Benedetta Tobagi, nella prefazione contenuta in Sulle donne (Einaudi, 2024), la raccolta di testi di Susan Sontag (1933-2004) legati alla questione femminile scritti tra il 1972 e il 1975, definisce gli articoli della scrittrice e intellettuale americana di “una spiazzante attualità” – nel bene e nel male, si potrebbe aggiungere. A iniziare da quello che apre il volume, dedicato alla vecchiaia delle donne come tabù e fonte di vergogna. In cui, con un certo anticipo sui tempi, Sontag «analizzava come lo stigma colpisse in misura enormemente maggiore le donne, rispetto agli uomini, dispiegando la brillante capacità analitica e le agili transizioni tra la cultura cosiddetta alta e quella popolare che sono la cifra dei suoi scritti migliori» (si pensi a titoli come Sotto il segno di saturno, Malattia come metafora e Sulla fotografia).
L’articolo è apertamente polemico nei confronti del cosiddetto ageism – sorta di razzismo contro gli anziani, specie quando questi sono donne -, un concetto controverso messo a punto dallo psichiatra e geriatra Robert Butler appena tre anni prima (1969), che Sontag nella sua disamina utilizza come pretesto per accusare più in generale la società occidentale e le leggi capitaliste che la regolano. Difatti, se da un lato «capelli grigi e volti segnati dall’età» campeggiano ormai ovunque – nelle pubblicità e in televisione -, dall’altro, negli anni in cui la scrittrice matura queste riflessioni, l’alba dei Settanta, iniziava a diffondersi un fenomeno che noi esseri umani del ventunesimo secolo ben conosciamo, ovvero l’utilizzo ipocrita e mercificante della sola immagine. Sempre secondo Tobagi, l’autrice aveva capito prima di altri che proprio «l’aumento di immagini di donne anziane nella pubblicità […] pare dettato soprattutto da esigenze di marketing, per accattivarsi una fetta di mercato il cui potere d’acquisto è cresciuto in modo significativo», laddove «il femminismo e le sue battaglie sono insidiati oggi in maniera particolarmente subdola dai mille modi in cui il neoliberismo trionfante cerca di ridurlo a un “marchio” accattivante e innocuo […]». Da qui, l’insistere su alcuni dispositivi in grado, a parer suo, di scardinare davvero la subalternità femminile nei confronti dell’uomo, ad esempio quello del linguaggio – non era stato Zbigniew Brzezinki, segretario di Stato del presidente americano Carter, e raffinato intellettuale di origini polacche, a dire più o meno negli stessi anni che la politica del futuro apparteneva alla Simulazione, ovvero che il gioco del potere si sarebbe trasferito di lì a poco nel campo del linguaggio? – oppure operando «in direzione di una “profonda depolarizzazione dei sessi”», quel processo già in atto da tempo, soprattutto nel campo dello spettacolo e della moda, che vede look maschili e femminili sempre più fluidi e meno ancorati a stereotipi di genere. Due temi attualissimi che, tuttavia, hanno contribuito a spostare l’attenzione verso questioni di retroguardia, diciamo così. E su cui non tutto il movimento femminista converge in maniera compatta, mostrando di avere molte anime al suo interno. Da questo punto di vista, la forza delle riflessioni di Sontag – e del femminismo d’un tempo, lo stesso che combatteva anche i tic e la pigrizia della sinistra progressista, se necessario – risiede proprio nel non fermarsi alle sole battaglie sovrastrutturali, quelle slegate dalla concretezza della vita e del quotidiano, vendute fin troppo facilmente sul bancone delle idee a buon mercato. Anzi, se esse potranno avere un giorno non troppo lontano un qualche impatto, ci ricorda la scrittrice americana, è perché saranno state condotte a braccetto con quelle economiche, politiche e giuridiche. Secondo una visione per cui la vera libertà o è emancipativa oppure non è.
Tali questioni, insieme ad alcune delle tematiche più scottanti di quegli anni – una su tutte, la presunta “diversità” delle donne in quanto capaci di partorire (un’argomentazione, questa, verso la quale Sontag nutriva più d’una riserva) -, le valsero polemiche e scontri con diverse figure di spicco del movimento femminista. Ad esempio, con Adriene Rich, poetessa saggista e autrice di Nato di donna, all’indomani della pubblicazione del saggio dal titolo Fascino fascista – presente in Sulle donne insieme al duro confronto tra le due -, in cui Sontag solo parzialmente modifica il proprio giudizio riguardo l’opera della regista dei grandi film di propaganda nazista Leni Riefenstahl, dopo averne parlato in termini più lusinghieri dieci anni prima in un altro lavoro sul cinema. Nelle riflessioni dell’autrice americana «sull’estetica fascista e i bisogni profondi che il nazismo seppe captare» – di cui i celebri Olympia e Il trionfo della volontà erano chiara espressione -, Rich ravvisa un’operazione mancata: sia perché, a differenza di altre volte, non trova alcun “rispecchiamento dei valori femministi”, sia per una trattazione eccessivamente intellettuale, cerebrale, di alcune questioni come ad esempio la sessualità – a tal proposito, la stessa Sontag ne parlerà pubblicamente solo nel 2000, in un’intervista al New Yorker, dicendo quello che tutti già immaginavano, ovvero di aver avuto delle relazioni anche con alcune donne, come la celebre fotografa Annie Leibovitz. Più in generale, rispetto alle vicende private, dalla malattia che ne minerà definitivamente la salute ai tanti traumi vissuti in famiglia (per chi volesse approfondire, è dell’anno scorso la monumentale biografia Sontag. Una vita di Benjamin Moser) la scrittrice terrà fino alla fine un riserbo non negoziabile.
Questo è il punto: lo scarto tra le due tocca un nervo scoperto del femminismo, e della militanza politica tout court: da una parte Sontag, che sceglie orgogliosamente di non parlare di sé, di trincerarsi dietro una critica la più impersonale possibile; dall’altra Rich, la quale non accetta che una donna possa affrontare la complessità del reale senza fare ricorso ad «una solida base emotiva», quella consapevolezza data dalla propria coscienza di donna. Quanto questa seconda prospettiva abbia finito per imporsi, specie oggi nei termini sfacciati e senza pudore di un narcisismo di massa patologico, in cui pare esistere solo l’individuo e i suoi desideri, è sotto gli occhi di tutti. Al contempo, è indubbio che in forme meno estreme tale approccio sia stato, e continui ad essere, una delle molle più potenti nel percorso di liberazione del singolo. Lo stesso che intraprese, seppur in età matura, e cambiandone per sempre il modo di intendere il rapporto tra sfera privata e sfera pubblica, la grande giornalista e scrittrice Rossana Rossanda – citata in uno degli articoli del libro di Sontag, Il terzo mondo delle donne, scritto in risposta a un questionario inviato a lei e ad altre figure illustri del femminismo, tra cui anche Simone de Beauvoir.
Delle tante pagine che la giornalista ha dedicato alle tematiche femminili, un libro in particolare andrebbe segnalato: Anche per me. Donna, persona, memoria (Feltrinelli, 1987), una raccolta anch’essa di articoli apparsi principalmente su Il Manifesto dal ’73 al ’86. Il filo rosso che percorre questi testi, stilisticamente tra le cose migliori dell’autrice, è lei stessa a individuarlo nella lunga prefazione e riguarda l’incontro che fece ad un certo punto della sua vita con il femminismo sorto dopo il ’68. Dapprima, «come comunista, nessuno mi aveva confiscato il diritto di parlar di sé», sostiene infatti Rossanda, ma «quando scrissi (e cautelosamente) di malattia e morte e solitudine ricevetti lettere su lettere di protesta, dall’intellettuale che mi ricordava che “si muore soltanto di classe” ai calzaturieri del Brenta, costernati che un giornale di lotta (nel caso specifico, Il Manifesto) spendesse una colonna sul privato». Una dimensione non più solo personale, ma che d’ora in avanti si farà politica strictu sensu e, per certi versi, sostanza di quella “base emotiva” di cui parlava Adrianne Rich, anche se in termini assai più rigidi. Tant’è che dopo la frequentazione di assemblee, cortei, raduni del movimento, pur tenendosi alla larga dalle ali più estreme e dogmatiche, la giornalista ammetterà: «mi è diventato abituale vedere le cose del mondo attraverso una donna che ho incrociato, di persona o nelle pagine d’un libro, e pormi non senza imbarazzo qualche problema di politica femminista». Tutto questo in una fase di grandi trasformazioni, in cui a venir meno, insieme alla tradizione comunista cui Rossanda apparteneva – picconata proprio dal lungo Sessantotto italiano -, è anche l’autorità dell’impersonale e dell’assoluto, due dei caratteri propri della militanza politica fino a quel momento.
Da una parte, «la parola politica» senza più «il fascino di chiave di un altro mondo da penetrare, s’è fatta tecnica come le altre, e se ne vanta»; mentre dall’altra, proprio quando i movimenti e gli slanci si esauriscono, e il progetto va in pezzi, «l’esperienza esplode in un frammentarsi di vite, in cui non è che si riveli un tessuto più problematico di relazione tra società e individuo, ma ciascuno è scagliato in un’insignificanza dalla quale emergono indolenzite soltanto alcune ragioni del privato». Ammonimento, quest’ultimo, che sembra richiamare le ragioni di chi ancora oggi, qui e ora, non ha smesso di incaponirsi su tali questioni. E, al contempo, di chi ponendosi il problema dell’identità, spalanca vieppiù le fauci della nostra patologica incomprensione. Pertanto, le conclusioni di Rossanda sarebbero da mandare a memoria, in un tempo come il nostro che certamente non avrà voglia di farlo. «La storia sembra verificabile soltanto come biografia, ma la stessa biografia si fa sfuggente, perché è così intrecciata con l’avventura collettiva da subire le medesime rimozioni». Buffo destino quello di dover leggere una comunista per capire, infine, che nel rapporto tra l’individuo e la società la posizione più saggia è moderatamente centrista. Ecco perché tra Sontag e Rich non c’è partita: meglio Rossana Rossanda.