Cogliendo l’occasione del settantottesimo anniversario della Repubblica Italiana, una riflessione va fatta sull’influenza linguistica e culturale che ancora gli Stati Uniti esercitano: a tratti casuale e inconsapevole, a tratti voluta e goduta in Patria come dall’emittente, che con il proprio convinto eccezionalismo ha incantato molte generazioni di altre nazionalità. L’Italia s’è sempre percepita uno Stato diviso nell’identità: infinite identità territoriali, malgrado la Penisola non presenti diversità nazionali o tribali. Mai nazioni come nel caso dell’Inghilterra-britannica, della Spagna e perfino della Germania. Con i loro inglesi, ceppo dominante, e scozzesi piuttosto che irlandesi; i castigliani, stesso valore geopolitico degli inglesi nella penisola iberica, e i catalani, i baschi, gli andalusi; i prussiani, i bavaresi e i sassoni, piuttosto che i renani.
Dopo un’unificazione travagliata e posticcia, dal punto di vista pedagogico-nazionale, frutto di contributi di attori con idee molto divergenti e un sovrano che mantenne il titolo di “Vittorio Emanuele II di Savoia” e non “I d’Italia” – nonostante venne poi soprannominato “Padre della Patria” e fosse abbastanza amato nell’immaginario collettivo coevo – solo la Grande Guerra dopo la disfatta di Caporetto, quando la belligeranza mutò da offensiva a difensiva, riuscì a stimolare un sentimento nazionale: a generare la percezione identitaria-nazionale non soltanto nelle classi più abbienti a livello culturale, sociale ed economico, ma un po’ in tutti gli italiani.
Il futurismo prima (20 febbraio 1909), insieme al nazionalismo nascente attraverso l’Ani (Associazione Nazionalista Italiana, 3-5 dicembre 1910, Firenze) e al fronte dell’«interventismo» – ideologicamente variegatissimo, ma con il fine tra gli attori comune di una nazione compiuta e riconosciuta – con il fascismo poi: tentarono di “fare gli italiani” adottando varie misure. All’inizio del secolo XX molti studiosi (linguisti) e intellettuali disapprovavano le influenze anglosassoni, ma anche quelle francesi: all’epoca ben più numerose. Il regime del littorio disapprovò totalmente tutto ciò che non fosse italiano, intensificando la lotta contro le parole e le culture straniere attraverso insegne pubblicitarie, nomi propri e relativi ai prodotti di consumo, ma anche con l’introduzione di multe, sanzioni e periodi di reclusione per i trasgressori.
Con la fine della Seconda guerra mondiale e l’esito che ne diede, l’Italia cessava di essere uno Stato completamente sovrano. Vale la pena ricordare le parole di Pietro Quaroni, ambasciatore a Parigi durante il Trattato del 1947, che nel giugno del 1948 trasmise un telegramma a Roma, al ministro degli Esteri Carlo Sforza, che così recitava: «La realtà è che noi come tutti gli altri paesi d’Europa abbiamo cessato di essere indipendenti e che dato lo stato dei rapporti russo-americani oggi, noi siamo altrettanto liberi di riavvicinarci alla Russia, come la Polonia di riavvicinarsi all’America».
L’abolizione della Patria ad opera dei partiti comunista e socialista e il servilismo verso gli Stati Uniti e i soci maggioritari dell’Europa politica da parte cattolica, insieme alla formidabile e sbalorditiva influenza americana che s’è rivelata esser unica nella Storia dei popoli, indirizzarono la Penisola verso una graduale perdita dell’identità nazionale. Il mercato italiano venne invaso da prodotti di consumo americani, le abitudini sociali americane erosero pian piano quelle italiane: supermercato, vendita per corrispondenza, lotterie e gioco d’azzardo. A ciò si può aggiungere una certa infatuazione per lo stile di vita delle celebrità del cinema hollywoodiano. L’influenza linguistica e culturale americana divenne sempre più pervasiva, (l’accettazione fu entusiastica da quel momento in avanti), i vocabolari italiani si trasformarono da descrittivi a prescrittivi; nacque e crebbe la competizione fra i dizionari per disporre di più neologismi o prestiti linguistici possibili al proprio interno.
Nel corso dei decenni poi, l’utilizzo di parole ed espressioni anglosassoni, oppure uno stile di vita americanizzante, divennero linea di condotta per molti individui e gruppi sociali. Gli yuppies, negli anni Ottanta del Novecento furono, insieme agli economisti, i finanziari, i media e i personaggi della televisione, i sacerdoti del culto anglofilo. Sul crinale del secolo XX e i primi anni del nuovo millennio, Internet e il World Wide Web raggiunsero la fruibilità di massa. Questa fu certamente un’altra evoluzione che acuì il processo d’annacquamento dell’identità (probabile punto di non ritorno), insieme a quel distorto concetto di globalizzazione, sviluppatosi dagli anni Ottanta del Novecento ed affermatosi con la definitiva supremazia marittima ed economica statunitense con la fine della Guerra Fredda. Già, distorto perché la globalizzazione è di quella collettività che la raggiunge dominando: le vie marittime vitali, la moneta internazionale e dunque la finanza e il commercio. Non è appannaggio delle “multinazionali”, cosmetico per celare la nazione natale, e soprattutto non è un evento che accade casualmente come spesso si è teso a credere. Storicamente se ne annoverano tre: quella romana, quella britannica(inglese) e quella, come detto, statunitense.
È bene sottolineare che le traiettorie della Storia non sono prerogativa dell’essere umano come delle collettività, l’intenzione americana di costruire il Dopoguerra europeo e italiano ha trovato un solido e sentito appoggio nel Vecchio Continente, soprattutto in Italia e in Germania, e che si è poi autoalimentato. Ma è pur vero che, ad esempio, la perfezione e la finezza del lavoro cinematografico statunitense da una parte: dalla sconfitta del “barbaro nativo” con i western negli anni Cinquanta e Sessanta, quella dell’oscurantismo sovietico nei decenni successivi, piuttosto che le Serie Tv imbevute di wokismo più di recente – toccando soltanto alcuni esempi di segno diverso – e dall’altra una spesso inconsapevole, ma a volte ragionata e preferita, condivisione della vulgata dominante ad opera dell’ascoltatore, rimangono elementi d’indubbio valore nella riflessione. Detto in parole povere, Washington ha prodotto la miglior propaganda della Storia perché oltre i meriti di tutti i segmenti della propria collettività che hanno contribuito a questo successo, è stata in grado d’affascinare come nessun’altra concorrente il proprio pubblico all’estero.
Seguendo qualunque organo d’informazione, dai telegiornali ai programmi televisivi piuttosto che un social network qualsiasi; dalla politica alle discipline agonistiche professionali; o ancora le campagne imprenditoriale, parole ed espressioni come: «climate change», «green», «sustainability», «policy», «mission», «story telling», e così via, sono all’ordine quotidiano. Soltanto alcuni degli innumerevoli esempi di modi d’esprimersi che da tempo dominano la scena linguistica italiana. Parole ed espressioni molto spesso utilizzate pure in maniera errata, quando non del tutto inventate, come nel caso del recentissimo e popolarissimo: «smart working», che a Londra, città presa a campione, non esiste. Lavorare da casa propria («lavoro in forma telematica», «da casa») si traduce: «working from home». Tutto ciò dà qualcosa in più della semplice influenza a Stelle e Strisce, consegna una certa assuefazione e smarrimento da parte italiana nell’usare il proprio idioma.
Non c’è giovane, ma anche meno giovane, che non scelga più o meno inconsapevolmente di esternare concetti o parlare di qualsiasi argomento senza utilizzare qualche espressione (parola o struttura sintattica) di provenienza anglosassone. L’Università italiana, dal canto suo, ha sentito la necessità d’utilizzare anglicismi per apparire, forse, più appetitosa agli occhi dei molti. La maggior parte delle didascalie che descrivono i nuovi modelli di lezione in «forma mista» dalla pandemia in avanti, sono stati nominati: «forma blended».
Qualcuno sostiene che alcuni vocaboli si presentino intraducibili poiché nomi assegnati ad invenzioni del mondo anglosassone. A volte non è del tutto sbagliato: si pensi, per esempio, a governance, che in politologia si potrebbe comunque tradurre con “amministrazione”, ma nei sopra citati e tuttavia nella maggior parte dei casi, la questione resta irrisolta e pare risiedere altrove; come ebbe a dire Indro Montanelli: «Vizio mentale ereditato da secoli di schiavitù […] una mancanza di sforzo da parte della stampa dei laici per trovare i corrispondenti termini italiani».
Il “provincialismo” italiano risiede proprio in quella tendenziale maniera di pensare e credere – o inconsciamente anche soltanto muoversi per abitudine – nella proverbiale «erba del vicino». Nel caso peculiare, un senso d’inferiorità particolarmente accentuato verso l’America e l’universo anglosassone più generalmente. Un senso d’inferiorità che già Papini, più d’un secolo fa, riassumeva così: «Vecchia abitudine latina, da Tacito in qua, lodare ciò che appena si conosce per ammonir coloro che si conoscono troppo». In un tempo come quello corrente che presenta la necessità di tornare a comprendere la strategia e a pensare nuove tattiche per fronteggiare le insidie di natura conflittuale e belligerante, è miope la visione di chi crede di risolvere i nodi delle minacce belliche che aleggiano con la sola spesa militare, piuttosto che con un pensiero più consapevole, profondo e strutturato della dottrina militare – certamente importantissimi fattori – senza un approfondimento della cifra culturale che passa per molta parte anche dalla lingua: tratto imprescindibile della collettività.