OGGETTO: Il vuoto dell'identità scomparsa
DATA: 26 Luglio 2023
SEZIONE: Recensioni
FORMATO: Letture
Ne "La scomparsa dell'identità" (Giubilei Regnani Editore) Alain De Benoist indica la via per "orientarsi in un mondo senza valori", in bilico fra universalismo e atomizzazione.
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In Francia, il titolo originale ce la promette: sans fantasmes. Brutalmente al centro della dinamica vivente e del confronto politico. In uno spazio sociale riarticolato, tra nous e les autres. In Italia, al contrario, parrebbe scomparsa. Molto differenti, le rispettive storie coloniali, come l’Atlantico dal Mediterraneo. Pressoché in silenzio, nel mondo senza valori. Eppure, Alain de Benoist osserva entrambi gli aspetti della domanda inevitabile: «Io chi sono?». In mezzo alla rivoluzione e dove, La scomparsa dell’identità (Giubilei Regnani, 2023) inganna ancora.

Del resto, dall’identità nasce problema. Nelle società tradizionali, l’uomo cresce e si pensa, interno al gruppo, per cercare l’eccellenza individuale, nelle forme espresse dal mito comune. Allora, identità profonde, connaturali e pacificamente scontate, non emersero a tema di riflessione. Neppure tra le pagine dei grandi viaggiatori classici, tanto curiosi degli altri popoli.

Soltanto, l’apertura lenta di uno spazio interiore esclusivo, nel rapporto tra ogni fedele e il Dio unico, pose la premessa. Perché, a suo tempo, la Modernità sfilacciasse i legami sociali e liberasse l’individuo d’Occidente. Primo uomo ad avvertire la perdita dell’identità forte e pertanto, a meditare sul tema.

Soprattutto, a partire dal Romanticismo, concezione pienamente individualista e moderna. Secondo la quale, constatata una diversità tra gli uomini, ognuno avrebbe dovuto scoprire se stesso dentro, per realizzarsi fuori. Ricerca paradossale. Perché guardatisi l’anima, i romantici provarono il tedio della vita ordinaria borghese, l’amore per la natura come armonia cosmica, conobbero il Volksgeist e una partecipazione all’umanità, mediata dalle culture particolari. Il che elevò appartenenza culturale e differenza a valori necessari. Ovvero: «Per realizzarmi, devo trovarmi, e per trovarmi devo sapere qual è la mia identità».

Nondimeno, i romantici rimasero ultimi. Lo Stato nazionale continuò da programma, sradicando culture e identità tradizionali, per rendere tutti, cittadini uguali; e aprì lo spazio edificabile per le nuove identità politiche della nazione e della classe, più o meno artificiali ma non poco efficaci, a lavoro e in trincea.

In un certo senso, superati ordini, corporazioni, regioni storiche, lo Stato si arrogò il diritto di produrre l’identità in regime di monopolio. Almeno fino a quando, il liberalismo trovò nella nazione, «un’espressione appropriata della somma delle volontà individuali» (Immanuel Wallerstein). Tanto che l’antropologia liberale ne risultò moderata, per diverso tempo. Fino al compimento odierno, dell’individuo libero perché separato, precedente ai fatti sociali, titolare di diritti indipendenti dal gruppo, capace di autodeterminarsi, lanciato in una vita pubblica di rivendicazioni in battaglia legale. Molto lontano dalla concezione aristotelica dell’uomo animale sociale. Ripresa ancora dalla scuola filosofica comunitarista che osserva la nascita di ogni bambino all’interno di una cultura particolare, definente identità e fini comuni, costitutiva del sé e base di ogni scelta futura. Separazione compresa. 

Comunque, l’importanza del riconoscimento conferma la dimensione sociale dell’uomo. L’identità non è piena, quando gli altri non ce la riconoscono, a livello individuale o collettivo. Il tema oggi è di evidenza. Le democrazie occidentali scontano l’antropologia del liberalismo con difficoltà crescenti a produrre la propria “vecchia” identità nazionale, senza che ciò comporti la scomparsa del fenomeno identitario, quanto la proliferazione di identità religiose, linguistiche, sessuali, etniche, culturali, desiderose di riconoscimento pubblico. Stentando a gestire la rinascita, dopo tanto impegno per l’educazione dei loro cittadini indifferenziati.

A riguardo De Benoist è chiaro. Il riconoscimento fonda il legame sociale. Serve «una politica di riconoscimento delle differenze». Il riconoscimento deve essere reciproco, perché tutti rispettino la legge comune, senza separatismi. Avversando la tradizione giacobina francese, incline ad aggredire le identità particolari.

Tanto più che negare l’altro, genera polemiche, reazioni nervose; spinge le comunità alla chiusura e al rifiuto della legge in comune, più del riconoscimento. Laddove il rapporto con il diverso rafforza entrambe le identità. 

Anche perché, sul piano generale, perfino l’identità della persona presume un contesto. Genere, lingua, religione, politica, matrimonio, lavoro, inimicizie partecipano l’identità del singolo e rapportano con l’esterno, «siamo prima di tutto ciò che siamo diventati e… su questa base ci proiettiamo nel futuro», rimanendo noi stessi.

Per cui, risalta come l’identità non sia archetipo immutabile, né pura scelta personale da self-made man. Diverse possibilità trovano un punto di partenza alla nascita e anche alcuni limiti. Quindi cominciano le scelte, il cui margine di manovra si è fatto sempre più esteso con la Modernità, assieme al conflitto interiore.

Infatti, l’identità individuale comprende innumerevoli sfaccettature ma solo alcune assumeranno valore primario. Quali? È difficile anticipare le percezioni di prossimità e facile immaginare esempi confliggenti. L’italiano cattolico, tra un connazionale e un cattolico asiatico. La donna trotskista tra una comunanza femminile e una politica. Gli aristocratici francesi che preferirono l’esilio ai compatrioti rivoluzionari. I comunisti di paesi diversi che scelsero l’Unione Sovietica come vera patria.

Ma anche nelle narrazioni collettive corrono dinamiche simili. La storia si manifesta in memoria e mito. Un cristiano comincia la storia dell’Europa con il cristianesimo. Un pagano racconta da prima. Un francese potrebbe scegliere tra Clodoveo dei Merovingi e la Presa della Bastiglia. In ogni caso, l’esistenza umana è storica. Disconoscerlo apre la strada a forme di identità patologica.

E per questa ragione, la patologia più diffusa è l’essenzialismo. Pretendere un’identità immutabile, idealtipo atemporale, nega margine di scelta al singolo e al gruppo, impedisce che il particolare accompagni verso l’universale, sbarra lo scambio con l’altro, riserva al proprio insieme ogni concezione di vita buona, aprendo a scontri e intolleranza. Così, il fondamentalismo identitario ricorda l’ideologia del Medesimo e l’atomismo liberale, applicati su diversa scala. Dall’egoismo individuale, all’egoismo di piccolo gruppo.

E ancora una volta, l’imposizione del modello unico favorisce reazioni agitate. Le identità profonde si incarnavano nelle tradizioni, vissute nel quotidiano, giorno per giorno. Una socialità distrutta, quasi ovunque. Pertanto, le identità riemergono più come somma di lealtà individuali che esprimendosi poco nel modo di vivere specifico, necessitano manifestazioni di fede appariscenti e mobilitazione continua. Quando lo stesso vuoto non è occupato esclusivamente dal mercato, con il feticismo identitario dei marchi, della moda e in genere della merce. Il vuoto dell’identità scomparsa. 

Infatti, per decenni, anche la discussione pubblica ha opposto la difesa delle identità collettive con il progetto dell’identità individuale, autodeterminata e libera nel mondo senza frontiere. Con l’identità difesa prevalentemente a destra ma vissuta tra le classi popolari. Semplicemente, Identitarismo contro Universalismo.

Poi, tendenze culturali di origine statunitense, Critical race theory, ideologia woke, cancel cuture, studi decoloniali rovinati hanno eccitato quello che De Benoist definisce il «neorazzismo identitario». Nella cui narrazione, chiave interpretativa di ogni reale e massimo oggetto di vituperio coincidono, paradossalmente, nell’idea delle razze biologiche.

Certo il «neorazzismo identitario» si vuole fieramente antirazzista. Tuttavia, definizioni della razza quale modalità sociale, eufemismi di “razzializzati”, “percepiti come non bianchi”, “uomini e donne della diversità” confermano l’ossessione per quel che non esiste ma determina tutto. Dall’oppressione subita alla necessaria discriminazione positiva. E conseguentemente gli oppressi reagiscono, affermando la propria identità comunitaria; “giornate vietate ai bianchi”, “campi estivi decoloniali riservati a persone che subiscono il razzismo di stato nel contesto francese”, “proiezioni di film per persone di colore senza genere”. Ovvero gli antirazzisti si comportano da razzisti biologici o suprematisti bianchi americani, separano e valutano le persone in base al colore della pelle.

Una determinazione tanto forte da obliare la critica al capitalismo e superare l’influsso del pensiero neofemminista; dal consiglio di denunciare soltanto gli stupratori bianchi (Houria Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi), alla vittimizzazione lacrimevole che sostituisce la lotta di classe.

Sempre che non prevalga il ridicolo d’oltre oceano. In diversi campus universitari brasiliani, commissioni di “sorveglianza razziale” valutano i fenotipi dubbi, allo scopo di applicare correttamente le discriminazioni positive riservate ai neri. O a Yale, dove il Dipartimento d’Inglese garantisce che gli studenti non bianchi possano rifiutare lo studio degli autori bianchi. Letteratura inglese, senza Shakespeare.

Una prospettiva di lotta contro le discriminazioni, opposta al vecchio antirazzismo universalista; ancora forte in Francia e nella cui opinione, tutti sono uguali e vanno trattati nello stesso modo. Un bersaglio logoro che De Benoist critica da tempo, rilevando la continuità dell’aggressione giacobina alle identità tradizionali con il progetto di assimilare gli immigrati al Medesimo.

Élizabet Badinter e François Raffin furono chiari già molti anni fa: «non è in nome dell’Île de France che si è negata l’identità bretone … ma in nome della ragione, del progresso, della libertà, dell’uguaglianza e dell’universalità del diritto». Con la differenza che ormai, la maschera dell’Universalismo nasconde poco la semplice imposizione della cultura occidentale moderna, la resistenza diventa violenta e semplicemente il progetto di assimilazione non funziona, specialmente nelle periferie urbane. Meglio le comunità ebraiche, tamil, asiatiche francesi, ricche della propria cultura, bene integrate o almeno rispettose dello spazio comune.

Nessun rimpianto per l’Universalismo. Tuttavia:

«Il pensiero indigenista dimostra che non basta essere ostili all’universalismo per mantenere un discorso equilibrato. Più in generale, mostra soprattutto cosa succede quando la necessità di difesa dell’identità degenera in un identitarismo etnico volto all’avversione dell’altro … Quindi diciamolo chiaramente: bisogna respingere l’irenismo universalista e l’identitarismo convulso, che è solo la sua forma simmetrica opposta, rifiutarle entrambe. All’identitarismo razzista non dobbiamo opporre l’universalismo, ma una concezione dell’identità e delle identità collettive, basata sulla cultura e sulla storia».

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