L'editoriale

I conduttori di asini e l'impresa dello Stato

Nell'intrecciato rapporto fra Stato moderno e capitalismo, l'attuale paradigma vincente è quello manageriale, unico in grado di votarsi alla massima funzionalità del sistema.
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La parola “manager” – pochi lo sanno – non deriva dall’inglese ma dal latino “manu agere” che significa condurre con la mano. Nell’antica Roma stava a indicare la capacità di chi cammina davanti al suo asino e lo guida lungo la strada. Oggi il mondo si è riempito di conduttori di asini: guidano imprese, aziende, ma anche enti e amministrazioni pubbliche. Nell’ultimo secolo, in particolare, il rapporto tra management e governo si è innestato, sviluppato e solidificato. La riforma dell’amministrazione è stata messa in relazione con la tendenza alla razionalizzazione economica. Commercio e industria hanno preteso dallo Stato, o quantomeno hanno cercato di pretendere, una razionalizzazione analoga a quella che hanno attuato nelle loro imprese. Da circa un secolo, dunque, lo Stato e le imprese economiche vengono posti sullo stesso piano e si cerca di misurarle con lo stesso metro. Questo è un fatto che getta una potente luce sulla concezione dello Stato e invita a considerazioni sull’origine e sulla legittimità di questa concezione. Perché la maestà dello Stato, il grande Leviatano, è stata svilita – soprattutto in Europa –dal blasfemo paragone con l’impresa economica?

Hegel aveva esaltato lo Stato come il compimento dell’eticità, innalzandolo a Dio in terra, manifestazione dello spirito; e la scuola storica del diritto con la sua vena di romanticismo aveva fatto dello spirito del popolo, da essa scoperto, il principio vitale dello Stato nazionale, che allora, nel doppio splendore delle armi e della cultura spirituale, sembrava essere uscito come Minerva dalla testa di Giove.

Nello spirito dell’incondizionata devozione verso lo Stato, Leopold von Ranke abbozzò i suoi grandi quadri sul mutevole gioco delle forze tra le grandi potenze; e Jacob Burckhardt, che in sostanza aborriva il potere come male del mondo, pur essendo disposto a riconoscerne la grandezza storica in determinate circostanze, considerò gli inizi dello Stato moderno nel Rinascimento italiano in analogia con un’opera d’arte – come sintesi ideale-estetica di energia meccanica e organica – contro coloro i quali nei secoli XVIII e XIX avevano concepito lo Stato come una macchina oppure come reale persona giuridica di un gruppo sociale.

In contrapposizione a ciò la filosofia della Chiesa cattolica, informata dalle dottrine di Agostino e Tommaso, non ha mai smesso di guardare con sospetto lo Stato moderno, in quanto opera dell’uomo, e di opporsi fermamente a ogni tentativo di divinizzarlo. Tuttavia anche nella letteratura laica esistevano menti raffinate, prevalentemente di formazione giuridica, che sostituirono quell’analogia ideal-estetica dell’“opera d’arte” con la sobria categoria giuridica della “istituzione”, destinata a riempirsi di vita grazie all’elaborazione sociologica di un maestro come Max Weber, fino a configurarsi, sotto una prospettiva dinamica, come “impresa”, distinta da altre imprese istituzionali dall’esclusivo diritto all’esercizio del legittimo potere coercitivo. È una concezione nella quale salta agli occhi la somiglianza tra lo Stato e l’impresa economica, ma per distruggere l’antico alone di sacralità che per gli europei lo Stato possedeva ci volle il crollo morale e politico alla fine delle due guerre mondiali, che ridussero l’idea della sua dignità e maestà fino a rendere ammissibile un tale paragone con l’impresa. Dopo tutti questi cambiamenti non esiste più nessun motivo per coprire ideologicamente il fatto che lo Stato da noi, in sostanza, non è nient’altro che un’impresa istituzionale corredata da potere coercitivo, allo scopo di garantire all’interno e verso l’esterno la possibilità di esistenza e di provvedere a un certo livello di benessere e di cultura. Nelle parole del grande storico Otto Hintze “si potrebbe senz’altro definire lo Stato come un’impresa, evidentemente in senso non economico, ma un’impresa rivolta agli scopi della potenza e del potere”. All’interno del processo storico della formazione degli Stati si manifesta però una differenza nel tipo di impresa, dalla quale dipende in conclusione se nasce qualcosa come uno Stato moderno. Come nell’economia esiste nella vita degli Stati la gestione estensiva e quella intensiva: esistono imprese razionali e imprese non razionali e inoltre numerosi gradini intermedi.

Di solito l’impresa estensiva è anche quella non razionale, in quanto con l’intensità cresce anche la razionalità. Imprese estensive e non razionali sono ad esempio i grandi regni di conquista, che spesso si disintegrano con la stessa velocità con la quale sono stati fondati, perché i mezzi di comunicazione e di potere legati a un primitivo stato di cultura non sono sufficienti per la loro estensione. In questi casi si formano all’interno del grande regno in decadenza Stati più piccoli, i cui mezzi di comunicazione e di potere rendono possibile una gestione più intensiva e più razionale. Intensità e razionalità di gestione sono i segni caratteristici dello Stato moderno come dell’economia moderna. E quando si considerano i fenomeni che la vita economica moderna mostra nell’epoca del capitalismo, in particolare nell’organizzazione dell’amministrazione e del controllo dei conti delle grandi imprese, nella concorrenza delle imprese e nei tentativi di eliminarla o di regolarla attraverso fusioni, cartelli, gruppi industriali – allora ogni cosa ricorda al conoscitore della storia politica tratti del tutto simili della vita degli Stati: le lotte di rivalità, le tendenze federalistiche, l’organizzazione degli uffici e l’amministrazione delle finanze. Prima di tutto, secondo tale prospettiva, la burocrazia moderna riceve una luce del tutto diversa da quella della concezione tradizionale con la sua idealizzazione dello Stato.

Quanti strali ha lanciato il barone Vom Stein contro i “buralisti”, che gli apparivano come una specie di parassiti nel corpo dello Stato e idealisti di bassa fattura. In verità essi sono altrettanto necessari per lo Stato moderno quanto gli impiegati e gli operai per le imprese private. L’organizzazione della burocrazia è un’opera d’arte sociologica di primo rango, che ha necessitato secoli di lavorio. È un’illusione pensare che essa possa essere messa da parte e sostituita da una “auto-amministrazione” quanto lo è il pensiero che la rappresentanza possa essere sostituita dalla democrazia diretta. Lo sviluppo della burocrazia dei partiti in tutti i Paesi parlamentari e democratici dimostra il contrario, il potere moderno abbisogna di strutture e organizzazione. È l’apparato indispensabile di un’amministrazione che si fonda sul potere legale-razionale; il suo schematismo, la sua oggettivazione di tutto quanto è personale costituisce un fenomeno che necessariamente si accompagna all’irresistibile progresso verso la grande impresa. Lo spirito dell’oggettività permea il capitalismo quanto lo Stato. Questa burocrazia rappresenta il pilastro che ha sorretto l’edificio statale quando questo vacillava nei tempi della sovversione e dell’incertezza. Conservarla e perfezionarla è sempre un interesse statale di primissimo ordine.

Al cuore della questione del rapporto tra management e amministrazione c’è dunque quello tra capitalismo e Stato. Questa relazione ambigua è stata ben descritto dallo storico Fernand Braudel:

“Privilegio di pochi, il capitalismo è impensabile senza la complicità attiva della società. Esso è necessariamente una realtà dell’ordine sociale, politico e persino un fatto di civiltà: è necessario perché esso proliferi che la società intera ne accetti, in un certo qual modo, più o meno coscientemente, i valori (…). Lo Stato moderno, che non ha costruito il capitalismo ma lo ha ereditato, talora agisce a suo favore, talaltra ne ostacola i propositi; a volte gli permette di espandersi liberamente, ma in altri casi distrugge le sue risorse. Il capitalismo può trionfare solo quando si identifica con lo Stato, quando è lo Stato.”


– Braudel Fernand, Civiltà materiale, economia, capitalismo, Einaudi, Torino 2006, p. 65.

Questo rapporto “a singhiozzo” tra Stato moderno e capitalismo non è che la storia della dinamica tra pubblico e privato. Quest’ultimo abbisogna del primo perché il potere politico garantisce ordine e certezze giuridiche, ma il pubblico può decidere se limitarsi a dettare regole che lascino più spazio al privato o se, invece, assumere una iniziativa economico-imprenditoriale. In ogni caso, seppure in modo diverso, i gestori del privato e quelli del pubblico si interfacciano e intrecciano tra di loro.

Una storia che inizia da lontano come sottolinea lo storico militare Parrott: “Fino alla metà del Diciottesimo secolo, la risposta dei governi europei a una guerra su scala più ampia, più costosa e più impegnativa dal punto di vista organizzativo non fu lo sviluppo dello Stato e il rafforzamento del suo monopolio sulle forze militari, quanto piuttosto una serie di esperimenti con varie forme di subappalto militare o, in sostanza, di partnership tra pubblico e privato”.

Il punto di contatto intimo tra questi due elementi è bene illustrato da un altro storico, Otto Hintze: “Lo Stato ci appare come “istituto”, se lo consideriamo come qualcosa di stabile, dunque di statico, come sistema d’energia potenziale; ci appare invece come “impresa” in una considerazione dinamica, come sistema d’energia in funzione”.

Con il capitalismo, si ha la transizione dallo status dell’artigiano nella corporazione e del mercante nella gilda a un’impresa radicata nella mira individuale al profitto che organizza il lavoro sulla base del contratto salariale e si orienta ai prezzi in vista del profitto. Il capitalismo non è stato forgiato dallo Stato, il suo punto di partenza è completamente diverso da quello della politica economica statale, ma in collegamento con lo Stato, da questo difeso e sostenuto, è cresciuto fino a diventare la forma economica decisiva. Questa dinamica si rivela soprattutto nel corso della trasformazione industriale del Ventesimo secolo. La progressiva industrializzazione del mondo; l’espansione della stessa forma economica capitalistica e il suo mutamento in quella già definita da Sombart come “tardo capitalismo”, con il mercato vincolato dai sindacati operai, dai compensi tariffari, dai sindacati padronali, dai cartelli; con l’imprenditorialità burocratizzata dei direttori e dei consigli di amministrazione; con la politica sociale dello Stato, in particolare in situazione di disoccupazione si creano le premesse per un rapporto più stretto tra capitalismo e Stato, per una compenetrazione reciproca.

L’autoregolazione automatica del meccanismo capitalistico, montato su una struttura della società di tipo individualistico, vien meno di fronte ai vincoli collettivistici della prima metà del Ventesimo secolo. Lo si vede dall’emergere di serie discussioni sull’economia di piano internazionale e sulla solidarietà valutaria, dalle garanzie e sovvenzioni statali alle imprese private, dagli inizi di un controllo statale delle banche, dalla connessione necessariamente assai stretta dello Stato e della sua economia finanziaria – che si va propagando in modo tentacolare – con l’economia privata, dove lo Stato non è più soltanto dominato e guidato, come nelle epoche precedenti, dall’interesse politico di potenza, ma dall’interesse per l’assistenza economico-sociale. Si avvia, con ritmo sostenuto dopo il secondo conflitto mondiale, una socializzazione dello Stato, si affievoliscono i confini fra capitalismo e socialismo con un meccanismo moderato dai partiti di massa. Ciò vale per l’Europa, ma anche per le grandi politiche sociali intraprese negli anni Sessanta, seppure sempre in modo peculiare, negli Stati Uniti d’America.

Di conseguenza, lo Stato si è impegnato in una nuova impresa: quella di distribuire e allocare risorse tra i suoi cittadini. È questa missione che ha caratterizzato la vita dello Stato già dal principio del Ventesimo secolo e, in modo più ampio e intensivo, il trentennio successivo alla Seconda guerra mondiale. Pensioni, sussidi, assicurazioni, infrastrutture, sistema sanitario, istruzione pubblica sono i mattoni che lo Stato ha messo insieme in circa mezzo secolo attraversando democratizzazione, guerre e regimi autoritari.

Nel corso della sua storia, dunque, lo Stato si è rivelato un sistema politico altamente adattivo, in grado di adeguarsi a varie pressioni interne ed esterne. Gli Stati si sono adattati al governo democratico e autoritario; a territori grandi e piccoli; alle politiche liberali e a quelle comuniste. In questo processo di adattamento, il vecchio Leviatano ha sviluppato una grande capacità di negoziare e mediare seguendo diversi schemi di razionalizzazione burocratica. Tra di essi, il più influente schema è senza dubbio quello manageriale, paradigma nato nel capitalismo ma capace di espandersi molto rapidamente alle organizzazioni pubbliche, di presentarsi come paradigma oggettivo, neutrale, improntato alla massima funzionalità. La ricerca dell’efficienza e della miglior organizzazione, la compenetrazione con il privato e con l’amministrazione industriale, non cesseranno di movimentare euforie e crisi dello Stato novecentesco. Il Minotauro, con ossa di burocrate e cuore di manager, si distingue per capacità di adattamento.

Articolo estratto da “Il minotauro – Governo e management nella storia del potere” di Lorenzo Castellani, LUISS University Press ©️ 2023 per gentile concessione.

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