismo non solo antipolitico ma anche antistorico, nel senso che rifiuta ogni eredità, afferma la sua estraneità rispetto a ogni tradizione e presenta il suo punto di forza in una specie di purezza incontaminata.

E Salvini?

Il populismo di Salvini è invece quello che aspira a darsi una storia: partito dalla mitizzazione di un’entità favolosa come la Padania, si è poi allargato a una dimensione di populismo nazionale, fondato sulla sovranità e sul conflitto d’interessi e valori tra i popoli e le oligarchie transnazionali, tra vita reale dei popoli e l’assetto contabile degli Stati, tra la gente e lorsignori. Riprende per certi versi alcune tematiche che furono della sinistra di un tempo, quelli del basso contro quelli che stanno in alto, e li coniuga a temi che furono del nazionalismo di destra, noi contro loro, prima gli italiani, poi gli stranieri. Sono tre populismi diversi, difficili da far convivere: il primo è più duttile e pragmatico, il secondo è più integralista e salvifico, il terzo più identitario e “territoriale”. C’è poi un quarto semi-populismo, quello della destra nazionale e sociale, che oggi si esprime soprattutto con la Meloni, e deriva dalla tradizione nazional-populista del novecento. Ai populismi manca una visione culturale in grado di trasformare il conato populista in movimento comunitario.

2021

Londata populista che ha animato la scena politica degli ultimi anni è entrata in una fase di riflusso. Quanto ha inciso la “carenza di visione culturale” e di formazione politica dei suoi rappresentanti nel determinarne larretramento? 

Si tratta di un’incidenza indiretta ma profonda. Il populismo ha avuto la prima grande battuta d’arresto all’indomani delle votazioni per il Parlamento europeo quando i populisti pensavano di dare la spallata all’establishment. E invece non è successo: già subito dopo i populisti del M5S votavano con il centrosinistra per Ursula von der Leyen, e i sovranisti si spargevano in tre gruppi; Orban restava con i popolari, Lega e Front National erano in un gruppo, Fratelli d’Italia con i conservatori. Poi c’è stata la tormentata estromissione di Trump dalla Casa Bianca; e nel mezzo la pandemia che non ha giovato ai movimenti populisti ed ha stretto le popolazioni intorno ai governi in carica. Ma il problema vero dei populisti è che cavalcano emozioni e battaglie occasionali e si affidano a leadership tribunizie, senza una visione e una strategia da statisti, senza un tentativo di formare e selezionare una classe dirigente. 

A fronte dei nuovi scenari politici, economici e sociali prodotti dalla pandemia Covid – 19, che direzione potrebbe assumere il fenomeno? 

Se ci riferiamo alla situazione italiana mi pare che il populismo allo stato attuale sia in pausa, se non in ritirata, tra i Cinque stelle che sbandano, si alleano con tutti, e in particolare col partito dell’establishment, il Pd; arrivano a definirsi atlantisti ed europeisti, moderati e liberali; e i leghisti che entrano nel governo Draghi e mettono in sonno l’istanza sovranista, separandosi dai sovranisti di Fratelli d’Italia che sono andati all’opposizione. Ma in tutta Europa non sembra un momento favorevole per i populisti. Non dimentichiamo che oltre i populisti citati, più strettamente politici, c’è anche un populismo verde (ascendente Greta), un populismo dell’accoglienza  (ascendente Carola) e un populismo catto-umanitario (ascendente Papa Francesco), che godono invece di sostegno mediatico-istituzionale.

A parere di autorevoli studiosi la pandemia ha accelerato alcuni processi già in atto. Tra questi lavvento del 5g il cui impatto potrebbe essere ancor più dirompente di quello della rivoluzione industriale. Qual è il nuovo paradigma che si sta affacciando e cosa potrebbe generare?  

Credo che l’inquietudine maggiore – comprensiva del 5G ma più vastamente del controllo dei social e soprattutto della priorità sanitaria – sia il regime di sorveglianza che si va configurando su vari piani e che segna il convergere di tre inquietudini: la forza di potenze transnazionali (industria farmaceutica, colossi del web, finanza internazionale), l’ascesa sulla scena mondiale del ruolo e dell’incidenza del regime tecno-comunista cinese e l’influenza ideologica di quella egemonia culturale fondata sul politically correct, la Cancel culture e i “diritti civili”. E resta sullo sfondol’arrivo del nuovo proletariato di riserva, con i flussi migratori.  

A livello nazionale da dove dovremmo ripartire, e quali azioni occorre mettere in campo, per la realizzazione di una nuova classe dirigente capace di fronteggiare le sfide future che ad oggi appaiono sempre più ardue? 

Si dovrebbe ripartire dalla formazione e dalla selezione di una classe politica adeguata, il collegamento tra forze nazionali e inter-nazionali affini, la capacità di pensare la politica oltre che farla, e dunque dotarsi di una linea culturale e strategica. E si dovrebbe cercare, a livello europeo, di configurare un sovranismo europeo, capace di fronteggiare con forze adeguate gli assetti globali e le potenze egemoni (Cina, Usa, tecno-finanza, flussi migratori, commercio estero, aree di crisi) e proporre una politica estera, strategica e militare europea. Insomma un sovranismo che si pone in confronto col mondo, lasciando il più possibile sovrani gli stati nazionali al loro interno. Una confederazione di patrie. Ma a guardarsi intorno, è pura teoria, pensiero alto ma privo di terreno reale…


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