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Il corpo morto dello Stato

Se l'unico scopo del potere è quello di legittimare sé stesso, allora è fondamentale creare sistemi solidali alternativi che guardino ai propri membri, invece che alla perpetuazione del dominio elitario.
Se l'unico scopo del potere è quello di legittimare sé stesso, allora è fondamentale creare sistemi solidali alternativi che guardino ai propri membri, invece che alla perpetuazione del dominio elitario.
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Oggigiorno siamo abituati a sostituire immediatamente un oggetto rotto, anziché ripararlo; eppure, alla realizzazione della viva scontentezza per ciò che di immateriale ci circonda, non segue lo stesso rapido zelo. Questo perché modificare un’organizzazione così complessa, come le strutture socio-politiche che dettano l’agire, appare un’impresa troppo ardua per un solo essere umano. Quindi, seppur controvoglia, ci adattiamo come meglio possiamo.

In questo senso, l’antropologia può venire in soccorso. Gli antropologi Marcel Mauss e Pierre Clastres, infatti, hanno gettato le basi per una «teoria del contropotere rivoluzionario». Nel classico discorso rivoluzionario un «contropotere» è un insieme di organizzazioni sociali contrapposte allo Stato e al capitale: dalle comunità autogestite ai sindacati di base, fino alle milizie popolari. Quando organizzazioni del genere si ergono di fronte allo Stato, si parla di una situazione di «doppio potere». Tuttavia, i due antropologi suggeriscono qualcosa di più radicale: ovvero la realizzazione di organizzazioni capaci di garantire che figure del genere non compaiano sulla scena. Nonostante i buoni propositi, infatti, si tratterebbe pur sempre di uno scontro tra interessi divergenti, come nel caso della Rivoluzione francese, durante la quale un potere è stato semplicemente sostituito da un altro, senza per questo creare una società egualitaria.

David Graeber (uno degli antropologi più innovativi degli ultimi decenni, che fu esponente attivo del movimento Occupy Wall Street) ha sostenuto che questa turbolenza derivi, in una certa misura, dalla natura stessa della condizione umana. Lo Stato, in qualunque sua forma, è un potere oppressivo; nelle tribù dell’Amazzonia, per esempio, l’idea che un adulto possa dire a un altro adulto cosa deve o non deve fare è impensabile. Viene da domandarsi se ci si possa sbarazzare dell’oppressore senza che l’intera società cada preda del caos, creando uno Stato-Nazione dal quale venga sradicato il governo. Forse è possibile, ma certamente ciò non verrebbe consentito in alcun Paese del mondo. Lo scopo del potere è quello di proteggere la propria legittimità a qualunque costo, anche facendo ricorso all’uso della violenza (come vediamo accadere oggi in Francia).

Secondo questo assunto, dovremmo pensare che non esistano forme di anarchismo praticabile. Eppure non è così. Il filosofo russo Pëter Kropotkin, definisce l’anarchismo come una teoria della vita e del comportamento secondo cui la società è concepita senza governo, risultando l’armonia di tale società non dalla sottomissione alla legge o dall’obbedienza a un’autorità qualsiasi, ma da liberi accordi stabiliti tra gruppi numerosi e diversi, su base territoriale o professionale, liberamente costituiti per la necessità della produzione e del consumo, come anche per soddisfare l’infinita varietà dei bisogni e delle aspirazioni degli uomini civili.

Prima di pensare che questo concetto sia totalmente inapplicabile alla realtà, bisogna riflettere attentamente sul fatto che il concetto di «rivoluzione» ha perso inesorabilmente di importanza nell’uso ordinario. Infatti, ormai abbiamo una rivoluzione a settimana: rivoluzioni nei servizi di credito, rivoluzioni cibernetiche, rivoluzioni mediche… Ma dietro tutto questo si nasconde un errore logico che si basa sull’ipotesi che il cambiamento sociale e tecnologico prenda la stesa forma della «struttura delle rivoluzioni scientifiche» (come il salto dall’universo di Newton a quello di Einstein). Di fatto, se la realtà si riferisce a qualcosa, questo qualcosa è proprio ciò che non può essere interamente racchiuso nelle nostre costruzioni mentali. Le nazioni, le società, le ideologie, i sistemi chiusi… niente di tutto questo esiste veramente. La realtà è sempre più caotica di così, anche se la fiducia in concetti come questi fornisce un’innegabile forza sociale.

Un’azione rivoluzionaria è, di fatto, qualsiasi azione collettiva che affronti e respinga una forma di dominio e di potere, e che nel frattempo, alla luce di questo processo, ricostruisca nuove relazioni sociali all’interno della collettività. La storia dimostra che la continua accumulazione di atti di questo tipo può cambiare (quasi) qualsiasi situazione.

Il capitalismo, ad esempio, è fondato su una correlazione tra un sistema salariale e un principio di ricerca continua del profitto come fine in sé, e le élite fanno il possibile per garantire l’esistenza di questa struttura. Infatti, al contrario di quello che si possa pensare, la mobilità sociale non è un evento che si verifichi poi così spesso. Dunque, anziché impiegare il tempo nel tentativo di entrare a far parte di quella cerchia ristretta, sarebbe opportuno fare di tutto per creare un sistema alternativo di collaborazione con gruppi di persone che abbiano gli stessi ideali.

L’etnia dei Tsimihety del Madagascar rifiuta apertamente alcune forme del potere dominante. La leggenda vuole che ogni volta che essi venivano a sapere dell’arrivo dei rappresentanti reali, salivano tutti a bordo delle loro canoe e aspettavano al largo fino a quando gli emissari del re non se ne erano andati. La «teoria dell’esodo» sostiene che la maniera più efficace per opporsi al capitalismo e allo Stato liberale non è lo scontro diretto, ma ciò che il filosofo Paolo Virno ha definito «ritirata impegnata», ovvero la diserzione in massa di chi desidera creare nuove forme comunitarie. Insomma, l’importanza della fuga dal sistema ci fornisce un modello di funzionamento delle forme alternative di azione rivoluzionaria. Nel frattempo, è certo che alcuni Stati e alcune élite cadranno a corpo morto a causa del proprio peso e così, anche in assenza di uno scontro diretto, si potrebbe riuscire a neutralizzarne gli apparati.

In sostanza, il fine non è di sostituire un sistema considerato sbagliato con uno più giusto, ma quello di semplificare gli accordi sociali ed evitare che le vittime di violenza strutturale rivolgano lo sguardo ai beneficiari di quella stessa violenza, ovvero le élite, piuttosto che a sé stessi. La storia del capitalismo è passata dall’attacco alle forme conviviali e collettive di consumo alla diffusione di forme di consumo altamente individualizzate, e questo altro non è che un modo per vedere le merci.

Scardinare questo meccanismo sarebbe possibile se ogni singolo individuo si impegnasse a immaginare e promuovere progetti collettivi (anche minuscoli), in modo che questi, con il tempo, diventino un’identità comune, attraverso quella che possiamo definire una «pratica intellettuale rivoluzionaria» dotata di una propria etica. L’unica via d’uscita, insomma, è quella di accettare che le forme di organizzazione anarchica non assomiglino in nulla a uno Stato, ma lasciare che rimandino a una miriade di comunità, associazioni, reti, progetti, su scala quanto mai varia, che si sovrappongono e si intrecciano in ogni maniera immaginabile, e magari anche in modi ancora inediti.

Il motivo per il quale dovremmo tentare questa coraggiosa impresa, risiede in una frase di Jonathan Feldman: «Se non sei un utopista, sei un pirla».

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