OGGETTO: Il giorno della vendetta
DATA: 27 Settembre 2023
SEZIONE: Società
AREA: Italia
L'arresto prima e la morte poi di Matteo Messina Denaro non sorprendono, né soddisfano. Tutto era già stato narrato nel capolavoro più noto di Leonardo Sciascia.
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Capita spesso che i fatti di cronaca non siano sufficienti a far prendere coscienza all’opinione pubblica della tragica profondità di certi avvenimenti che si consumano in un Paese. Quando va creandosi un tale stato di emergenza corre in aiuto a corroborarla la letteratura. Essa ha la capacità di circoscrivere a un episodio, chiaro e mirato, gli innumerevoli campi del possibile, di denunciare per mezzo di personaggi irreali situazioni e fatti sensibilmente reali.

Edito nel 1961, Il giorno della civetta, corse in aiuto agli italiani gridando che la mafia, le cosche e il pizzo, disconosciuti dalla classe politica e ignorati dal tessuto sociale, erano invece un qualcosa di vivo, di pulsante, non sopra, ma sotto la pelle dello Stato. La pubblicazione di Sciascia confermava, al tempo, l’urgenza di colmare un vuoto. A denunciare il fenomeno mafioso, oltre ad inchieste difficilmente digeribili, esistevano solo altre due opere: «I mafiusi di la Vicaria» e «Mafia», entrambe commedie teatrali ormai consunte dal tempo. Con questo racconto Sciascia cercò di raggiungere e informare il grande pubblico, con l’obiettivo di esporre alla luce del sole, una pratica, una forma di prepotenza, evidenti ma omertosamente taciute; ignorate – si potrebbe supporre, velate da una spessa patina di polvere lasciata sedimentare dai giornali – nel resto del Paese.

Al contrario, oggi, del fenomeno mafioso se ne parla moltissimo, sui social, nelle scuole, nelle arene di attualità politica. Il troppo stroppia tuttavia. Se ne perde in qualità. Falcone e Borsellino, gli eroi indiscussi della stagione delle bombe, a celebrarli passivamente, diventano figure sbiadite, giganti di cartapesta: quasi chiunque li riconosce, in pochi sono in grado ricostruire il contesto storico tribolato in cui esercitarono il loro alto ufficio. Le commemorazioni dei magistrati assassinati sono puntualmente ripetute durante l’ultima ora di un giorno di fine maggio in scuole dove il programma di storia termina con il Secondo dopoguerra. Non serve altro. L’encomio passivo e decontestualizzato uccide la memoria di chi si spese per un altro stato delle cose; inibisce la capacità dei posteri di irrobustire coscienza e senso civico. Così emerge il problema.

Recentemente, la morte di Matteo Messina Denaro è stata strombazzata da tv e giornali, quasi che la morte avvenuta in solitudine, con le esequie deposte in una bara da quattro soldi, e i funerali che – si presume – non saranno celebrati con una funzione liturgica, siano una forma di risarcimento a vantaggio dello Stato e dei cittadini. Quasi che quella morte, desolata e in catene, sia una sorta di giustizia con cui, dopo lunghe peripezie, la sorte, sempre dalla parte dei buoni, punisce il cattivo inchiodandolo alla fine che meritava. Ma questo, purtroppo, non è un film americano da happy ending. Gli sconfitti sono i cittadini, sconfitto è lo Stato che porta con sé il fardello di una strana ambiguità. Il vincitore è lui, l’uomo che riposa nella povera bara non levigata in legno d’ulivo.

Le ragioni del suo successo sono enormi tanto quanto le inefficienze dello Stato. Può non ritenersi un vincente un uomo, con mandato di cattura internazionale, inserito nella lista dei dieci latitanti più ricercati al mondo, che nei trent’anni in cui è ricercato in ogni angolo del globo, non ha mai lasciato casa sua, la provincia del trapanese? Ci si può non stupire, da cittadini, quando un uomo da trent’anni ricercato, probabilmente a conoscenza di dettagli circa la presunta trattativa Stato-mafia, viene arrestato proprio quando affetto da un male incurabile, e che entra in coma e muore pochi mesi dopo, senza aver aperto bocca sul suo passato? Ci si può non stupire di una latitanza così lunga, per di più condotta sotto gli occhi di un sistema coordinato di intelligence e forze dell’ordine il quale, diversamente dalla percezione comune, ha dimostrato nei decenni passati di essere una forza molto preparata, in quanto in grado di opporsi alle forme del terrorismo degli anni Settanta e in parte allo stesso apparato mafioso?

Tali interrogativi sono un feticcio in quanto non solo non avranno risposta ma neanche si avvicinano alla consolazione per le sporche malefatte che un personaggio belluino come Messina Denaro e la mafia tutta ordirono nel recente passato. Chi ha letto il romanzo sciasciano avrà forse intuito che l’arresto e la morte del boss, come queste sono avvenute e sono state narrate, coincidono, mutatis mutandis, con la trama e l’esito del romanzo di Sciascia. La finzione ha anticipato la realtà; o forse, più probabilmente, la realtà già era prassi al tempo in cui il maestro di Racalmuto scrisse. Certo è che la vicenda Denaro lascia sedimentare nell’osservatore quel senso di capzioso spaesamento che Sciascia costruì in un passo del perfetto dialogo fra il capitano Bellodi e il capomafia Mariano Arèna.

– «Per lei, vedo, la bellezza non ha niente a che fare con la verità.»

– «La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole e la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità.»

L. Sciascia, Il giorno della civetta, Milano, Adelphi, 1993 (1961), p. 114.

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