Uno degli elementi che più caratterizza l’opera di Italo Calvino è la sua capacità di tradurre in forma narrativa il grande mutamento storico-culturale che coinvolge l’Italia nella seconda metà del Novecento. Calvino, com’è noto, ci lascia quasi quarant’anni di opere, dal 1947 al 1985: quarant’anni che riflettono un periodo storico straordinariamente denso di eventi, crisi, cambiamenti. La sua produzione letteraria assume poi un valore particolarmente suggestivo se consideriamo che il periodo in cui scrive, tra la fine della Seconda guerra mondiale e il crollo del Muro di Berlino, è quello in cui la modernità sembra raggiungere il culmine delle sue possibilità realizzative, e insieme il principio della sua risoluzione postmoderna.
Un’opera di Calvino, in particolare, sembra rappresentare in forma narrativa alcune categorie tipiche della modernità in maniera esemplare: Il barone rampante, scritto e pubblicato nel 1957. Ma cosa s’intende qui con “modernità”?
Della modernità come specifico sistema di pensiero ha dato un’esposizione esemplare Jürgen Habermas. Nel suo Discorso filosofico della modernità (pubblicato per la prima volta l’anno in cui Calvino muore), Habermas individua nel passaggio fra XVIII e XIX secolo il momento in cui il pensiero moderno prende coscienza di sé stesso. “Moderno” sarebbe quindi anzitutto l’ideale di un soggetto umano il quale, tramite il ricorso al libero esercizio della ragione, si emancipa dalla tirannia di ogni realtà che lo opprima – sia essa l’autorità, la tradizione, la superstizione, e persino la natura, se intesa come entità opaca, bruta, meccanica, che determina infallibilmente le azioni umane. “Il mondo […] moderno”, sostiene Habermas, “si distingue dall’antico in quanto si apre al futuro”, mediante un atto rivoluzionario in cui l’impiego della ragione implica fatalmente un processo di liberazione.
Mentre la prospettiva di Habermas sottolinea soprattutto i lati propositivi del progetto storico moderno, Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno, com’è noto, conduce invece a prendere coscienza dei suoi aspetti perturbanti. La ragione umana, chiamata dai due col nome di “illuminismo”, tenterebbe da sempre di asservire tutti gli esseri a sé, in modo da “togliere agli uomini la paura e di renderli padroni”, liberandoli dal dominio oppressivo dell’oggettività naturale. D’altra parte, paradossalmente, essa non può fare a meno di tramandare ciò da cui pretende di liberarsi: in primo luogo, implicando nel proprio meccanismo dialettico quella stessa natura minacciosa che teme e sente il bisogno di padroneggiare; in secondo luogo, finendo per “naturalizzare” anche gli stessi soggetti umani, per poterli meglio controllare e manipolare.
Un’altra potente interpretazione della modernità è quella offerta da Bruno Latour nel suo Non siamo mai stati moderni. Latour sostiene come il pensiero della modernità sia caratterizzato da due strategie complementari. Da una parte, infatti, esso nasce con la radicale divaricazione fra due ambiti ontologici incommensurabili: quello della cultura e quello della natura, o in altre parole, del soggetto e dell’oggetto, dell’umano e del non-umano. Latour afferma poi che è questa stessa differenza fra cultura e natura a consentire, paradossalmente, una proliferazione di collettivi “naturalculturali”, tale come mai si era vista prima nella storia dell’umanità. Se infatti il dominio tecnologico della natura da parte dell’uomo ha come presupposto logico la distinzione fra umano e non-umano, è vero che questo stesso dominio non fa altro che accostare i due in una continua, frenetica interazione, che sottolinea il loro originario stato di ibridità: “Più ci si vieta di pensare gli ibridi”, scrive infatti Latour, “più l’incrocio diventa possibile”. E in effetti, quando mai nella storia, prima che nella modernità, le azioni degli esseri umani hanno avuto un effetto tanto pervasivo ed evidente sul resto del mondo? E quando mai, come oggi, l’agentività del non-umano è stata così fortemente avvertita dalle società umane?
Questa breve rassegna di riflessioni permette di avere un’idea abbastanza indicativa di cosa caratterizzi lo specifico modo di stare al mondo dei moderni. Non sarà difficile, a questo punto, rintracciare alcune di queste categorie, rappresentate in forma narrativa, nel Barone rampante di Calvino.
Il Barone rampante, ambientato nell’immaginaria cittadina ligure di Ombrosa a cavallo fra Settecento e Ottocento (lo stesso periodo nel quale Habermas individua il momento di autocoscienza del moderno), racconta com’è noto la storia di Cosimo, rampollo della famiglia aristocratica Piovasco di Rondò. Nell’estate del 1767, a dodici anni, dopo aver litigato ferocemente coi genitori, il piccolo Cosimo decide di arrampicarsi sugli alberi del giardino di casa, dichiarando recisamente che mai e poi mai scenderà più a terra. L’evento che scatena tutta la vicenda del romanzo è un atto di ribellione contro il principio di autorità, e più estesamente, di insofferenza contro l’inerzia “passatista” di un’intera società. È un atto, dunque, squisitamente moderno. I genitori di Cosimo – il Barone Arminio Piovasco di Rondò, attaccatissimo alle tradizioni, e la “Generalessa” Corradina von Kurtewitz, dai modi bruschi e militareschi – sembrano del resto la parodia di quell’Ancien Régime contro cui si abbatterà tutta la violenza della Rivoluzione Francese qualche decennio più tardi.
Cosimo, dunque sale sugli alberi perché rifiuta le norme che regolano la vita sulla terra. Egli va quindi progressivamente razionalizzando la sua condizione esistenziale inedita, elaborando tutta una sua regola di vita, posta come alternativa a quella dalla quale s’è allontanato. Il pensiero moderno, infatti, non si limita a rifiutare l’acquiescenza immeditata e passiva al passato, ma pretende di immaginare ex novo l’avvenire, fondando tutto un mondo nuovo tramite l’esercizio della ragione. Ecco dunque Cosimo, ormai ambientatosi tra gli alberi e vissute le prime avventure, imparare a cacciare selvaggina e a raccogliere frutta, a costruire rifugi contro le intemperie, a mappare il territorio che va via via esplorando. Egli assume quasi la figura, anch’essa essenzialmente moderna, del pioniere.
C’è poi in Cosimo qualcosa di rousseauiano. Non mi riferisco qui al mito del “buon selvaggio”: Cosimo non mostra neanche per un istante di illudersi che sia possibile tornare a un puro stato di natura, né che tale condizione sia mai davvero esistita. In effetti, il suo essere seguace di Rosseau pare avere a che fare più con la volontà progettuale del Contratto sociale, ossia con l’aspirazione, anch’essa tipicamente moderna, di creare, contro leggi e consuetudini tramandate dal passato, una nuova società retta da principi ragionevoli e fondata su valori di libertà e uguaglianza. E ciò non contrasta col suo stile di vita rustico, da eremita. Infatti, nota il narratore che “bisogna pensare che egli fosse ugualmente nemico d’ogni tipo di convivenza umana vigente ai tempi suoi, e perciò tutti li fuggisse, e s’affannasse ostinatamente a sperimentarne di nuovi: ma nessuno d’essi gli pareva giusto e diverso dagli altri abbastanza; da ciò le sue continue parentesi di selvatichezza assoluta”.
Crescendo fra mille vicissitudini, Cosimo sviluppa dunque una vocazione per la cura della res publica. Da una parte, infatti, egli stringe rapporti con tutti coloro che abitano le terre di Ombrosa, specialmente gli appartenenti alle classi sociali più basse, e si dà a opere di carattere sociale: consiglia i contadini nelle loro attività agricole, crea una squadra di vigili del fuoco per prevenire gli incendi boschivi, guida la difesa della costa contro i pirati turchi, combatte un’invasione di lupi nel corso di un inverno particolarmente rigido. D’altra parte, divora libri su libri con una voracità intellettuale famelica, entra in scambio epistolare coi grandi intellettuali del suo tempo e diventa famoso in tutta Europa per il suo peculiare stile di vita. Infine, elabora persino degli scritti, fra il Progetto di Costituzione d’uno Stato ideale fondato sopra gli alberi, la successiva Dichiarazione dei Diritti degli Uomini, delle Donne, dei Bambini, degli Animali […] e delle Piante […], e vari libelli e gazzette per lo più ispirati alla flora e alla fauna locali.
L’attenzione dedicata da Cosimo sia all’ambito dell’umano che a quello del non-umano testimonia la rilevanza, per Calvino, di un’altra categoria tipica della modernità. In questo senso, il protagonista del Barone rampante sembra addirittura, proprio come il suo autore, muovere un passo al di là di una cornice concettuale “meramente” moderna. Come abbiamo visto, Latour ricorda che essere moderni significa illudersi programmaticamente che sia possibile distinguere in senso assoluto l’ambito della cultura da quello della natura. Tale distinzione consente quindi all’essere umano l’infinita libertà di manipolare l’esistente, e contribuire – inconsapevolmente! – proprio a quella proliferazione di ibridi che smentiscono, con il loro stesso venire in essere, la distinzione fra cultura e natura.
Il personaggio di Cosimo incarna proprio la figura dell’uomo che, obbedendo alle vie della modernità, intuisce il rapporto di interdipendenza che lega già da sempre ab origine umano e non-umano, indicando nuove possibilità esistenziali (e politiche) al di là del moderno stesso. Non sceglie forse, Cosimo, di salire sugli alberi anche per solidarietà nei confronti delle lumache seviziate da sua sorella Battista? E di vivere di raccolta e caccia, in simbiosi con l’ambiente naturale? Non impara egli a conoscere perfettamente gli alberi che gli fanno da riparo, gli danno di che nutrirsi e gli offrono i percorsi tramite cui muoversi? E fra i molti personaggi che entreranno nella sua vita, non ha una posizione tutta speciale il bassotto Ottimo Massimo, fedele compagno di scorribande? Senza considerare il tentativo succitato di elaborare una carta dei diritti degli umani e dei non-umani, un’anticipazione in campo giuridico di quell’“opera concepita al di fuori del self”, a cui Calvino fa riferimento nelle Lezioni Americane: quella, cioè, capace “d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra”.
Ma il Barone rampante non rappresenta solo gli aspetti costruttivi del moderno. Esso, in effetti, ne sottolinea anche gli esiti più inquietanti, specie nella sua parte finale. Non scordiamo che Calvino scrive questo romanzo nel 1957, ossia appena un anno dopo l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica e il suo abbandono del Partito Comunista Italiano. Calvino conosceva assai bene le speranze e le illusioni a cui è soggetto l’intellettuale militante, figura tanto caratteristica dello Zeitgeist moderno, e nella fattispecie novecentesco. Egli traspone questi stessi caratteri nel protagonista del Barone. Cosimo, infatti, non solo fa dell’attività culturale privata, ma appoggia i moti che seguono alla Rivoluzione Francese, pur nel suo limitato ambiente provinciale. Eccolo dunque sostenere le truppe francesi in Italia, combattere fianco a fianco a esse contro gli austriaci, tenere comizi sull’albero della libertà di Ombrosa…
In questa fase di militanza sembra non esserci più spazio neanche per l’incontro dell’uomo con l’ambiente naturale. Anzi, tale incontro, in una simile temperie, può persino produrre effetti dannosi, come quando il plotone di ussari francesi comandato dal tenente-poeta Agrippa Papillon, per la troppo lunga inerzia nei boschi, s’infiacchisce e lascia che muschi, funghi e vegetali crescano sui propri corpi. È Cosimo stesso a testimoniarci: “Persuaso della generale bontà della natura, il tenente Papillon non voleva che i suoi soldati si scrollassero gli aghi di pino, i ricci di castagna, i rametti, le foglie, le lumache che s’attaccavano loro addosso nell’attraversare il bosco. E la pattuglia stava già tanto fondendosi con la natura circostante che ci voleva proprio il mio occhio esercitato per scorgerla”. Soltanto l’intervento del protagonista saprà restituire la truppa all’efficienza militare, liberandola dall’utopia regressiva di un ritorno a uno stato di natura incontaminato.
Calvino non tace dunque affatto l’uso della forza alla quale ogni rivoluzione, se vuole imporsi nella storia, non può rinunciare. Fra i molti episodi di guerra del Barone rampante, risulta emblematico, da questo punto di vista, quello dei tre reduci della Campagna di Russia, uccisi a sangue freddo dagli inseguitori cosacchi nel penultimo capitolo del romanzo. Il movimento della modernità, come ben sapevano Adorno e Horkeimer, suscita sempre necessariamente la violenza – rivoluzionaria o contro-rivoluzionaria che sia. Violenza, del resto, alla cui tentazione non sfugge neanche Cosimo, come quando interpella Viola, all’inizio del romanzo: “No, io non scendo nel tuo giardino e nemmeno nel mio. Per me è tutto territorio nemico ugualmente. Tu verrai su con me, e verranno i tuoi amici che rubano la frutta, […] e faremo un esercito tutto sugli alberi e ridurremo alla ragione la terra e i suoi abitanti”.
Benché a parlare qui sia un bambino, non è forse questo brano una perfetta epitome degli aspetti più inquietanti del moderno? La pretesa di stare dalla parte del giusto poiché ci si ritiene depositari del pensiero razionale più autentico; il rigetto di tutto ciò che non corrisponde a tale modello di logica e giustizia; la convinzione che la violenza sia strumento necessario per portare al mondo il “lume della ragione”… “Ma la terra interamente illuminata”, affermano Horkeimer e Adorno, “splende all’insegna di trionfale sventura”. Essi scrivono queste parole in un periodo storico, di poco precedente alla stesura del Barone rampante, che non può più farsi illusioni sulla problematicità drammaticissima dell’essere moderni. Consapevolezza alla quale pare arrivare lo stesso Cosimo, ormai invecchiato e disilluso, nel capitolo finale del romanzo. Il che non gli impedirà di rimanere fedele al suo giuramento in morte così come era stato in vita.
Il barone rampante non tace nulla del sistema di pensiero tipico della modernità: la rottura con il principio di autorità, l’impiego della ragione per fondare una società migliore, l’uso della violenza rivoluzionaria. Soprattutto, esso sembra alludere all’idea che sia proprio percorrendo fino in fondo le vie della modernità, che diventa possibile riscoprire il legame originario fra umano e non-umano, soggetto e oggetto, natura e cultura, al di là di ogni premessa filosofica rigidamente metafisica. Ma questo è solo l’inizio. Calvino infatti proseguirà lungo tutta la sua opera la testimonianza della modernità, mettendone in luce aspetti specifici e continuando a rappresentarne le categorie in forma narrativa. Il barone rampante è un passo importante lungo questo percorso, che si concluderà in libri come Se una notte d’inverno un viaggiatore e le Lezioni americane, laddove cioè Calvino sfiora la letteratura postmoderna e addita persino la possibilità di una letteratura postumanista.