Da un po’ di anni a questa parte le pubblicazioni dedicate a Rossana Rossanda – spesso raccolte di articoli, riflessioni e interviste – sono andate aumentando, quasi la sua figura abbia oggi una rilevanza persino maggiore rispetto ai tempi dei quali fu faziosa e autorevole interprete. Fondatrice de Il Manifesto insieme ai compagni di una vita – Luigi Pintor, Lucio Magri, Valentino Parlato, Luciana Castellina, Aldo Natoli – da quel suo giornale, che non era solo un quotidiano ma una parrocchia, un pensatoio e, infine, il residuo di un tempo ormai sepolto, negli ultimi anni di vita se ne distaccò non senza qualche dolore (si ricorderanno forse i botta e risposta con l’attuale direttrice Norma Rangeri).
Nelle riunioni di redazione di quel gruppo squattrinato, già epurato dal PCI perché non in linea con l’indirizzo berlingueriano, c’era pure un giovanissimo Giampiero Mughini, così tanto allergico agli intruppamenti che dopo qualche giorno se ne andò chiudendosi la porta alle spalle. Proprio lui che di questi ex amici, in un articolo di molto successivo su Huffpost, dirà essere “gente di una razza speciale”; e che volle intitolato il circolo di sinistra della sua Catania a Giaime Pintor, fratello di Luigi, intellettuale tra i più raffinati della sua generazione, morto su una mina tedesca nel 1943.
In Volti di un secolo (Einaudi, 2023), Franco Moretti raccoglie della Rossanda 52 ritratti apparsi sul Manifesto tra il 1971 e il 2012, che sono altrettanti necrologi di figure più o meno eccellenti, ognuna di esse capace di segnare il Novecento in modo assai speciale: da Pablo Picasso a Herbert Marcuse, da Franco Fortini a Natalia Ginzburg, passando per Gyorgy Lukacs, Giorgio Strehler ed Enrico Berlinguer.
L’autrice, già partigiana e allieva di quell’Antonio Banfi così decisivo nella sua formazione, dedica inoltre alcuni pezzi davvero commoventi agli amici più amati. Ad esempio, nell’articolo intitolato “Un comunista per amico”, sul già citato Aldo Natoli, c’è un passaggio che da solo racchiude il senso di un’esperienza individuale e collettiva di quella generazione, e conferma, se mai ce ne fosse bisogno, la validità dell’espressione mughiniana di cui si diceva: «Nella stupidità attuale neppure si immagina che cosa è stato il legame fra comunisti allora, un rapporto totale e riservato, un vedersi camminare assieme, inciampare e raddrizzarsi assieme, sorridersi lontano». Ecco, dunque, un’ottima chiave per approcciarsi a questo libro, che di fatto è un’autobiografia attraverso le vite degli altri: ovvero assumerlo nella sua duplice veste. Da una parte, la dimensione dell’individuo che scrive, l’io femminile e politico di Rossana Rossanda (una coscienza di essere donna che le derivava dall’incontro con il femminismo); e dall’altra, quella di un popolo enorme (il proletariato, certo, ma anche il piccolo borghese e l’intellettuale), rappresentativo di un’epoca solo apparentemente remota, in verità vicinissima: al punto che, guardandone i tratti dalla distanza di cui godiamo oggi, ancora più violento sembra il processo di rimozione che l’ha investita.
La copertina di Volti di un secolo, disegnata da Ugo Nespolo, che raffigura l’autrice stilizzata e divisa in quadranti, come se fosse una di quelle immagini da colorare della settimana enigmistica, dà la misura e la precisa contezza, anche se forse involontariamente, della qualità migliore della stessa Rossanda, cioè l’eclettico interesse per le cose della vita. Così come il titolo, quel “volti” al plurale, che ha tutta l’intenzione di voler suggerire quanto ciascuno contenga dentro di sé moltitudini irriducibili, enuncia chiaramente che l’autrice non ha mai lesinato rispetto ai molti campi della realtà culturale: cinema e letteratura, teatro e arti figurative, sono tanti i fuoristrada extra politici, mai però disimpegnati, di cui la Rossanda poteva ben dirsi curiosa amateur. Se poi, come nel suo caso, l’amore per letteratura inizia fin da piccola grazie ai racconti dell’amato bibliotecario di Cesena, quel Renato Serra gran scrittore e morto troppo presto da soldato nel primo conflitto mondale, ecco che, allora, in questa preziosa antologia non potevano proprio mancare i profili e le opere di alcuni degli autori che più hanno segnato il secolo breve (il secolo belva, secondo Mandel’stam). In questo senso, molto gentili e partecipi sono le parole che Rossanda destina all’engagé Jean Paul Sarte – lo scrittore dell’assurdo, tra i pochi a rifiutare il Nobel, che concepiva la politica come «flusso che travolge la storia appena si fissa» – o all’amato Primo Levi – «Egli ci metteva davanti le nude cose, senza enfasi né imprecazioni, compiva un atto di fiducia nella ragione, nel suo poter registrare la malattia e dotarsi di anticorpi».
Più caustiche, a tratti vere e proprie staffilate, quelle su Aragon – uomo fedele “solo alla letteratura”, peso massimo piuttosto tronfio della sinistra francese, con il quale l’autrice ebbe a Parigi «uno degli incontri più sgradevoli della mia storia di partito» – e Pier Paolo Pasolini – il maledetto PPP, contrario a tutto quello per cui si batteva, l’aborto, il femminismo, la disobbedienza, al punto da costringerla a sottoscrivere le parole di Edoardo Sanguineti che all’indomani della morte del poeta, avvenuta il 2 novembre del 1975, scrisse «finalmente ce lo siamo tolto dai piedi, questo confusionario, residuo degli anni Cinquanta».
Ma il vero corpo a corpo, com’è intuibile dalle vicende umane e professionali della giornalista, è con la politica – laddove principi e teorie ne punteggiano l’indirizzo ideologico generale – e, al contempo, con i politici in carne ossa – quali rappresentanti più o meno fallibili di quelle premesse sulla carta.
Detto che Berlinguer è «il segretario del Partito comunista con il quale si è consumata la nostra rottura», oltreché «l’uomo che a nostro avviso sbagliò la diagnosi dei grandi movimenti sociali degli anni Settanta, producendo guasti immensi», il duello probabilmente più affascinante è quello con Giorgio Amendola, esponente di spicco del PCI, tra il 1945 e il 1946 Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio nei governi Parri e De Gasperi I. Con lui, scomparso il 5 giugno del 1980, se ne va «una figura di frontiera», «impensabile fuori dal nostro paese e dalla storia del nostro movimento operaio», «un bolscevico della linea di destra», totalmente contrario al compromesso storico e incline all’istituzione di un sistema «capitalistico programmato, che sarebbe improprio chiamare social-democratizzato; perché lo concepiva più rigido, efficiente, ideologizzato». Rabbiosamente osteggiato da certa gioventù, di cui la Rossanda era capintesta, Amendola, per lungo tempo, non fu altro che la parte conservatrice del partito, in realtà quella vincente e l’unica a sopravvivere fino ai giorni nostri: «C’è un’anima del movimento operario e comunista che si ancora profondamente nei valori introiettati della borghesia “migliore”. Non si capisce, senza questo, non dico Amendola o Togliatti, ma Stalin o Lukàcs; il solo che scarta, e perde, è Mao».
Proprio a quest’ultimo la giornalista si rivolge idealmente, in un moto di speranza, affinché il modello che il leader cinese ha incarnato possa essere riconosciuto come il più grande, forse l’unico, tentativo rivoluzionario mai sperimentato. Qui torna con una certa evidenza quella sovrapposizione tra la sfera individuale e collettiva (nel caso specifico tra realtà italiana e cinese) che, del resto, attraversa la quasi totalità degli articoli di questa raccolta. Il consenso e l’idolatria per Mao di una parte considerevole della contestazione nel nostro paese derivavano da una forte vicinanza, anche istintiva e irrazionale, con l’irrequietezza così specifica dei giovani comunisti italiani. Quello cinese era un «comunismo come programma immediato, non ipotesi di domani ma leva dell’oggi, condizione della rivoluzione occidentale», tuttavia alle prese con i limiti che ogni rivoluzione porta con sé. Il vero cortocircuito, il motivo per il quale sentirsi vicini all’esperienza di un paese così distante come la Cina, avviene su di un piano che la Rossanda, con grande acume, sa cogliere più di altri osservatori coevi: «Una società come quella costruita dal partito comunista cinese era, assieme, materialmente, povera ed infinitamente matura nell’organizzazione dei rapporti tra uomini e cose; la sua conflittualità, i suoi antagonismi, diventano per la prima volta simili ai nostri. Certo, per vederli, occorreva togliere il velo del concetto di rivoluzione come eminentemente politica nel senso di statuale, per ritrovare il senso della rivoluzione come eminentemente politica nel senso di sociale». In questa «aderenza al concreto subito fino ai confini della prefigurazione e dell’utopia» risiede, secondo la giornalista, la vera natura del maoismo, che è un ritorno ai dettami di Marx, «è la rivoluzione ininterrotta. Ribellarsi è giusto, perché ribellarsi è la sola condizione d’una dialettica positiva della storia». La sconfitta del leader cinese, o se si vuole del modello comunista di quel paese, è la cifra di un’eresia che, forse più di ogni altra cosa, caratterizza il pensiero, l’agire, l’attitudine della stessa Rossanda: ecco il perché di questa passionale immedesimazione.
Ogni tentativo autobiografico, sarà pure banale ripeterlo, presuppone di fare i conti soprattutto con le proprie sconfitte. Senza rinunciare alla possibilità di custodire, dentro di esse, il seme per una battaglia futura. In questo Volti di un secolo la Rossanda non risparmia sé stessa nemmeno un attimo, seppur attraverso il destino e le vicende di altri. È per questo motivo che, anche se non sempre ci si trova d’accordo con i suoi estremismi, con quei voli utopici di pura contraddizione, la si legge con ammirazione, e con piacere (fortuna che Pintor le diceva essere un’asina a scrivere, accusandola di perdere spesso il filo del ragionamento). Di fronte alla “ragazza del secolo scorso”, per citare il titolo, questa sì, dell’autobiografia pubblicata nel 2005, ci fermiamo un attimo, e seguitiamo a leggerne ancora qualche pagina. Per il momento, qualunque riserva sul comunismo, sia esso cinese o sovietico, può attendere.