Un’analisi sull’Iran non può non seguire lo scorrere velocissimo dei fotogrammi della storia, dati i ruoli interpretati dai vari soggetti politici a partire da Mossadeq, passando per i monarchici, poi per il comunista Tudeh, fino a giungere al velayat e faqih khomeinista. Difficile per la scienza politica dare interpretazioni confacenti ad un sistema teocratico sì legittimato dalla religione ma che, non rientrando nelle accezioni agostiniane del De Civitate Dei, vira verso un pervasivo diritto canonico denegato dall’accademia di estrazione progressista; auspicato da molti, pur senza un violento rovesciamento istituzionale, rimane l’ipotesi di un regime change. Per il momento gli Accordi di Abramo, riavvicinamento diplomatico a Riyadh e contestuale allontanamento dall’Europa conferiscono importanza all’antagonista universo arabo, anche perché l’egemonia regionale di Teheran è ancora intrisa di imperialismo in farsi trasfuso nella Repubblica; teocrazia sì, ma in regime di continuità politica e nazionalista con le stesse precedenti asperità strategiche.
Malgrado le criticità di ordine economico-sociale l’Iran rimane potenza pulsante, cerniera tra le porte di Asia e MO, regione scossa dalla Guerra del Sukkot del 7 ottobre, dove Teheran gestisce reticolarmente il suo franchising attraverso la costellazione di proxy in cui brillano i libanesi di Hezbollah, l’Ansar Allah houthi, le milizie iraqene ispirate dal Grande Ayatollah Al Sistani, le comunità sciite in Arabia Saudita; il tutto volto da un lato ad affievolire gli anti iraniani Accordi di Abramo, dall’altro ad introdursi nel teatro caucasico-azero percepito sia quale passepartout economico anti embargo, sia come escamotage necessario ad evitare l’acuirsi dell’isolamento internazionale favorendo l’export grazie al transito via Erevan verso la Georgia e dunque verso un’Europa cui però si contrappone pervicacemente l’Eurasia. Il corridoio azero di Zangezur dunque non s’ha da fare, al fine di evitare panturanismi a là Erdogan, destinati peraltro a favorire l’arcinemico Israele, strategicamente avvinto a Baku.
Il supporto ad Hamas, diffusamente sostenuto in via prudenziale solo ideologicamente, evidenzia come la narrazione iraniana trascenda la sovrastruttura teologica per coltivare un modello politico ecumenico-islamico che travalica zaidismo houthi e alawismo siriano per rafforzare il crescenteresistenziale sciita; il conflitto gazawi, pur intitolando un successo tattico a Tsahal sagacemente distolto da altri prosceni, potrebbe assegnare a Teheran punti strategici utili alla conquista della partita nucleare – secondo un JCPOA terribilmente ostico per USA e AIEA – ma, al contempo, creare un problema gestionale della querelle del Mar Rosso: secondo un’ambigua politica del doppio forno mentre si cerca un entente cordiale con i sauditi, si sostiene la fazione Houthi anti Riyadh; tutti artifici che non hanno risparmiato dall’attentato di Kerman, memento esistenziale dello stato islamico. L’escalation di Gaza ha già eroso le ipotesi di un avvicinamento irano-statunitense ponendo un ulteriore ostacolo sul percorso atomico; vietato illudersi: il nucleare degli Ayatollah non porterà visioni politiche logiche, ma dogmatismi religiosi irrazionali.
Economia, sanzioni reiterate, embargo, Covid, crisi sociale alimentata dai moti avvenuti a partire dal Movimento Verde del 2009 fino a quelli di Donna Vita Libertà del 2022 scatenati dall’assassinio di Mahsa Amini, conferiscono una fragilità ceramica al sistema iraniano, reso ancor più vulnerabile dall’attesa successione della Guida Suprema, destinata a condizionare tutto lo scacchiere; è lo scontro tra le prime e le più rigide seconde generazioni post rivoluzionarie, prive di qualsiasi esperienza relazionale con l’Occidente, a determinare debolezze multidimensionali. Nel mentre, l’annichilimento di Qasem Soleimani, comandante delle Forze Quds dell’IRGC, ha fatto riavvertire i fremiti provocati dal colpo di stato di Mossadeq del ’53, reiterati dal 2022 dall’altra (intossicata) metà del cielo, premiata con il Nobel alla reclusa Narges Mohammadi, coraggiosamente immune al tentativo di corrompere la sostanzialità di una protesta rimasta purtroppo senza leadership e che affonda le sue radici nel primo khomeinismo, associandosi ad altre eterogenee contestazioni sospinte dalle minoranze, senza dimenticare gli insoluti problemi economici che hanno flagellato vasti strati sociali. La compagine governativa conservatrice non a caso è asservita all’oltranzismo del mondo Sepâh, e la possibilità di ricomporre il quadro politico d’insieme è frammentata su diverse posizioni stigmatizzate da differenti interpretazioni, riflesso delle diverse generazioni che vedono il Paese parte integrante dell’Asia e non del MO. Cosa aspettarsi? Parafrasando Tancredi, se si vuole che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi, con il frenetico mantenimento dello status quo quale unica logica via percorribile. Osservare la società iraniana senza riconoscerne la complessità rende vano tentare di ottenere il sostegno della maggioranza silenziosa.
La dimensione militare e securitaria ha occupato spazio, permettendo ai Pasdaran di inerire politicamente, una dinamica che potrebbe preludere, in discontinuità, ad una transizione verso un regime coagulante le forze conservatrici, a meno che non prevalga il buon senso di una vicendevolmente profittevole diarchia clerico-militare, dove gli imam rimangono comunque sempre più secolarizzati e distanti dalla base sociale.
Attualmente l’IRGC interpreta un ruolo determinante nel sistema politico e capillare in quello economico, malgrado lo stesso Khomeini abbia vanamente tentato di ostacolarne l’influenza; l’ascesa di Mohammad Ali-Jafari quale comandante dei Pasdaran nel 2007, ne ha certificato la dilatazione politica.
È evidente come l’amministrazione Raisi tenti di proporsi globalmente sia grazie alle relazioni sino-russe, generose nell’offrire profondità strategiche vs l’Occidente, sia proiettando iniziative diplomatiche verso paesi non allineati e revisionisti del global South, evidenziando le difficoltà degli USA, risalenti già al tempo dell’invasione iraqena, ed espresse nel proporre pallidi quadri analitici regionali ed anche nel preservare la primazia diplomatica e securitaria presso sauditi ed emiratini, costretti a cercare sostegno politico a Pechino; il decentramento operativo americano, unito all’intento iraniano di testare i limiti della deterrenza di Washington, può aumentare i rischi di escalation, già vividi nell’attrito tra Hezbollah e Israele, chiamato a ristabilire la sua forza dissuasiva e poco propenso ad uno scontro circoscritto.
La pragmatica liaison sino-iraniana, perturbata dai lanci missilistici houthi, si basa sia sul reperimento di fonti energetiche a basso costo, sia sulla distrazione che Teheran esercita su Washington a favore del Dragone, forse così meno minacciato da lacci e lacciuoli americo-taiwanesi e chiamato tuttavia in un prossimo futuro a dover scegliere tra Teheran e Riyadh. Malgrado l’adesione ad organizzazioni che sfidano la primazia occidentale, l’economia è in sofferenza, fiaccata da inflazione e disoccupazione, con il bilancio teocratico che liquefacendo il burro ha scelto i cannoni.
La guerra dunque può tracimare per la proattività di Hezbollah, impegnata in attacchi tit-for-tat; per le puntate offensive contro gli USA in Siria e Iraq; per le instabilità cisgiordane, ma senza coinvolgere le potenze egemoni in insostenibili scontri diretti. Gli attacchi iraniani sulla curda Erbil, su Aleppo, sul nucleare Pakistan, si alimentano degli errori strategici degli americani, estenuati epigoni di egemoni d’altri tempi e tempra, in un melting pot che fonde situazioni interne critiche sia per Teheran che per Islamabad. Mentre Pechino è avvolta su Taiwan e la Russia impantanata nella rasputiza ucraina, Teheran potrebbe trovarsi sola a competere con la US Navy. Il problema è il tempo, estensione dimensionale ora concentrata nei 90 secondi ticchettati dal Doomsday Clock per la mezzanotte nucleare.
Originariamente pubblicato a gennaio 2024