Adriatico che si fa costa, sabbia che si fa terra, appennino che sfocia in pianura circondata dalla fortezza alpina. Consonanti morbide e vocali aperte di riviera che si richiudono arcigne e dure assieme al panorama che scorre dal finestrino del treno. Sguardi affusolati, latini ed etruschi d’Abruzzo e di Marche che si fanno cattolici agrari d’Emilia felliniana, sfumando in volti asburgici ed aquilini di Lombardia, si raggrumano occitani in facce di contadini, occhi piccoli e cattivi di generali savoiardi, occhi piccoli e iniettati di sangue, anarchici di Piemonte.
Sei ore di treno, tra un cambio e l’altro, in cui si inscrivono tra i trenta e i quarant’anni della vita di Alfredo Cospito, nato a Pescara nel 1967 e approdato a Torino nei primi anni duemila, a San Salvario, quartiere “bonificato” e compresso tra le due stazioni ferroviarie, Porta Nuova e Lingotto, contiguo alla sede primordiale della Fiat di Corso Dante.
Percorso geografico e iniziatico – quello che da Pescara passa da Bologna e Milano sino alla capitale sabauda – di catechismo rivoluzionario e nichilista per Cospito, costellato da diserzioni, occupazioni abusive, tentati attentati in sperdutissime località del Piemonte profondo, poi l’epilogo della libertà. Oltre al nero su bianco dei verbali, della grazia da parte di Cossiga e delle sentenze dei tribunali, questi trent’anni di vita hanno a che fare con il magmatico dell’ignoto. Su di esso si scontrano come placche tettoniche regimi di verità contrapposti, dove infine a prevalere sugli altri è soltanto uno, quello che si fa monumento. L’esercizio della verità in pubblico è un atto strettamente correlato con il potere e proprio per questo comporta un rischio. A volte il costo può essere la vita, ma il beneficio, è più alto.
Quella di Cospito non è tanto una “grammatica”, quanto una “drammatica” rivoluzionaria, dove non è l’enunciato quanto la sua enunciazione nella sfera pubblica ad incidere sul reale. Una vicenda che ha del quantistico, dati i suoi coni d’ombra, ma a differenza del modello di Schrodinger – dove finché non si solleva il coperchio dalla scatola il gatto è sia vivo che morto – in questo caso sappiamo già come andrà a finire, perché, per Cospito continuare a vivere significherebbe perdere i propri discepoli, significherebbe abiurare. Lo ha annunciato lui stesso nella sua lettera resa pubblica poco tempo fa, una lettera scritta in stampatello, con calligrafia sbilenca, qualche scarabocchio e cancellature qua e là, nella quale l’anarchico spiega che l’essere accusato di dare ordini dalla galera rappresenta per lui un insulto, in quanto gli anarchici non danno, né ricevono ordini e che la sua permanenza nel “cubo di morte” senza poter leggere né vedere una fotografia “non è vita” dunque che “non vita” sia. Sciopero della fame fino alla morte.
Un anarchico sui generis che a differenza di quanto si possa pensare reputa quelli che si riuniscono nei centri sociali dei “falliti”, perché per lui la rivoluzione violenta non è il mezzo, ma il fine. È bizzarro pensare quanto sfortunato sia stato Cospito nell’attentato del 2006, alla caserma di Fossano, uno sperdutissimo paesone della provincia di Cuneo, dove fece il militare Totò per intendersi, che i ragazzini da quelle parti chiamano nell’epica provinciale “Fossangeles”. Due ordigni scoppiati esattamente nel momento sbagliato, fallendo nel loro scopo, vicenda che andrà a sommarsi nella pena di dieci anni di reclusione in seguito alla gambizzazione di Roberto Adinolfi di Ansaldo Nucleare. Una vicenda che sarebbe potuta restare deprecabile, ma che appunto si è fatta “drammatica”. L’inumanità del 41bis, o la legittimità della posizione di Cospito espressa nella lettera, tuttavia, non rappresentano elemento utile per l’analisi della questione.
Fausto Colombo nel suo saggio “verità e democrazia” applica i concetti di parresia e di aleturgia – come rielaborati da Michel Foucault nelle sue ultime lezioni al College de Paris – in un’analisi delle narrative sviluppatesi nella sfera pubblica italiana durante la pandemia, nel quale fornisce al lettore alcuni strumenti per interpretare non tanto le finalità di un determinato atto linguistico orientato a far emergere una certa supposta verità, quanto le sue conseguenze sul reale e di come quest’ultimo sia frammentato, come un mosaico, tra giochi di, appunto, verità. È il concetto che Foucault definisce “discorso di troppo”, un enunciato che è riflesso del reale, ma che solo tramite la sua enunciazione va ad influenzarlo a sua volta. Su questo punto Foucault non sostiene che la verità sia necessariamente una costruzione mentale, ma piuttosto che la definizione ad essa attribuita in una data epoca costituisca il solo dato oggettivo per comprendere come essa, la supposta verità in questione, sia stata ricondotta, tramite la sua definizione, in un determinato campo istituzionale e del potere, piuttosto che in un altro, diventando regime di verità.
Far emergere pubblicamente una verità, in quello che è definito processo di “veridizione” o “parresia” – franchezza, parlare franco -, rappresenta un atto linguistico posto in relazione con il potere. Tale atto si concretizza in un gesto, anche fisico, capace di suscitare la reazione di un pubblico, che accetta o rifiuta tale testimonianza. Tale versione, o narrativa, del reale appartiene ad un determinato regime di verità, che può essere vincolante o meno a seconda del fatto che questo sia prevalso oppure no sugli altri ad esso contrapposti, ovvero, che questo si sia fatto “monumento”, per dirla alla Ricoeur. Il regime di verità della verità di Cospito, in questo caso fa presa sui suoi “discepoli” anarchici-nichilisti, banalmente, in contrapposizione alla Legge dello Stato. Un “insegnamento” che Cospito non può permettersi di tradire e dove l’unico modo che ha per restarvi fedele è quello di andare verso la morte attraverso lo sciopero della fame.
Nel libro in questione viene preso ad esempio il caso di Socrate e della sua morte. Il filosofo ateniese che passa una vita al di fuori della politica, rinunciando al coraggio della vita pubblica per portare avanti la sua opera di insegnamento ai cittadini, nell’esercizio del suo ruolo di guida verso la verità. Quando però egli viene condannato, pur avendo la possibilità di fuggire di fronte alla legge egli decide di non farlo, perché altrimenti la memoria del suo ruolo e del suo compito avrebbero guastato e annullato il suo insegnamento a favore delle leggi della Città.
È qui che Socrate beve la cicuta e pronuncia la celebre ed ultima frase prima della morte “Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio: dateglielo, non dimenticatevene”. Se Socrate si comportò in quel modo per non contraddire i propri stessi insegnamenti ai cittadini ateniesi circa la necessità di rispettare le leggi della Città, il caso di Cospito è l’esatto opposto. Cospito non ha rinunciato alla politica, restando pur certo al di fuori delle istituzioni, ma in una lotta violenta attraverso gesti pubblici di condanna delle istituzioni e di veridizione del proprio nichilismo kropotkiniano, esponendosi al rischio, sin dall’inizio, e arrivando in fine ad intraprendere il proprio percorso verso la morte, in quanto unica via per massimizzare l’effetto della sua opera di veridizione. Le ultime parole di Socrate si sono prestate nella storia della filosofia e della letteratura a molteplici interpretazioni, tra cui quelle del poeta e politico francese Alphonse de Lamartine ne La mort de Socrate e quella di Friedrich Nietzsche nella Gaia Scienza, le quali rispettivamente convergono nel rispondere all’enigma sul perché Socrate, insieme a Critone e ai suoi allievi, dovesse(ro) essere in debito di un gallo con Asclepio. Nelle due interpretazioni figura un Socrate che morendo guarisce dalla vita, come sostiene Lamartine, quella vita che è anche la malattia di cui il filosofo ha sofferto sin dall’inizio, come ritiene Nietzsche. Ma è probabilmente l’interpretazione di Georges Duzémil nel saggio Noi siamo debitori di un gallo ad Asclepio a trovare interessante riscontro anche nel caso di Cospito, seppur agli antipodi dell’esempio di Socrate:
«Critone, noi siamo debitori di un gallo ad Asclepio per la guarigione che tu conosci, che ha interessato noi in quanto malati, tu ed io, ed anche, insieme con te, gli altri nostri amici»
Alfredo Cospito conclude la sua lettera scrivendo queste parole:
«Sono convinto che la mia morte porrà un intoppo a questo regime e che i 750 che lo subiscono da decenni possano vivere una vita degna di essere vissuta, qualunque cosa abbiano fatto. Amo la vita, sono un uomo felice, non vorrei scambiare la mia vita con quella di un altro. E proprio perché la amo non posso accettare questa non vita senza speranza»
Cospito per il suo amore verso la vita va verso la morte, nel recinto della legge, come Socrate, ma portando a compimento la sua opera di veridizione suprema, nel suo insegnamento contro la legge in quanto legge – al contrario di Socrate – nel nome della cura e dell’amicizia con i compagni anarchici, al di fuori della società, fedele alla linea, fino alla fine.