Paolo Cirino Pomicino sa. Sa i nomi di chi ha consegnato il paese nelle mani del capitalismo finanziario e delle grandi corporazioni internazionali, sa le ragioni che hanno portato al crollo della Repubblica dei partiti e alla fine del primato della politica in nome della primacy del regno della tecnica e della società di mercato. Sa chi sono i predicatori che hanno diffuso la grande menzogna di una classe politica corrotta e incapace che da Tangentopoli ad oggi ha causato direttamente ed indirettamente il totale collasso industriale e culturale di una nazione ridotta a grande magazzino degli interessi internazionali, pur portando avanti la narrazione falsa di una prima Repubblica impotente e debole, mafiosa ed affarista che non c’entra nulla con quella descritta dai fatti, dai dati, democratica, sovrana, in espansione, contro quella nuova e già abortita fatta di neon e tecnici, assalti giudiziari e comunicazione trash. Pomicino sa tutto questo e fa i nomi, perché ne ha le prove, perché ha visto il crollo del suo sistema politico da vicino, da protagonista e lo mette nero su bianco nel suo ultimo libro Il grande inganno. Controstoria della Repubblica italiana (Lindau). Un testo in cui l’ex ministro del bilancio, tra i principali esponenti della corrente andreottiana della DC, decide di ripercorrere e rivedere gli ultimi trent’anni di storia italiana, che hanno visto l’indifferenza del nostro paese sulla scacchiera politica, la totale esternalizzazione del patrimonio pubblico ed industriale nazionale, la disintegrazione dei corpi intermedi che ha aperto la strada alla spettacolarizzazione della vita pubblica ed ha trasformato la politica in una sitcom grottesca a sfondo apocalittico.
Pomicino descrive il fallimento di una classe sovrastante, la quale scruta il paese senza farne parte, più apparato di sistema che classe dirigente istituzionale, che ha affidato la propria selezione politica non all’elettorato, ma alla magistratura, la propria agenda non al parlamento bensì agli indici di borsa. Una Controstoria che racconta la genesi di un disegno politico capace di fare convergere tecnocrazia ed apparato mediatico, gerarchie postcomuniste e industriali liberal aprendo con L’ulivo la strada ad un grande partito radicale di massa, liberista, globalitario ed apolide che è diventato il nuovo establishment della Repubblica italiana. Uno scenario in cui l’ex presidente della commissione bilancio della Camera analizza e racconta la diaspora dei democristiani che hanno abiurato il loro spirito per diventare i cortigiani dei personalismi, rimanendo l’unica classe dirigente rimasta al paese. Ho incontrato l’onorevole Pomicino nel suo studio a Roma, mentre sfogliava la storia del partito radicale, mentre lo sfoglia mi fa notare che per i partiti della seconda repubblica non saranno necessari libri e saggi, ma opuscoli o brochure.
-Onorevole Pomicino Lei ha vissuto molte vite, quella del politico quella dello studente e quella del medico. Come è passato dalla sua carriera di medico a quella di politico?
Ho iniziato a fare politica perché anche negli ospedali in cui lavoravo arrivò il ’68. All’epoca gli operatori della sanità erano carne da macello, vittime dell’instabilità e di condizioni economiche modestissime e il vento del cambiamento cominciò a soffiare anche nelle corsie. In questo contesto, durante una assemblea di medici ospedalieri, mi costrinsero a prendere parola. Ero in quel tempo un po’ balbuziente, e parlai con gli occhi chiusi per non vedere il pubblico. Però raccontai i problemi e le criticità del nostro settore, illustrando la realtà delle cose ed ebbi un buon successo. Così entrai prima in un comitato di agitazione, poi nel sindacato dei medici ospedalieri, la ANAAO ( associazione nazionale aiuti e assistenti ospedalieri ), fino a quando fui eletto nel ’70 in consiglio comunale. A quel punto decisi di passare dalla neurochirurgia alla neurologia, essendo uno specialista in malattie nervose e mentali, e di prendermi sei anni di tempo per capire se continuare o meno a fare politica. Diventai prima assessore e poi nel 1976 deputato. Entrai con 80 mila voti, e fui il primo eletto nella città di Napoli. La DC di Zaccagnini portò molte voci nuove in parlamento, tra cui anche quella di Clemente Mastella che è rimasto tale per trent’anni.
-Ovvero?
Si è fatto imbrigliare dal cancro del personalismo.
-Quale è il grande inganno e come le è venuta l’idea di scrivere questa Controstoria della politica italiana?
Perché in questi ultimi ventotto anni di seconda repubblica ho assistito ad un profondo declino del nostro paese, sia sul piano economico che su quello ordinamentale e politico. Dal raddoppio del tasso di disoccupazione all’aumento della povertà assoluta, fino ad una crescita irrisoria, diventando tra le ultime in Europa, il tutto accompagnato da un debito pubblico che si è triplicato. Un declino assoluto in netta contrapposizione agli odiati anni ’80, che furono un periodo virtuoso e glorioso durante il quale il debito era anche sinonimo di una crescita di oltre il 2,5% l’anno che permise al paese un importante sviluppo economico e sociale. In quella stagione, tra l’altro la prima repubblica sconfisse: il terrorismo, (l’ultimo omicidio delle BR risale al 1988 con De Mita presidente del consiglio), e l’inflazione a due cifre, che fu ridotta attraverso la riforma della scala mobile. Il contrasto con il PCI su questa riforma ci portò al referendum del 1985 vinto dalla DC e dall’intero pentapartito. Nella seconda repubblica la narrazione della prima avvenne con ogni sorta di inganno e mistificazione. Faccio un esempio: è opinione comune che l’instabilità dei governi della prima repubblica fosse la conseguenza del sistema proporzionale, mentre invece il maggioritario avrebbe portato il sistema politico verso maggioranze durature. Nulla di più falso. Il maggioritario servì a spaccare la DC. E così, mentre negli anni ’80 avemmo solo 4 governi (Craxi, Goria, De Mita e Andreotti, oltre alla brevissima parentesi elettorale di Fanfani), dal ‘94 al 2001 di governi, con il maggioritario, ne abbiamo avuti sei (Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema, Amato e poi ancora Berlusconi). In questi ventotto anni abbiamo avuto in totale 16 governi, quasi un governo ogni anno e mezzo e sette volte fu cambiata la maggioranza parlamentare.
Una instabilità totale che non è stata raccontata, come non è stato raccontato che dall’89 al ‘92 abbiamo avuto la più efficace ed efficiente legislazione antimafia del paese con tre grandi scelte fatte durante il governo Andreotti (2 con Falcone ed una senza). La prima fu il decreto Andreotti-Vassalli del settembre dell‘89, in cui raddoppiammo il carcere preventivo per gli imputati di mafia, impedendo cosi ai boss del maxi processo di uscire dal carcere per decorrenza dei termini. Le altre scelte furono l’istituzione della direzione antimafia e il carcere duro, il 41 bis esteso dai terroristi anche ai mafiosi. Scelte che furono tutte bocciate dal PCI ma che diedero un grande contributo alla lotta alla mafia. Il programma di protezione dei pentiti nelle mani dei governi del centro sinistra fu sempre molto lassista permettendo che dal 1993 al 2005, circa 10 Mila mafiosi, camorristi e ndranghetisti fossero liberati dal carcere con una nuova identità. Il tentativo permanente degli eredi del PCI fu quello di raccontare, invece, come l’Italia dei primi quarant’anni della repubblica fosse stata governata da dei mafiosi e dei corrotti. Oggi quel grande inganno mostra tutta la sua fragilità ed in questi venti anni della seconda repubblica ha preso piede un liberismo selvaggio che ha alimentato il capitalismo finanziario e le grandi disuguaglianze.
-Ci può spiegare il sodalizio tra capitalismo italiano e sinistra postcomunista e quali effetti ha avuto questa alleanza per il paese?
Il vecchio partito comunista rimesso a nuovo, prima come PDS e poi con altre sigle, è stato il compagno di viaggio del capitalismo finanziario, come abbiamo già detto. Senza alcuna reciprocità chi ha governato ha svenduto larga parte del patrimonio nazionale. E’ l’eredità dell’ulivo e poi del PD. Il tutto infine sostenuto da quella minoranza dei procuratori della repubblica diventata un potere di supporto al governo della sinistra politica.
-Come è stato possibile che dopo la caduta del muro di Berlino i vincitori ed i vinti della guerra fredda abbiano avuto dei destini invertiti?
Purtroppo ci sono stati anche degli errori dei vincitori della storia, a cominciare dalla DC, che sottovalutarono l’iniziativa di alcune procure della repubblica. La mancata dichiarazione dei contributi elettorali di tutti i partiti alle camere di appartenenza avrebbe portato alla sbarra i vertici di tutti i partiti tranne naturalmente il partito comunista. Quell’intreccio tra potere giudiziario, potere mediatico, potere economico divenne una miscela esplosiva che modificò gli assetti democratici del paese, il cui degrado dopo 29 anni è sotto gli occhi di tutti. Quello fu sicuramente il primo grandi errore che trasformò i vincitori in vinti. Dalla lega al PD, passando per FDI e FI, i democristiani restano ancora numerosi senza però riuscire a rilanciare un partito popolare. La dispersione dei democristiani è stato uno dei grandi errori di una classe dirigente purtroppo modesta. Il cancro del personalismo autoritario introdotto nel sistema politico italiano da Silvio Berlusconi ha spinto tutti gli eredi della DC a costituire un esercito di piccoli partiti personali senza cultura e senza democrazia e quindi incapaci di incidere in una società inquieta e complessa come quella italiana.
-La fine della prima repubblica coincide con un processo di metamorfosi della politica italiana. Come giudica il passaggio dal primato della politica al monopolio del mercato e della tecnologia?
La politica da 28 anni è scomparsa in Italia. E, come sempre accade, ogni vuoto di potere viene subito riempito da altri poteri, quasi sempre inadeguati al governo di una società moderna. La scomparsa di un sistema di partiti colti e democratici ha portato con sé anche la crisi della rappresentanza. Quelli che pensano di sostituire la politica con governi tecnici devono ricordare ciò che disse trent’anni fa Guido Carli: «i governi tecnici sono o una illusione o sono una eversione ed io non ne farei mai parte».
-Come valuta l’operato di De Mita? E che ruolo ha svolto nella Dc?
Politicamente De Mita crebbe nella corrente di base della sinistra ideata da Enrico Mattei e Giovanni Marcora. Una corrente sensibile agli interessi finanziari ed industriali del nostro paese che nel biennio 92-93 si fece in parte sedurre da quel gruppo del cosiddetto salotto del capitalismo buono di Mediobanca. De Mita si chiamò fuori ed infatti Romano Prodi e Massimo d’Alema nel 1996 non vollero candidarlo nelle liste dell’ulivo, De Mita era e rimane sempre un democristiano di grande qualità.
-Che ricordo ha di Andreotti?
Un grande uomo di governo poco incline alle vicende del partito ma anche un grande parlamentare. Esperto autorevole di politica estera, si impegnò non poco per la costruzione dell’Unione Europea con gli accordi di Maastricht e sulla moneta unica. Rispettato nei circoli internazionali e temuto in quelli nazionali. Fu la preda principale di quel groviglio di interessi che ha ridotto l’Italia in una sorta di protettorato francese irrilevante sul piano internazionale tanto da perdere quel ruolo nel Mediterraneo che aveva consentito all’Italia di essere un punto di riferimento per i paesi nordafricani e dello stesso Medioriente.
-Oggi secondo lei l’Italia è ancora capace di perseguire una politica di frontiera?
No, per nulla. Pensiamo alla Libia appunto. Abbiamo perso qualunque ruolo in Libia, e l’abbiamo consegnata ai turchi di Erdogan e ai mercenari di Putin. Peggio di così!?