OGGETTO: La lunga agonia del fatto
DATA: 08 Maggio 2025
SEZIONE: Media
FORMATO: Analisi
In un mondo dove anche la verifica è sospetta, la verità non si cerca: si schiera. La realtà smette di essere terreno comune e diventa trofeo conteso, modellata da chi la grida più forte. I fatti, un tempo fondamento della convivenza, oggi si frantumano in bolle autoreferenziali. Non resta che chiedersi: non chi ha ragione, ma chi riesce ancora a far sembrare giusta la propria versione.
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È ancora il tempo delle domande retoriche: chi ha davvero iniziato la guerra in Ucraina? DOGE è destinato a salvare il bilancio federale americano? I rivoltosi del 6 gennaio erano patrioti o traditori? Il clima della seconda presidenza Trump è sempre più ostile a risposte definitive, ogni fatto si dissolve nel campo di battaglia della propaganda. E non è solo questione di politica o informazione: i fatti, come li conoscevamo, sono diventati materia intangibile, plasmata dai desideri di chi li evoca.

Se ci ritroviamo a chiedere cosa sia un fatto, è perché il concetto stesso, che oggi consideriamo naturale, è in realtà una costruzione fragile, un’invenzione recente della cultura mediatica contemporanea. Prima dell’età moderna, la parola “fatto” indicava poco più di un aneddoto, qualcosa di troppo incerto per ambire al rango della verità. La trasformazione, da superstizione a pilastro della conoscenza, fu lunga e accidentata. E oggi, paradossalmente, quel pilastro si sbriciola di nuovo. Non per colpa di ignoranti, analfabeti o ciarlatani, ma per un problema interno alla stessa idea di verità oggettiva. Un osservatore attento ricorderà la disputa sull’inaugurazione di Trump nel 2017, diverse emittenti mediatiche si erano premurate con dovizia di dimostrare che la partecipazione all’insediamento di Trump fosse una piazza fantasma, nulla a che vedere con le folle oceaniche convogliate da Obama. La Casa Bianca riportava una vulgata opposta a quella dei media, questo episodio nel mondo dell’informazione non può essere derubricato a nota a margine. Kellyanne Conway, consigliera di Trump, rispose alle ‘fattuali’ stime riportate dai media menzionando che i numeri più rassicuranti reclamati dai fedelissimi di Donald Trump non fossero supposizioni ma “alternative facts”. La reazione fu immediata: nacque una nuova era di fact-checking, un intero ecosistema di verificatori di informazioni che sorse come anticorpo all’era della post-verità.

Eppure, il fatto stesso che il fact-checking sia diventato necessario racconta una storia che non può essere trascurata. Perché mai abbiamo improvvisamente bisogno di schiere di arbitri della verità? Se i fatti avessero davvero una solidità intrinseca, non ci sarebbe bisogno di erigerne difese tanto elaborate. Il problema è che la loro oggettività è sempre stata un’ambizione, non una certezza. Non è un’eresia da postmoderni, è un problema ampiamente affrontato e discusso dagli storici della Scienza. La saggistica contemporanea ha demolito il mito della Scienza come marcia trionfale verso la verità assoluta. I primi esperimenti scientifici erano pura performance politica, lontani dall’essere conquiste neutre della ragione, ma piuttosto cerimonie sociali, costruite per generare consenso tra élite istruite. La verità sperimentale è stata fin dall’inizio una verità di gruppo, in laboratorio si creava uno spettacolo credibile abbastanza da essere creduto a distanza, da chi non aveva mai visto nulla con i propri occhi. Nel Seicento, come oggi, l’esistenza di una verità condivisa dipendeva dalla fiducia nelle istituzioni che la proclamavano.

Ma cosa succede quando quella fiducia svanisce? Non resta che la forza bruta del consenso, la verità non è più ciò che resiste al tempo o alla verifica ma è quella nozione che è in grado di riprodursi e diffondersi capillarmente con maggior efficacia di altre. In un certo senso, Trump è stato solo un acceleratore: ha intuito, prima di molti intellettuali, che i fatti erano diventati questione di diffusione, non di epistemologia. Nel pieno della Guerra Fredda, Butterfield descrisse il mondo moderno come afflitto da “giganteschi sistemi organizzati di auto-giustificazione”, ciascuno dei quali si rafforza accusando l’altro di malvagità. La scienza stessa, nella quale alcuni settori della politica hanno cercato rifugio come fondamento della verità pubblica, è diventata solo un altro campo di contesa. Chi sostiene la vaccinazione di massa e chi la contesta, usano entrambi lo stesso mantra: “informatevi”. La differenza sta solo nelle fonti a cui ciascuno decide di credere. Non esiste più un arbitro comune.

La democrazia, concepita per essere il regno del libero confronto delle idee, è oggi paralizzata dalla mancanza di un terreno condiviso su cui quel confronto possa avvenire. Come può funzionare una discussione pubblica se non si riesce neppure a concordare su cosa sia reale? La logica si contorce su sé stessa: difendiamo i fatti appellandoci alla democrazia, ma la democrazia stessa presupponeva, come condizione di possibilità, un certo tipo di fatti. Il vecchio sogno illuminista – che la ragione, la scienza e il libero dibattito avrebbero lentamente costruito un mondo più giusto – si infrange contro l’ironia che i fatti stessi sono prodotti storici, sociali, certamente contingenti. Ogni verità che nasce in uno spazio chiuso, tra specialisti separati dalla vita quotidiana, rischia di diventare potere travestito da conoscenza. Non sorprende che i populismi, di destra e di sinistra, vedano nei “tecnocrati” una minaccia più grave di qualunque ideologia rivale. Tutto questo non significa che la verità non esista. Significa che la nostra idea moderna di fatto – come qualcosa di assoluto, neutro e ipoteticamente incontrovertibile – era fin dall’inizio un racconto edificante. Un racconto utile, certo, ma non più credibile.

L’industria del fact-checking, nata come antidoto alla post-verità, ha finito per diventarne complice involontaria. Ha creato l’illusione che esistesse un tribunale neutrale della verità, alimentando così la diffidenza quando l’inevitabile partigianeria è emersa dalle crepe di questa costruzione. Le persone hanno imparato a vedere i fact-checker come una fazione tra le altre, non come gli eredi di una tradizione illuminista al di sopra delle parti. Si è verificato così un cortocircuito: più si è tentato di difendere l’autorità del fatto, più questa autorità si è erosa. L’epoca attuale è caratterizzata non tanto da una crisi dei fatti, quanto da una sovrapproduzione di essi. Un eccesso che rende possibile sostenere praticamente qualsiasi posizione, costruendo catene argomentative apparentemente solide a partire da dati selezionati ad hoc. È l’era della saturazione informativa, dell’infodemia.

Roma, Aprile 2025. XXVI Martedì di Dissipatio

Quella lunga stagione in cui la politica ha cercato rifugio nel fatto – come in una comoda alcova dove sdraiarsi per evitare il confronto diretto – sta lentamente scivolando verso il suo epilogo. È stata l’illusione che vi fossero prassi oggettivamente più fondate di altre, soluzioni che potessero rivendicare una superiorità intrinseca in virtù della loro scientificità. Ora che il fascino del fatto come verità ultima si è logorato, con il termine “verificabile” che sopravvive nella satira mirata ad una specifica area politica più che ad un metodo super partes, non resta che affrontare ciò che per un decennio si è voluto esorcizzare: la domanda morale. Si dovrebbe ritornare a discutere non di cosa sia verificato ma semplicemente di cosa sia giusto o sbagliato. E qui il paradosso: l’ossessione per la verifica, per il debunking perpetuo, non ha risolto nulla. Non ha placato l’anarchia informativa, non ha ricomposto alcuna frattura. Ne ha create di nuove, le ha irrigidite e rese ontologiche. In fondo, la superstizione che la verifica possa risolvere il disaccordo morale rimane una superstizione. La ricerca dei fatti – o dei cosiddetti fatti alternativi – non è mai stata, in realtà, un tentativo sincero di costruirsi un’opinione informata. Al contrario, è servita perlopiù a rafforzare convinzioni preesistenti, a fornire appigli narrativi che dessero solidità a ciò che si voleva già credere. I fatti, in questo senso, non sono mai stati neutrali. Forse, la soluzione non sta nel moltiplicare le verifiche, ma nel riconoscere onestamente che il disaccordo contemporaneo non è principalmente fattuale, bensì valoriale. Le battaglie sulla verificabilità dei fatti mascherano spesso conflitti impliciti su priorità morali e visioni del mondo inconciliabili celate da un gioco di dissimulazione epistemica. Ma quel gioco sembra essere giunto al capolinea. Non giocano più nemmeno gli arbitri. Anche loro, in fondo, si sono seduti in panchina, o hanno iniziato a tifare.

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