Joe Biden se ne va. Se ne va, lo ha annunciato in un comunicato, dalla corsa per lo Studio Ovale, azzoppato dal disastroso capitombolo nel dibattito con l’arcirivale Donald Trump, miracolato della politica, della giustizia, e adesso pure della balistica; se ne va da Washington, centro nevralgico di un potere che a tutt’a un tratto non sembra essergli mai appartenuto davvero; se ne va dai vertici in rivolta del Partito Democratico, l’asino pronto a disarcionarlo dopo tanti anni in sella. Joe Biden se ne va. Giovedì era volato verso il natìo Delaware; ufficialmente per riprendersi da un lieve caso di Covid, ultima beffa di un mese da dimenticare, ufficiosamente per riflettere sui destini suoi e dell’America spaccata. I fotografi l’avevano immortalano mentre con fatica s’imbarcava sull’Air Force One da una scaletta posteriore. Un simbolo: niente scalinate lunghe, uguali a quella su cui incespicò nella primissima, famigerata gaffe, incipit di una sequela che anche ora, tre anni e un mondo dopo, non dava segno di esaurirsi.
Con la la stampa amica (e spesso complice) a sorreggerlo, Uncle Joe, vecchia volpe un po’ goffa ma saggia e bonaria, se l’era cavata fin troppo bene. Adesso, però, i suoi svarioni non fanno ridere più nessuno. La commedia è finita, cala il sipario, e tutt’intorno pare di sentire i versi mesti di Send In The Clowns, grande classico del cinema musical: Isn’t it rich?/Isn’t it queer?/Losing my timing this late/in my career? Nel giro di un’ordinaria serata estiva un Paese di trecentoventicinque milioni di anime è tornato alla realtà, e il risveglio è stato alquanto sgradevole. Gli Sati Uniti si scoprono una gerontocrazia in fase terminale; Biden ha ottantun’anni, Trump ne ha appena compiuti settantotto, insieme fanno un secolo e mezzo. Abbastanza tempo, forse, perché gli storiografi possano dirimere l’ovvio interrogativo che aleggia sulle teste di mezzo pianeta dalla fine del fatidico confronto tra i due: chi comanda veramente oltreoceano? Chi ha tenuto, tiene e terrà le redini dell’unica superpotenza globale, arsenale nucleare incluso?
Inutile illudersi oltre: lungo l’intero corso di quest’amministrazione, dietro alla Resolute Desk c’è sempre stata una sedia vuota. Non poteva certo essere l’attuale Presidente a reggere le sorti del barcollante impero a stelle e strisce, afflitto com’è da un declino cognitivo che ormai anche i liberal più sfegatati si rifiutano di ignorare; e tuttavia, qualcuno dovràpur aver manovrato le leve della macchina politica USA in questo periodo a dir poco turbolento. Le teorie in merito, prevedibilmente, abbondano. C’è chi guarda alle immancabili eminenze grigie, assistenti e staffers tanto ignoti quanto potenti; altri, memori dell’ultimo, drammatico anno del secondo mandato di Woodrow Wilson (sul finire del 1920 il fautore della Società delle Nazioni venne colpito da un ictus, a seguito del quale fu di fatto la moglie Edith a governare) interpellano la First Lady, Jill Biden. Alcuni, assai fantasiosi, pensano perfino ad una sorta di direttorio, un triumvirato composto da Nancy Pelosi, Chuck Schumer ed Anthony Blinken.
Ma è in Barack Obama che i più individuano il grande burattinaio di D.C. . La vulgata complottista lo vorrebbe al terzo giro di giostra effettivo, la consorte Michelle pronta — almeno prima che Kamala Harris assumesse in via ufficiale il titolo di delfina di Biden — a garantirgliene un quarto e il suo ex vice ridotto a nulla più che un triste pupazzo. Tesi popolare, questa, anche perché infrange l’altrimenti ineludibile impressione che la capitale degli States sia un vero e proprio ospizio; per quanto sottotraccia, oltreoceano ci sarebbero così ancora un po’ del dinamismo e della solidità di un’epoca che, comparata col presente, tanti ricordano d’oro. A pensarsi nelle mani di Forty-Four, sicuro, rilassato, cool in ogni senso del termine, parecchi americani (inclusi quelli che all’epoca lo avversavano) stanno più sereni. Ed è in fondo questo lo scopo delle elucubrazioni cospiratorie: rasserenare, confortare chi vi si presta di fronte alla naturale paura dell’incomprensibile e dell’assurdo.
Nel caso di specie si tratta di deflettere la sensazione istintiva che al timone degli States non ci sia nessuno. O, per meglio dire, che a dirigere l’azione dell’onnipotente governo federale non sia una singola figura legittimata dal voto democratico, ma piuttosto un numero infinito di attori avulsi al controllo elettorale, sconosciuti e in feroce competizione gli uni con gli altri. Impossibile, direbbe l’Average Joe: a scuola s’insegna che chi occupa lo Studio Ovale è — con tutti i limiti del caso, sia chiaro — il capo del Paese, punto. Lui o lei decidono, lo Stato esegue; si chiama ramo esecutivo per questo, no? Possibilissimo, rispondiamo noi. Non è necessario (ma aiuta senz’altro) avere familiarità con il pensiero elitista di Pareto o Gramsci per cogliere che tra il dato giuridico formale enunciato nella Costituzione e quello politico reale sperimentato quotidianamente dal comune cittadino esiste un divario tangibile, che di recente sta assumendo l’ampiezza e la profondità di una faglia tettonica.
Se infatti risulta corretto affermare che la facoltà di indirizzare la vita pubblica spetta ai rappresentanti del popolo insediati alla Casa Bianca e al Congresso, è altrettanto vero che l’implementazione di detti indirizzi è compito di istituzioni a sé stanti, che possono operare e sovente operano in contrasto col volere di quelli che pure sarebbero i loro diretti superiori. Ad esempio: nei tardi Anni Settanta Jimmy Carter giunse alla conclusione che, dopo un quarto di secolo, era arrivato per i soldati USA il momento di lasciare la Corea. I piani furono approntati, l’ordine venne diramato… E non successe nulla. Il Pentagono fece ostruzionismo fino a scavalcare il Commander In Chief; un’usurpazione in piena regola, avvenuta mentre fuori dalle stanze dei bottoni non si sospettava alcunché. Episodi analoghi a quello appena illustrato si verificano in continuazione, non solo su una scala macroscopica: un burocrate minore è ben in grado, nel suo piccolo, di ostacolare con efficacia la realizzazione dell’agenda scelta dai votanti.
Re Biden è nudo (e la stessa Kamala, di fatto pre-selezionata dai vertici dem senza troppo badare al parere di una base spesso assai più radicale dei suoi referenti, appare già in intimo). D’altronde però il grande anziano ricopre il ruolo di un semplice monarca costituzionale, come farà chiunque dovesse succedergli. Robert Michels la chiamava legge ferrea dell’oligarchia: una volta raggiunto un certo grado di complessità anche le strutture politiche più democratiche finiscono per essere gestite da una cerchia ristretta, che ne nullifica la natura nominalmente aperta in favore di un assetto esclusivo. Così sono stati appunto gli oligarchi della compagine blu a fare lo sgambetto all’uomo che fino a qualche settimana fa davano per sicuro vincitore della (ennesima) battaglia Bene vs. Male; sono stati loro ad imporgli l’abbandono, al culmine di un golpe bianco consumatosi secondo certe voci a colpi di tweet farlocchi; e saranno loro ad impostare l’eventuale quadriennio di Harris al 1616 di Pennsylvania Avenue.
Non importa su che testa poggia la corona, il potere reale lo detiene sempre e comunque la corte. È il segreto di Pulcinella di tutte le democrazie; lo era anche di quella statunitense, prima che la CNN lo mandasse in onda in alta risoluzione. I cavalli sono scappati dalla stalla, e a poco vale l’estremo tentativo di riportarceli ricorrendo ancora una volta al rituale del voto; mai quanto ora John Doe comprende che a determinare l’esito dell’agone politica non è il suo consenso, bensì quello di una manciata di notabili. Che dunque diventano a un tempo oggetti e soggetti dei violenti scontri — non solo figurativi — in atto dall’altra parte dell’Atlantico. S’inserisce nel quadro di questo botta e risposta anche la più recente sentenza della Corte Suprema, emessa pressoché in concomitanza della discussione Trump-Biden e da quest’ultima inevitabilmente oscurata. Salta la Chevron Deference, dottrina di epoca reaganiana in base alla quale, in caso di dubbio, il governo doveva sottostare all’interpretazione che delle norme davano le agenzie deputate ad applicarle.
Un facile escamotage per mezzo del quale i funzionari potevano a tutti gli effetti sostituirsi al legislatore.Non più. Lo Stato profondo esce clamorosamente sconfitto dall’ultimo capitolo di un testa a testa che ormai si svolge alla luce del sole: progressisti e conservatori si contendono apertamente il controllo degli apparati, in un’escalation retorica, ideologica e programmatica sempre più intensa. I primi seguono il corso tracciato da Franklin Delano Roosevelt nel pretendere un’espansione drastica del sistema: più justices alla Corte Suprema, più seggi al Senato, addirittura più membri dell’Unione, D.C. ed il Puerto Rico, per diluire l’influenza degli avversari e consolidare la propria. I secondi, scottati dalla deludente esperienza del quadriennio Trump, preparano per il bis un completo stravolgimento dell’impalcatura federale. È Project 2025: il piano, da portare a termine nei primi cento giorni di mandato del tycoon, contempla espulsioni di massa, tagli netti alla pressione fiscale, e soprattutto l’avvio di una stagione di purghe a danno delle sinistre.
Niente più small government: abbandonato il feticcio libertario a lungo appannaggio (se non altro a parole) dei neocon, i repubblicani vogliono uno Stato che appartenga loro non meno che ai democratici. I sostenitori dell’elefante concordano, e anzi chiedono a gran voce che questa nuova America venga messa al servizio di una presidenza “imperiale” slegata dai vincoli, formali ed informali, che hanno finito per soffocare la ribellione populista del 2016. Dall’altra parte, una schiera fitta e trasversale di conservatori inconsapevoli si batte perché tutto resti ancora più uguale; sono il partito del rule by committee, i militanti della tecnocrazia manageriale burnhamiana, che con la pandemia sembrano essere divenuti lo schieramento maggioritario nella galassia progressista — anche da questo lato dell’Atlantico. Un’altra fessura emerge così nel corpo fragile dello Zio Sam, capace come ogni altra di farsi ferita purulenta. E mentre ci si affanna a cercare una cura, neile cabine elettorali, in un Cesare o nelle ombre dei palazzi, a noi viene in mente un altro verso di Send In The Clowns: Don’t you love farce?/My fault, I fear […]/But where are the clowns?/Don’t bother: they’re here…