Due fenomeni, apparentemente inaggregabili, possono dire molto sullo stato di benessere di un Paese come l’Italia: il numero di lettori e i fenomeni da burnout e depressione. È un dato avvalorato – e riconfermato qualche mese fa sul Sole 24 ore – che la pandemia, da un lato, ha dopato l’assuefazione alla lettura di lettori già forti – coloro che leggono almeno dodici libri all’anno – e che rappresentano una modesta percentuale della popolazione italiana, appena il 6,4%; dall’altro ha fiaccato la propensione alla lettura di chi già la esercitava poco – coloro che leggono da uno a tre libri ogni anno, di solito durante le vacanze estive – e che oggi comprende il 17% del totale. Invece, la percentuale di chi non apre alcun libro durante l’anno mantiene una drammatica coerenza con le precedenti rilevazioni statistiche, attestandosi a quota 39,3%. Risultato? Nel mondo post-covid, la media dei libri letti (forse faremo meglio a dire acquistati) è salita a 7,4 contro i 6,3 degli anni precedenti ma rispetto ad un numero di lettori quantitativamente inferiore. Lo scenario è quello una sorta di polarizzazione della ricchezza culturale che prospera nelle mani di chi già ne aveva molta e languisce in chi già in passato ne dimostrava scarso interesse, avendo questi ultimi deciso di abbandonarla in favore di mezzi di intrattenimento considerati più dinamici, ossia che richiedono una modalità di fruizione tutta passiva.
Su di un altro crinale, è un dato anch’esso, si fa serio l’aumento nei contesti di lavoro, ma pure relazionali, dei fenomeni da burnout. In Italia ne soffrono circa il 16% degli individui ma, tuttavia, questo disturbo pare accarezzato, o sperimentato in fase transitorie e non ancora patologiche, da quasi l’80% dei giovani. Il motivo è il precariato trasversale, sperimentato per quasi ogni impiego, indipendentemente dal titolo di studio. Tale disagio pare, inoltre, intrinseco al tessuto che caratterizza da sempre il sistema produttivo nostrano, rilevandosi spesso nell’ambito della piccola e media impresa privata. I motivi riportati dal Corriere della Sera sono attribuibili a «mancanza di chiarezza riguardo a compiti, responsabilità e obiettivi, alla pressione legata alle tempistiche e al carico di lavoro». Questo determina una maggiore difficoltà per le aziende di mantenere risorse per periodi di tempo lunghi e, da una prospettiva opposta, alimenta il dibattito sulla diffusione della settimana corta.
Fatte le dovute premesse, si può correre al paradosso. L’orizzonte di una buona salute mentale è per certi aspetti conseguibile attraverso un costante esercizio della lettura. La fusione dell’io con l’oggettività del mondo esterno non potrà mai essere totale, tuttavia, ai fini del benessere psichico, si necessita che esso possa essere in grado di incassare i colpi delle avversità, comuni a ciò che si chiama vivere, quando si manifestano. Per utilizzare un termine demartiniano è indispensabile tutelare la propria «presenza» nel mondo, pena la follia.
La letteratura è un dispositivo che aiuta a preservare la sanità della psiche. Essa ha la funzione di far vivere al lettore un’esperienza di vita sotto forma di esplosione contenuta: le delusioni amorose, le crisi adolescenziali, gli attriti con l’autorità dei genitori, i litigi fra amici, la fatica del lavoro, la mancanza, l’accettazione del lutto. Ogni potenziale evento è sublimato nella finzione letteraria che, d’altra parte, pedagogicamente, lo fa vivere al lettore in forma attenuata, quasi fosse un vaccino per renderlo pronto al futuro, un bagaglio di esperienze teoriche pronte all’uso. Attraverso gli eroi dei romanzi si vivono drammi e gioie, vite non vissute di prima mano ma delle quali si viene a conoscenza. Tutto ciò è necessario alla crescita personale poiché come scriveva lo psicanalista Bruno Bettelheim ne “Il mondo incantato”: «Contrariamente al mito antico, la saggezza non salta fuori perfettamente sviluppata come Atena dalla testa di Zeus; essa viene edificata, a poco a poco, dagli inizi più irrazionali».
L’apparentemente irrazionale, è il romanzesco, il patto che l’autore e il lettore suggellano accettando di lasciare le lore identità per essere in grado di proiettarsi in un luogo neutro dell’immaginazione dove, per poter osservare da vicino le gesta dei protagonisti, ciò che è possibile nella realtà è istituzionalmente sospeso in favore del fantastico o del verosimile. A ragione, Renato Nisticò – celebre bibliotecario della Scuola Normale -, si esprimeva in questi toni:
«Scrivere e leggere significa rinunciare momentaneamente alla propria personalità per esperimentarne altre e diverse, mettendosi a guardare il mondo (o meglio, i mondi) con occhi altrui. […] La letteratura è di per sé il luogo di un diretto esercizio di facoltà magiche, in conseguenza delle quali la fantasia, liberamente esercitata, produce credenze vincolate a determinati protocolli di realtà. […] Pensiamo a ciò che accade: un autore carpisce i pensieri segreti di un avventuriero dei secoli passati, spostandosi indietro nel tempo […]; oppure fruga nei sentimenti di una donna che abita dall’altra parte del pianeta, pur senza averla mai conosciuta, non spostandosi mai da casa sua. Senza che abbia introdotto un solo elemento per farci intendere che quella donna esista veramente, e che lui l’abbia interpellata, noi gli crediamo, e diamo credito alla plausibilità del suo agire.»
Se sorprendentemente riconosciamo nell’istituto della letteratura un ultimo vestigio, pienamente accettato dalla modernità, di antiche pratiche magiche, la sua classe di funzioni – come l’abbandono dell’io in favore di una personalità vicaria – concorre alla definizione, si potrebbe dire al riconoscimento, dell’identità personale del soggetto come della società umana tutta. Il mancato uso e consumo di questo bene abbandona molti individui a sé stessi, amputandone la possibilità di conoscere una varietà di vissuti e di esperienze e relegandoli alla miopia di una sola esistenza, certo troppo poco per scovare la saggezza necessaria a superare le difficoltà proprie di un mondo che si muove in modo sempre più convulso.