Intervista

«Questo secondo mandato salda quel rapporto consolidato tra ideologie anarco-capitaliste, individualismo economico, libertarismo sul tema dell’espressione e conservatorismo sociale che Elon Musk, con X, propaganda». L'elegia trumpiana secondo Andrea Muratore

«Questa crescente consapevolezza politica necessita ora di concretezza: se i fatti non seguiranno le parole, l’Europa rischia di subire direttamente le fragilità e i conflitti di una superpotenza che deve capire il rapporto futuro tra sé e il resto del mondo. Una domanda che va oltre Trump e parla all’essenza strategica dell’America.»
«Questo secondo mandato salda quel rapporto consolidato tra ideologie anarco-capitaliste, individualismo economico, libertarismo sul tema dell’espressione e conservatorismo sociale che Elon Musk, con X, propaganda». L'elegia trumpiana secondo Andrea Muratore
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Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali americane e torna alla Casa Bianca dopo quattro anni. Il Trump 2.0 è in preparazione e si prospetta ricco di svolte e scenari interessanti. La vittoria maturata contro Kamala Harris è di ampia portata e per commentarla ne discutiamo con l’analista geopolitico ed economico specializzato in scenari americani Andrea Muratore.

Muratore, Trump vince e torna alla Casa Bianca. Dove nasce il Trump 2.0?

Nasce nell’America profonda dove si è radicato il trumpismo originario, ma non solo. Nasce anche dalla somma tra le fasce tradizionali di elettorato e una spinta di The Donald a conquistare voti anche nelle fasce periferiche delle città e nelle minoranze. Notiamo Trump sovraperformare tra i latini: vince Miami-Dale, roccaforte latina della Florida conquistata con un invidiabile +13%. Vince Starr, contea del Texas al 97% ispanica dove i Repubblicani non trionfavano dal 1892. E vince anche e soprattutto perché Kamala Harris non ha capito Joe Biden.

In che senso?

Joe Biden aveva costruito una coalizione elettorale che aveva permesso di consolidare un elettorato eterogeneo. Il partito di “Main Street” è stato sottratto da Biden a Trump nel 2020, ed è tornato in dote a The Donald quest’anno. Trump si prende gli Stati in bilico, la Rust Belt, le aree che già nel 2016 lo sospinsero verso la Casa Bianca. Harris avrebbe potuto rimettere il lavoro e l’occupazione al centro della sua agenda. Poteva parlare, come ha fatto Biden, di piani come l’Inflation Reduction Act, il Chips Act e altre strategie industriali. Non lo ha fatto, o lo ha fatto in maniera solo velata. Ha perso la componente della coalizione presidenziale vincente nel 2020 che alla prova dei fatti si è rivelata decisiva.

-Trump interpreta dunque un’America periferica e dimenticata?

La interpreta sentendone le paure, le domande di protezione e la necessità di sicurezza. Da qui a dire che possa essere la risposta ai suoi problemi ne passa di acqua. L’America che vota Trump è plurale. C’è quella di Clint Eastwood, del patriottismo spesso grezzo ma autentico delle periferie e del trauma identitario dello shock da modernità e globalizzazione; è quella di John Steinbeck, la provincia rurale che non si sente rappresentata dalle città cosmopolite; è, anche se a The Boss non piacerebbe ammetterlo, quella degli “eroi” delle canzoni di Bruce Springsteen, di “My City of Ruins”, l’America che cerca un senso di rivalsa per la perdita della centralità industriale e produttiva. Una centralità industriale e produttiva che Trump promette di riportare, ma le crisi di Intel e Boeing ci insegnano destinata a essere impresa ardua, che però cozza con l’altra America trumpiana. Ovvero l’America dei miliardari.

Elon Musk, l’uomo più ricco al mondo, saltava di gioia per The Donald. Un fenomeno non isolato il suo?

Esatto. E non solo perché è Elon Musk. Il Trump 1.0 era un leader che cavalcava una retorica nativista, nazionalista, dai toni isolazionisti. Il Trump 2.0 ha plasmato attorno a sé un Partito Repubblicano di cui Musk rappresenta un animatore ideologico. Il Trump-bis, insomma, salda quel rapporto consolidato tra ideologie anarco-capitaliste, individualismo economico, libertarismo sul tema dell’espressione e conservatorismo sociale che Musk, con X, propaganda. E che sta avendo il suo laboratorio nell’Argentina di Javier Milei. Tutto con un assunto: Trump is good for business. Per questo motivo la sua campagna è stata tra le più finanziate dai miliardari della storia americana. Quanti hanno sentito parlare di Timothy Mellon? Pochissimi. Eppure questo facoltoso magnate 82enne ha donato 150 milioni di dollari a Trump. Eletto presidente con i voti della periferia e gli applausi dell’élite di Wall Street, come dimostra l’endorsement del CEO di BlackStone Stephen Schwarzmann. E aggiungo un dato.

Prego…

Musk salda attorno a Trump, assieme a Peter Thiel, fondatore di PayPal e Palantir, un nuovo complesso industriale-tecnologico, con riflessi securitari. Come ben spiega Alessandro Aresu in “Geopolitica dell’intelligenza artificiale”, è un settore di investitori e ricercatori che non guarda con stigma la collaborazione con l’industria militare e vede nel governo sia un facilitatore di business che, ovviamente, un primo contraente. L’uomo che nella complessità della sua figura incorpora il legame tra questo mondo e Trump è il vicepresidente, J.D. Vance.

Già, Vance. Che impatto ha avuto?

Importante nel portare all’ovile trumpiano un elettorato delle periferie che forse era disilluso dopo due tornate in cui le sirene di The Donald non avevano prodotto cambiamenti totali nel suo tenore di vita. Vance incarna quell’America profondamente radicata nelle aree di consenso tradizionale per Trump. Proveniente da una famiglia del Kentucky, ha vissuto la precarietà tipica delle comunità colpite dalla deindustrializzazione, in quella che tra gli anni ’80 e ’90 si trasformava nella “Rust Belt” – la cintura della ruggine dell’America post-industriale. Queste aree del Midwest e dell’entroterra statunitense, un tempo fulcro della manifattura, sono state marginalizzate dall’avanzare della globalizzazione. La transizione ha acuito il divario sociale, favorendo alcuni centri urbani come quelli californiani, mentre relegava la classe media bianca di molte zone interne alla precarietà economica e all’isolamento.

-Vance ne parla in “Elegia Americana”. Ha influito?

Senz’altro. Questa parte del Paese, nota come “flyover America” (America sorvolata), ha vissuto una crisi di identità, caratterizzata da povertà, aumento delle dipendenze, e dall’esplosione dell’emergenza oppioidi, con la sensazione di perdita della tradizionale sicurezza sociale ed economica. Trump ha scelto un vice che ne sente il polso, ha esperienza militare, da scrittore, di business, è un figlio di questa America che “ce l’ha fatta”. E inoltre è cattolico, fattore che elettoralmente nessun presidente può permettersi di trascurare nella sua squadra.

Roma, Novembre 2024. XXI Martedì di Dissipatio

Che America, in definitiva, si presenta di fronte al mondo dopo questo voto?

Innanzitutto un’America che può e deve specchiarsi su sé stessa. Scoprendo che forse oggi alcune fratture sono meno dolorose. C’è un confine meno netto tra i due elettorati e i due mondi. Questo anche per la “territorializzazione” del Paese dato dalle guerre culturali, che ha prodotto un effetto di risposta. Ma soprattutto, l’Impero è tra Marco Aurelio e Commodo. A Trump, che nel suo discorso di festeggiamento ha dichiarato di voler “terminare tutte le guerre” l’onore e l’onere di capire chi vuole essere”

In che senso?

Nel senso che la leadership impone serietà e strategia. E questo vale sia sul fronte interno che, soprattutto, su quello internazionale. The Donald ha lasciato il potere da incendiario sul fronte nazionale, nel 2021, ritornerà da auto-definito pompiere, sul fronte globale, nel 2025. L’impegno del suo secondo mandato sarà gravoso. Le guerre in Ucraina e Medio Oriente pressano. Il ciclo di riarmo globale mostra un mondo in pre-conflitto. Le relazioni con la Cina saranno tutte da valutare, e tra sanzioni tecnologiche e riarmo non è che Biden abbia disconosciuto il primo Trump. Che cosa vorrà essere la superpotenza americana nel prossimo futuro è materia di discussione. Il presidente eletto dovrà, al contrario di quanto fatto nel 2016, operare una grand strategy. A partire dal rapporto con gli alleati, andranno stabilite scale di priorità nelle minacce e nelle possibilità di proiezione della superpotenza americana.

Cosa significa questo per l’Europa?

Il sistema elettorale americano, con la sua struttura di “swing states” chiave, concentra il potere decisionale in poche comunità locali, come l’Ohio di ieri e la Pennsylvania di oggi. La domanda che sorge, guardando questo processo dall’Europa, è se possiamo accettare che siano pochi stati con logiche interne a influire così pesantemente anche sul futuro europeo. Immedesimandomi nei leader europei risponderei negativamente. 

L’effetto Trump impatterà su sicurezza ed economia?

Sul fronte della Difesa, vale quanto ha detto, fuori dai denti, il generale David Petraeus alla fine dello scorso anno in una conferenza. “Non lo stiamo facendo solo per il bene del resto del mondo”, ha affermato parlando della proiezione militare in Europa e non solo. “Lo stiamo facendo perché è nel nostro interesse nazionale, nel nostro interesse di sicurezza, nel nostro interesse politico e nel nostro interesse economico. Questa è una delle fonti della nostra prosperità”. Trump ragionerà su quest’ottica e ogni pensiero di un ridimensionamento dell’imperium militare è remoto. Sul piano economico proseguirà la strategia consolidata di tre amministrazioni.

Trump e Biden come Obama?

Si. Negli ultimi anni, gli Stati Uniti hanno dato un forte impulso all’autosufficienza industriale e tecnologica, una strategia sviluppatasi inizialmente con l’amministrazione Obama e poi consolidatasi sotto Trump e Biden. Questo obiettivo ha portato a massicci investimenti in settori di importanza strategica, tra cui semiconduttori, intelligenza artificiale, energie rinnovabili e veicoli elettrici. L’idea di fondo è ridurre le vulnerabilità economiche e migliorare la competitività americana, con tre obiettivi principali: fermare la crescita cinese, rompere la saldatura tra l’Europa e le economie rivali (Russia in campo energetico, Cina in quello manifatturiero), rilanciare la produzione interna negli Usa. Questo processo si è consolidato con Trump e Biden. E finora il dinamismo americano non ha ridotto il valore delle esportazioni europee verso gli Stati Uniti, che è cresciuto in modo significativo: dai 400 miliardi di dollari nel 2016 (anno dell’elezione di Trump), si è passati a 495 miliardi durante la sua presidenza e a 522 miliardi nel 2022, dopo la pandemia e sotto l’amministrazione Biden. Ma l’Europa perde sul piano strategico, e questo non può più durare in una fase in cui gli Usa con nuovi settori, dalla microelettronica all’Ia, passando per le filiere del green e dell’auto elettrica, vogliono giocare una partita di primo peso anche in campo manifatturiero. La sfida per l’Europa sarà quella di riuscire a consolidarsi nella catena di valore per settori strategici come il farmaceutico, il green, l’energia, la microelettronica e le infrastrutture, per mantenere la propria rilevanza commerciale con gli Stati Uniti anche nel futuro. E Trump o Harris questa sfida sarebbe rimasta comune.

Meno dipendenza sistemica dunque, come obiettivo?

Esatto. Negli ultimi mesi, figure di spicco come gli ex premier italiani Enrico Letta e Mario Draghi hanno evidenziato la necessità di una maggiore indipendenza europea. A questi si sono aggiunte voci autorevoli come il premier polacco Donald Tusk, che ha affermato che il destino dell’Europa deve dipendere anzitutto dagli europei, e il ministro francese Benjamin Haddad, il quale ha sottolineato che non possiamo lasciare la sicurezza del continente in balìa degli elettori americani di stati come il Wisconsin ogni quattro anni. Questa crescente consapevolezza politica necessita ora di concretezza: se i fatti non seguiranno le parole, l’Europa rischia di subire direttamente le fragilità e i conflitti di una superpotenza che deve capire il rapporto futuro tra sé e il resto del mondo. Una domanda che va oltre Trump e parla all’essenza strategica dell’America.

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