Intervista

"In nome della Costituzione". La lezione di Luciano Barra Caracciolo

Abbiamo parlato con Luciano Barra Caracciolo, già Vice Segretario della Presidenza Del Consiglio e Presidente di Sezione del Consiglio di Stato
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Già Vice Segretario della Presidenza Del Consiglio e Presidente di Sezione del Consiglio di Stato , Luciano Barra Caracciolo nel suo blog Orizzonte48 è solito coniugare l’analisi economica e quella giuridica, concentrandosi sulle incongruenze fra gli interessi ed i valori alla base dell’Unione Europea e quelli italiani.

Unica, insostituibile, inoppugnabile: la Costituzione ed il rispetto di questa diventano spesso il rifugio dietro cui trincerarsi nella dialettica politica, ricorrendo alla sua sacrale intoccabilità?

La domanda è interessante: essa infatti lascia trapelare un senso comune, una opinione diffusa, che, purtroppo, sono dovuti più alla percezione mediatica delle problematiche costituzionali che alla realtà giuridica in cui, diciamo, sopravvive la Carta fondamentale. Una dialettica politica che usi la Costituzione per ostacolare le innumerevoli “riforme”, per di più “strutturali”, che si susseguono nella legislazione degli ultimi anni (e che ora tornano di scottante attualità per la loro eccezionale intensificazione), in effetti non risulta registrabile in modo rilevante.

Diciamo subito che la Costituzione italiana del 1948, – ed è ancora corretto definirla in questi termini poiché i suoi principi fondamentali sono intangibili, cioè non assoggettabili neppure a revisione costituzionale e, in teoria, dovrebbero innervare tutte le sue disposizioni, in quella “armonia complessa” di cui parla Lelio Basso in uno storico intervento in Costituente del 6 marzo 1947, in risposta a Calamandrei (che infatti ne fu persuaso e cambiò la sua opinione) -, è fondata sul principio lavoristico. L’art.1 stesso lo enuncia con una chiarezza che fu il risultato di un lungo dibattito quanto alla sua formulazione.

Questo “fondata sul lavoro” (categoria che gli stessi Costituenti precisarono non essere ristretta al solo lavoro subordinato), nell’ambito dei principi fondamentali, va connesso con l’art.3, comma 2, laddove, come sottolinearono lo stesso Basso (autore della disposizione), Calamandrei e Federico Caffè, enuncia il dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli alla piena partecipazione alla vita democratica del paese per tutti e, ovviamente, anzitutto, per i lavoratori (termine che va naturalmente esteso alle lavoratrici, come oggi, con pleonastica puntigliosità si tende a fare, in tardivo omaggio alla ovvia considerazione che “il lavoro”, come attività che esprime anzitutto la dignità dell’essere umano, è un diritto e un dovere, secondo l’art.4 della Cost., che riguarda ogni persona umana titolare della cittadinanza, “senza distinzioni di sesso”; art.3, comma 1).

Ebbene, posta in questi termini la natura fondamentale della democrazia “sostanziale”, è sociale, in quanto vede enunciati, nella Costituzione, dei diritti attivi del cittadino verso la Repubblica che corrispondono a bisogni considerati indeclinabili e caratterizzanti la stessa vita umana nella sua pienezza esistenziale e assurti, quindi, anche a prerogativa giuridica.

Quindi, per tornare all’interrogativo iniziale, non si vede, nella politica espressa dal legislatore degli ultimi decenni, né una particolare sensibilità né, ancor più, una consapevolezza di questa natura della Costituzione; e la più che altro occasionale e “tattica” difesa della Costituzione, espressa negli ultimi decenni, risalta oggettivamente, semmai, per non essersi mai incentrata sui diritti sociali che sono stati inesorabilmente ridotti nella sostanziale concordia di tutte le forze politiche in nome del “ce lo chiede l’Europa”. Questa cedevolezza da “vincolo esterno”, cioè in nome di trattati Ue, è arrivata, semmai, anche a porre in discussione i tradizionali diritti “negativi” di libertà che, in quelli sociali, sono contenuti poiché i secondi costituiscono il presupposto per rendere effettivamente estesi a “tutti” i primi (cioè le più elementari libertà delle costituzioni liberali ottocentesche, che vari “stati di eccezione”, da quello degli spread a quello sanitario hanno consistentemente limitato).

Ma volendosi cercare un senso storico-fattuale all’uso del testo costituzionale come “resistenza al cambiamento” (politico-sociale, guidato dalla priorità mediatica del paradigma economico decisionista e neo-liberale), vero è, piuttosto, che si è ipotizzato, praticamente in ogni legislatura a partire dal primo governo Craxi, di dover riformare la Costituzione nella sua parte organizzativa; cioè quella relativa al modo di funzionare dei principali organi detentori del potere di indirizzo politico. Ebbene, questa continua ansia riformatrice è essenzialmente giustificata dall’idea della “governabilità”, un concetto estraneo alla Costituzione e che, in realtà, come dimostrò Massimo Severo Giannini, sarebbe un falso problema se si avesse riguardo alla piena attuazione delle norme costituzionali (almeno per come furono intese nei primi 30, massimo 40 anni, di vita della Carta). La riprova è infatti che la governabilità, come neo-supremo bene, eteronomo rispetto al testo costituzionale, è invariabilmente connessa alla rapida e incontestabile attuazione del diritto europeo, che costituirebbe la realizzazione dell’efficienza e del rinnovamento di cui la società italiana avrebbe un incessante bisogno.

Ma di cosa parliamo esattamente quando parliamo di Costituzione italiana? Quali sono i modelli economici e sociali alla sua base?

Questa risposta è particolarmente agevole in quanto ce la fornisce lo stesso Federico Caffè, che, rammentiamo fu consulente dell’Assemblea Costituente all’interno della Commissione economica della Costituente: il modello che risulta, a dire dello stesso Caffè, racchiuso “agli atti”, si ispira al c.d. Rapporto Beveridge e alla lezione keynesiana e kaldoriana dell’economia.

Gli interventi di importanti Costituenti, in commissione e in assemblea plenaria, lo confermano: Ruini (presidente dell’Assemblea dei 75, estensori in prima battuta della sostanza del testo poi approvato), in risposta ad Einaudi, (in costante minoranza nelle votazioni della Costituente), parla di rigetto della “scienza dell’Ottocento” riferendosi ai modelli economici “liberali”, cioè a Marshall e al marginalismo, laddove altri come Fanfani, Ghidini, lo stesso Lucifero (quindi un ampio spettro di partiti non solamente riducibili all’area socialista e comunista) mostrano come l’idea del puro “governo del mercato”, lasciato alla libera determinazione del sistema dei prezzi, viene considerata un retaggio superato.

Quali contingenze storico-culturali portano a scegliere proprio questo modello di economia sociale?

Quando i Costituenti rimarcarono, con una forte convergenza (viene qui da citare, in aggiunta, lo stesso Aldo Moro) che la “scienza dell’Ottocento” costituisse un retaggio superato, avevano un preciso e ancor vivido ricordo degli eventi storici che li avevano coinvolti. Vogliono dunque significare che il modello “liberale”, – economico prima ancora che politico, essendo tale secondo aspetto, quello istituzionale e persino elettorale, una stretta conseguenza del primo e dei rapporti di forza sociali che tendeva a cristallizzare -, è superato dagli eventi: la grande crisi del 1929, i rivolgimenti politici, cosparsi dei traumi del Novecento, che la precedettero e la seguirono, la stessa seconda guerra mondiale. Si tratta quindi di una cornice storica e politica caratterizzata dagli stessi eventi che portarono, almeno in Italia, alla soluzione (gramsciana) dell’Assemblea Costituente, alla ricerca di una soluzione organica e giuridicamente intangibile, del conflitto sociale interno al modello capitalistico.

Questo è il senso “strutturale”, cioè relativo all’essenza dell’organizzazione sociologica e istituzionale del Paese, della menzionata democrazia sociale, intesa come soluzione “necessitata”, secondo le parole di Mortati (il maggior costituzionalista espresso dalla Costituente); quella per cui la democrazia o si manifesta in questa forma, o, appunto, “non è”. Vale la pena di dire che, almeno tendenzialmente, tutte le Costituzioni del c.d. secondo dopoguerra, furono funzionali alla soluzione, al riequilibrio pro-lavoro, del conflitto sociale. E non è un caso che, sia pure con l’imprecisione concettuale semplificatoria dei nuovi appetiti revanscisti del grande capitale finanziario, oggi le “costituzioni antifasciste” siano considerate di ostacolo alla piena realizzazione, o più esattamente “restaurazione” – sia pure mutati i referenti tecnologici a disposizione dei grandi oligopoli mondiali globalizzati -, di quello che lo stesso Popper definisce “il capitalismo sfrenato”.

Oggi possiamo dire che i valori alla base della Carta costituzionale siano propriamente rispettati o perlomeno siano la bussola verso cui tende la politica?

In base a quanto abbiamo finora evidenziato, la risposta non può essere positiva. Le riforme strutturali, così attuali in ogni stagione di solo apparente “cambiamento” politico, sono state e rimangono in effetti la priorità; e queste sono volte alla disciplina del mercato del lavoro, alla sua massima flessibilizzazione (al di là della sostenibilità sociale), alla precarizzazione della posizione del lavoratore e delle retribuzioni, alla visione monetarista, all’ossessivo agitare dello spauracchio dell’inflazione, alla conseguente sterilizzazione e privatizzazione dell’azione dello Stato prevista invece dalla Costituzione.

Reputa che il Diritto europeo e la sua sempre più ampia pervasività in molti dei campi giuridici afferenti alle nostre attività, anche più comuni, sia conforme ai riferimenti su cui è stata elaborata la nostra Costituzione?

Il diritto europeo si proietta e si realizza proprio negli obiettivi appena detti e inscritti nelle riforme strutturali. In altri termini, si basa su “pilastri” che, predicando la mobilità di capitale e lavoro all’interno di un campo territoriale in continua pretesa estensione all’interno del continente, sebbene si parli, non senza una certa vuota retorica, dell’Unione europea come risposta “protettiva” dagli effetti più deteriori della globalizzazione: tale diritto impone, appunto, riforme strutturali che dovrebbero portare, anzitutto, alla stabilità dei prezzi, valore considerato imprescindibile e superiore, senza mediazioni possibili, a quello di una vera piena occupazione (cioè che non sia limitata dalla sua temuta capacità di generare inflazione per via della crescita delle retribuzioni), alla competitività entro lo scenario del Mercato Unico e, per la verità, anche globale.

La varie “sfide” e le grandi “resilienze” che connotano l’incalzante affermarsi legislativo dei modelli fiscali, di regime del lavoro, e di politiche industriali sul lato dell’offerta, propri del diritto europeo, comportano l’instaurazione di economie mercantiliste, cioè in cui la crescita viene univocamente concepita solo come legata alla capacità di esportazione sui mercati “globali”. Questo super-valore, unificante il “governo del mercato” insito nei Trattati, sacrifica consapevolmente sia i diritti di prestazione, cioè i livelli del welfare pubblico (pensioni e sanità soprattutto) sia le politiche di espansione della spesa pubblica anche più elementari (si pensi allo stato delle nostre strade, dei trasporti pubblici, del sistema di raccolta rifiuti o di manutenzione degli spazi verdi pubblici; e non parliamo della proprietà pubblica, ormai residuale, di importanti infrastrutture date in concessione a privati…sempre per usare la logica delle privatizzazioni impostaci dall’adesione all’Unione europea).

Come valuta la situazione attuale? Europa e Costituzione Italiana potranno mai, in futuro, riallinearsi su di un binario comune? In poche parole: considera l’Unione Europea un’istituzione -come molti dicono di auspicare- riformabile?

Ho già più volte affrontato questo argomento, nei miei articoli e nei miei libri: la traiettoria è tale che la “convivenza” è impossibile mentre una effettiva, e non cosmetica, riformabilità dei trattati risulta politicamente impossibile. Per traiettoria intendo un percorso ormai segnato da una forza di inerzia non mutabile: questa è dovuta al concorso di rapporti di forza economici, ormai fondativi di una gerarchia di rilevanza politica tra paesi (rapporti che ci vedono sempre più soccombenti), e alla mancanza di “risorse culturali”, nel complesso istituzionale e formativo dell’opinione pubblica del nostro Paese. Volendo sintetizzare la funzione delle risorse culturali, alludo a quella varietà di visioni del mondo (umano: e quindi antropologiche prima ancora che, come conseguenza, economiche) che, come evidenziò Konrad Lorenz, sono alla base delle possibilità di evoluzione dell’intera umanità e che, già negli anni Sessanta (quando Lorenz espresse il suo giudizio) erano caratterizzata dalla mancanza di alternative.

Il TINA è la cifra delle riforme strutturali, delle “sfide” della globalizzazione e del governo internazionale dei mercati. Cioè di un’oligarchia di super-oligopoli, altamente finanziarizzati, che con le loro decisioni precedono e sovrastano ogni possibile soluzione politica elettoralmente esprimibile all’interno di Stati; questi sono “vincolati” da trattati e, perciò, ormai dediti, in effetti, a perseguire la “governabilità”, la “competitività” e la cessione di sovranità a entità superiori tributarie della qualità incontestabile di essere le “uniche” a poter trovare le soluzioni ai problemi…che, queste stesse entità sovranazionali costruiscono all’interno di un modello senza alternative, e poi amplificano con la forza delle imposizioni normative.

Eppure oggi alcuni provvedimenti, il cosiddetto Recovery Fund in primis, di provenienza comunitaria a detta di molti rappresentano un nuovo indirizzo del progetto europeo. Cosa ne pensa.

Il Recovery Fund, o più esattamente il Next Generation Eu (Ngeu), non si discosta in nulla dai meccanismi istituzionali e dalle linee di trasformazione sociale ed economica sopra evidenziate. Si tratta di un tessuto composto delle stesse fibre, solo, in pratica, ancora più fitto e stringente.

Quel modello di sviluppo liberoscambista e competitivo (tra Stati-comunità, cioè tra i popoli, in un continuo “mors tua vita mea”), – specialmente per paesi come l’Italia che soffre di un drammatico problema di crescita all’interno del “vincolo esterno” della moneta unica -, ha fallito. Ma non si ha nessuna voglia, in Ue, di prenderne atto: si insiste invece nell’idea-chiave che una straightjacket, una sorta di camicia di forza, debba, ad ogni costo, trasformare gli italiani, come se fossero in stato di contenzione per qualche sintomatologia psico-patologica di massa. E se le maglie della precedente “camicia” erano considerate troppo larghe, le condizionalità, plurime e a cascata, nel Ngeu, completeranno la trasformazione. Il messaggio è “Italiani, trasformatevi o perirete…perché siete un popolo irresponsabile e insufficiente, unfit,”; e ciò, appunto, nella visione darwinistica e paternalistica di chi propugna l’accentuazione perenne del vincolo esterno.


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