Il 26 settembre 1920 Mario Carli pubblica su La Testa di Ferro un articolo intitolato Agli avversari rossi e ultra-rossi, col quale si rivolge ai movimenti dell’estrema sinistra, inaugurando un interessante periodo di confronto tra futuristi sostenitori di D’Annunzio ed esponenti dell’anarco-individualismo italiano. L’appello di Carli, rivolto a socialisti e anarchici, muove dall’evocazione di una comune volontà rivoluzionaria e mette in evidenza i punti dell’impresa fiumana che più dovrebbero dimostrare la comune militanza:
“Sarebbe ora che questi avversarii riconoscessero che nel tricolore d’Italia c’è anche il rosso, e che questo rosso, dilatato fino a dominare prepotentemente gli altri due colori, dà il vero senso dei limiti e dei fini verso cui deve incanalarsi la nostra azione rivoluzionaria”.
L’apertura de La Testa di Ferro non rimane senza esito: sono molti, infatti, gli “ultra-rossi” che rispondono all’invito di Carli. Il dibattito viene dunque ospitato in una feconda rubrica, Polemiche di anarchismo, pubblicata dal 26 settembre al 12 dicembre 1920. Le missive degli anarchici dimostrano, in generale, evidenti simpatie nei confronti del futurismo, nel quale ammettono una certa vocazione libertaria. Essi condividono con i legionari di Fiume l’avversione per il collettivismo socialista e l’adesione a un individualismo assoluto. Oltre alle questioni contingenti riguardanti l’interventismo e l’impresa, alcune divergenze fondamentali sembrano però dividere anarchici e legionari, ossia la questione nazionale e il tema della liceità della guerra. Complessivamente, infatti, gli anarchici rivendicano il loro disinteresse nei confronti dell’impresa di Fiume, e rifiutano l’idea che la rivoluzione sia una questione di confini territoriali. Essi invitano la redazione de La Testa di Ferro ad ammettere che voler abbattere tutte le istituzioni “significa volere sovvertire tutto il sistema economico politico sociale, non solo di Fiume o della Dalmazia, o della Italia tutta, ma del mondo intiero”, come scrive l’anarchico Umberto Occa in una lettera pubblicata 31 ottobre. Che Fiume sia dell’Italia o di qualsiasi altra nazione è indifferente, infatti, se “nulla è risolto dell’attuale sistema economico”. Poiché una qualsiasi formazione sociale, precisano gli anarchici, tende inevitabilmente, per sua stessa natura, a ingabbiare nelle proprie istituzioni la spontaneità libera e selvaggia della vita, una guerra rivoluzionaria e insieme nazionale non può portare che a una rifondazione di quella stessa struttura oppressiva che ha tentato in primo luogo di abbattere. In questo senso, per gli anarchici l’unica guerra buona è una guerra di liberazione assoluta e globale. I futuristi vorrebbero, al contrario, fondare la loro visione utopica su una società anarco-individualista, ossia su un concetto palesemente contraddittorio. Scrive il 14 novembre Auro D’Arcola:
“Una Società presuppone un’assetto [sic] regolamentato, normalizzato mutuo o codificato. Società, legge, regolamento, norma, o come si voglia dire, è quanto di più eccellentemente antianarchico ed anti-individualistico vi possa essere”.
Il vero anarchico riconosce infatti soltanto la propria individualità, non condivisibile e non imponibile, e rifiuta scopi, aspettative, fedi: “L’io anarchico non ha confini”, scrive il 7 novembre Renzo Novatore con accenti nietzscheani, “Danza sull’arcobaleno del luminoso universo”. I futuristi, rilanciano gli anarchici, hanno sicuramente dimostrato d’aver abbattuto valori come la tradizione, la morale, la religione. Non rimane loro che l’ultima rinuncia: abbandonare la fede nella nazione e riconoscersi nell’anarchismo puro.
I legionari della Testa di Ferro ribattono. Sulla questione della guerra Carli difende, al di là di ogni ideologia, il carattere “agonico” della vita, cioè la sua natura fondamentalmente conflittuale, e invita a riconoscere che, per quante ragioni si possano accampare, a muovere nel profondo le azioni degli uomini sarà sempre il bisogno arazionale di espandere contro tutti gli ostacoli, e quindi anche con la violenza, il cerchio delle proprie libere possibilità creative. Sostenere la prova della guerra, dunque, diventa per l’uomo la gioia feroce di chi esercita la propria potenza, mentre persino la sofferenza fisica mostra una sua funzione vitale, scaricando nell’organismo anestetizzato dei combattenti una scossa di energia vivificante e risvegliandoli dal torpore nel quale li intrappolava la società borghese. Marinetti, come già aveva fatto in Al di là del comunismo, insiste invece sull’idea che un’azione rivoluzionaria agisca con efficacia solo su una base determinata e familiare: è per questo che la rivoluzione dei futuristi si rivolge all’Italia solamente. In questo senso, egli scrive, quello dei suoi interlocutori è un anarchismo utopistico, mentre quello dei futuristi è un anarchismo pratico. Carli aggiunge poi di non pretendere che gli anarchici vogliano Fiume italiana, ma che almeno riconoscano l’intenzione rivoluzionaria dell’impresa. Egli infatti rifiuta di ridurre l’occupazione ad una questione territoriale, pur rivendicando il diritto dei fiumani all’autodeterminazione. Il grande paradosso del progetto politico promosso da La Testa di Ferro è infatti che l’avversione ad un tipo astratto di rivoluzione universale coincide proprio con la disponibilità a universalizzare la rivoluzione fiumana. L’impresa dannunziana superebbe così, nella sua idealità, la semplice presa di una città, perché è al mondo intero che essa estenderebbe la sua lotta, ma senza imporre le proprie forme specifiche. Secondo le “Teste di Ferro”, infatti, la rivoluzione che sgorga dalla “Città di vita” dovrebbe trascendere il mero “italianismo”, incanalandosi in una costellazione di mille altre rivoluzioni particolari, diverse tra loro e parallele a quella italiana. Terreno comune sarebbe allora l’idea sovversiva in senso lato, cioè la volontà di abbattere le istituzioni vigenti, colpevoli di soffocare i flussi dirompenti della vita, e liberare materialmente e spiritualmente popoli, classi e individui. In questo senso, l’ideale rivoluzionario fiumano non si impone come modello universale valido per tutti, ma si incarna proprio nelle differenze delle varie espressioni rivoluzionarie locali. Tale ambizioso progetto giustificherebbe quindi, secondo i redattori de La Testa di Ferro, un’alleanza di scopo con l’estrema sinistra e gli indipendentisti di tutto il mondo, sotto la comune bandiera di un movimento politico internazionale da contrapporre all’imperialismo euro-americano e alla Società delle Nazioni: la Lega di Fiume. L’insistente apprezzamento de La Testa di Ferro nei confronti dei moti anticoloniali – irlandesi, egiziani, indiani – che dopo la Grande guerra animarono il pianeta sembra finalizzato proprio a gettare le basi di questa alleanza. Se infatti una rivoluzione assume le caratteristiche del popolo che la fa, ogni tentativo rivoluzionario di un popolo che lotti per l’autodeterminazione è degno d’essere sostenuto.
La rubrica Polemiche di anarchismo si risolve dunque con un evidente stallo nel dibattito, dal momento che entrambe le parti rimangono ferme sulle proprie posizioni ideologiche. Ciononostante, La Testa di Ferro continua a manifestare in molti altri modi la sua simpatia per idee e figure del movimento anarchico, arrivando a promuovere progetti comuni sia editoriali (come il lancio del giornale anarco-futurista Vertice, nata da una collaborazione tra gli anarchici Renzo Novatore e Auro d’Arcola, e il pittore futurista Giovanni Governato) che eversivi (come il tentativo, promosso dai legionari Mario Carli e Cesare Cerati e dagli anarchici Annunzio Filippi e Aurelio Tromba, di far saltare la centrale elettrica di Milano il 28 dicembre 1920).
Ad ogni modo, come appare evidente, e come del resto risulta anche dai vari dibattiti ospitati dalla stessa rivista, il progetto rivoluzionario sostenuto dalla Testa di Ferro non è esente da lampanti contraddizioni, prima fra tutte quella che comporta tentare una conciliazione fra nazionalismo e libertarismo. La Testa di Ferro incarnò nelle sue pagine le idee convergenti o complementari di quei movimenti che videro nella Grande guerra motivi rivoluzionari e che la combatterono aspirando ad un rivolgimento materiale e insieme spirituale dell’Italia giolittiana, articolato attraverso lo smantellamento delle vecchie istituzioni e la creazione di una società fondata sull’assoluta libertà creativa, sia individuale che collettiva. Tutto ciò, insomma, per preparare “un tipo di uomo libero e forte, unico e indiscusso arbitro dei proprii destini”, come scrive Mario Carli in un articolo delle Polemiche di anarchismo, pubblicato il 10 ottobre 1920 e intitolato significativamente Crescendo di serenità. I redattori de La Testa di Ferro furono dunque spinti dal loro viscerale adogmatismo ad aprirsi al dialogo più o meno polemico con altre correnti politiche quali il socialismo e l’anarchismo, a promuovere l’alleanza tra ceti medi e proletariato, e a prevedere l’instaurazione di un regime di giustizia sociale e democrazia diretta. Essi evitano di definire i dettagli di tale regime, un po’ per lo spregiudicato pragmatismo che li contraddistingue, un po’ perché non hanno gli strumenti concettuali per farlo, ma della loro sincera vocazione rivoluzionaria e dell’estrema originalità del loro progetto difficilmente si può dubitare.
Abbiamo visto, in conclusione, come uno dei motivi portanti dell’ideale dalla Testa di Ferro sia la promozione di una politica che non solo soddisfi i bisogni materiali delle masse, ma apra a tutti la possibilità di sviluppare le proprie potenzialità esistenziali e creative – di “fare la propria vita come si fa un’opera d’arte”, come recita l’Andrea Sperelli del Piacere dannunziano. Non è un caso che la figura di D’Annunzio emerga con forza nel corso di tutte le pubblicazioni della Testa di Ferro, laddove l’impresa appare soprattutto come una sua opera, militare e legislativa, incarnata dai motivi fondamentali della Carta del Carnaro. La Testa di Ferro tramanda insomma nel suo progetto rivoluzionario il tema dell’arte-vita, vedendo il modello della propria società ideale nello straordinario “ordine lirico” instaurato a Fiume, dove per più di un anno un poeta fu al potere, la politica venne compiuta dal genio creativo e la stessa rivoluzione fu una festa.