Intervista

“Siamo tutti dei voyeur del presente”. Dialogo con Marco Steiner

Divagazioni attorno a popoli e isole.
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Marco Steiner, pseudonimo di Gianluigi Gasparini, romano, friulano d’origine, è stato così battezzato nel fiume dell’Avventura da Hugo Pratt. Marco (da una sintesi di Marlowe e Corto) è stato suo assistente e apprendista dall’89 sino alla sua scomparsa. Non ci dilungheremo qui nell’elencare le opere del signor Steiner, ripeteremmo solo quello che è già stato scritto un po’ ovunque, ad ogni modo il suo ultimo romanzo (il cui valore letterario ha fatto paragonare la scrittura di Steiner a un autore del calibro di Cormac McCarthy) s’intitola Nella Musica del Vento ed è edito da Salani. L’avventura si svolge in Patagonia ed è una storia d’amore tra un cacciatore di Indios e una prostituta argentina. Un’intensa storia d’amore che deve la sua nascita a Tango di Hugo Pratt. 

Ogni qualvolta Marco viene intervistato lo si può osservare seduto su qualche comoda panchina con una gamba accavallata all’altra mentre si sbilancia in un chiasmo quasi imperfetto, una posa quasi dinamica; ci da l’idea di un treno in ghisa foderato in lino pronto a ripartire, a lasciare la stazione in mezzo al vapore e al tintinnare della campanella. Steiner sorride leggero e anche se dopo l’intervista svanirà a bordo della sua barca a vela verso mete lontane, non ha alcuna fretta.

Nella musica del vento (Salani) di Marco Steiner

Signor Steiner, John Donne se andava in giro per il XVII secolo a dire che l’uomo, secondo lui, non era un’isola. Lei che ne pensa?

Penso che, citando Plotino, noi uomini proveniamo da un Universo Altro nel quale, un tempo, entrammo in contatto con un’immensa bellezza, una bellezza primordiale, della quale quando nasciamo abbiamo non altro che un lontano ricordo, ma nel suo ricordare ci frammentiamo. Siamo solo dei frammenti che vagano e che cercano di ricostruire nella vita un’unione di quella che era la bellezza di cui fummo testimoni. La ricerca dell’unità, dell’unione, il discorso delle isole è fondamentale nella dialettica prattiana, nella quale non razionalmente, ma d’istinto prende forma uneroica ricerca fatta di percezione profonda, di leggerezza e di infinite possibilità. Se riflettiamo sul personaggio di Corto Maltese, questi nasce a Malta, un’isola che nel periodo della sua prima apparizione su carta stampata (1967) è in un momento di indipendenza e di presenza al centro del Mediterraneo, luogo d’incontro e via di comunicazione tra uomini che vengono da altri mondi. Nella prima grandissima Ballata del Mare Salato la tendenza all’avventura è verso quella che ricorda un’isola utopica. Giocando tra meridiani e paralleli, come scriveva Eco, Corto Maltese cerca quest’isola dalla collocazione geografica precisa, ma che in realtà non esiste. Da Malta ad Escondida è un viaggio dal reale verso un Altrove. Oggi Corto Maltese rappresenta il senso della curiosità e della ricerca. È il simbolo dell’uomo stesso.

Si spieghi meglio

Come è iniziato tutto nella testa di Hugo Pratt? Abbiamo un ragazzino che è in Africa durante l’epopea coloniale dell’Impero, con il padre che ne indossa la divisa e che viene catturato dagli scozzesi per poi essere deportato in un campo di concentramento dal quale non uscirà mai. Prima di essere portato via dai nemici chiede il permesso di consegnare a suo figlio un libro. Quel libro è l’Isola del Tesoro di Stevenson. Consegnandolo ad Hugo gli dirà: “un giorno anche tu troverai la tua isola del tesoro”. Hugo parte da qui, dal grande romanzo della grande avventura di mare e della grande ricerca, ma soprattutto dall’evoluzione del suo protagonista. L’ultimo viaggio di Pratt nel Pacifico è stato un grande omaggio alla tomba di R.L. Stevenson. Tutto il vissuto e l’immaginario dell’autore veneziano hanno determinano lanascita di questo personaggio. Straordinario per tutti noi, perché rappresenta a mio avviso, l’istinto al movimento, il rispetto per le altre culture, il desiderio di conoscenza e la disponibilità all’imprevisto. Io facevo il dentista, prima, per viaggiare, umilmente. Progressivamente, avvicinandomi a Pratt ho abbandonato la mia vita precedente. Ci siamo riconosciuti nella bellezza di cui parlava Plotino. Lui poi era un genio ed io un discreto artigiano, ma eravamo entrambi di quei sognatori che hanno quegli otto secondi di intuizione e poi quegli ottanta giorni, se non anni, di lavoro. Conobbi Hugo Pratt nell’ottantanove, ma ci vollero molta sabbia nelle scarpe e molto sale da mangiare insieme per diventare veramente amici. 

Come si sente quando qualcuno la definisce come la “Wikipedia di Hugo Pratt?”

Mi fa sorridere perché è ridicolo. Hugo Pratt non aveva certamente bisogno di Wikipedia. In casa sua c’erano più di diciassettemila libri e quando non trovava quello che cercava si rivolgeva alle librerie più nascoste e antiche nel resto d’Europa e del mondo. Pochi giorni fa mi trovavo a Roma nella libreria in cui si recava spesso Hugo, la libreria editrice ASEQ. Parlando con quest’editore (personaggio dai tratti assolutamente prattiani) siamo tornati a ricordare naturalmente i tempi in cui Pratt era ancora vivo ed egli allora mi ha detto: “Che tempi quelli… pensi che ancora mi ricordo di un libro che era venuto a cercare. Cercava un volume sugli indiani massoni”. Era il periodo di documentazione attorno all’opera di Wheeling. Questo per tracciare una vaghissima cifra dell’autore che aveva questo genere di librai di fiducia. Altro che Wikipedia. Certo è che se Pratt fosse ancora qui non si priverebbe della rete globale, che certamente è una risorsa. Preferisco ad ogni modo essere definito garzone di bottega. Può sembrare un termine riduttivo, ma lo trovo meraviglioso, perché assistere alla creazione delle opere di un maestro, senza che lui ti dia spiegazioni, nella sua casa, nella sua bottega con più di diciassettemila volumi, non ha avuto nulla a che vedere con un corso di scrittura creativa oppure con uno di quei master che oggi spopolano tra i giovani. Crescere da un punto di vista letterario in una bottega alchemica è un’esperienza ça passe ou ça cassecome dicono i francesi. O sei disposto ad entrare in quel mondo oppure ne resti fuori, perché si tratta di un’antica trasmissione di saperi, soprattutto in quei momenti dove non c’è nulla da dire. Sono storie, quelle di Pratt, che sono nate da letture, carte geografiche, musiche, film, colori e sapori del mondo.

Colori di un mondo che forse non c’è più, o che comunque è molto diverso dai tempi immaginati dal fumettista veneziano. Eppure, qualcosa di epico sopravvive. Mentre la crisi in Kazakhstan divampava in tutta la sua crudezza, un video ha circolato in rete per un po’. Era girato da un guerrigliero a cavallo. Questi galoppava in mezzo ad altri suoi “colleghi”, anch’essi a bordo dei formidabili animali Kazaki. Il CSTO non era ancora stato mobilitato. Il mondo seppur sotto gli eterni riflettori del presente, inquadrato da infinite telecamere, resta in qualche modo antico, epico. Se riflettiamo ancora sulla prima apparizione di Corto, che ha luogo nel 1967 e l’ultima nel 1989, sono i decenni fondamentali di quello che Hobswan ha definito il Secolo Breve (che poi tanto breve non è stato) la cui fine si supponeva proprio in quell’anno, ma che continua ancora oggi.

Il Crollo del Muro, l’implosione dell’Urss, il grigio diluvio diplomatico, tutte quelle guerre che non hanno mai smesso di divampare ai bordi della pace e Hugo Pratt che dà alla vita l’ultima avventura di Corto, Mū, nella quale si racconta di un continente sommerso dai fondali dell’Atlantico, tra America e Asia, sepolto da un’eruzione vulcanica insieme alla sua civiltà, madre di tutte le altre. Un ponte mitico tra culture sepolto dalla storia che un poco ci ricorda il perché dell’amicizia tra Corto e Rasputin, agli occhi del presente, coppia stranissima se non assurda. Sono due civiltà che si amano e si odiano. Rasputin però, nonostante le sue minacce a Corto, non lo uccide mai, perché in fondo vorrebbe essere come lui. «Rasputin è cattivo, ma non sa di esserlo» dice Corto, ma Rasputin è spesso spietato e senza rimorso quando deve togliersi di mezzo un peso. In un passaggio della Casa Dorata di Samarcanda, i due personaggi sono in Afghanistan, alla ricerca del tesoro di Alessandro Magno. Corto, riprendendo la profezia che gli era stata fatta da un diavolo Yezidi a Van, si rivolge al suo amico: «disse anche che sarebbe stato un viaggio triste dove l’oriente vuole diventare occidente… aveva ragione. Ci sono molte cose che cambiano di questi tempi…». E Rasputin di contro: «per fortuna, non si può rimanere sempre prigionieri del passato come fai tu. Buona notte!». Uno scambio di battute che non è invecchiato, anzi.

Oggi non voglio fare discorsi geopolitici attorno a quello che sta succedendo in Ucraina e in altri drammatici scenari, ma diciamo che la tendenza che caratterizza il Nostro mondo – e che ci richiede il mercato nella sua mercificazione dell’uomo – è quello di avere le genti il più simili possibile tra loro. Le genti come popoli, s’intende. C’è un appiattimento di tutte le grandi tradizioni, delle culture e quindi non si va verso il rispetto reciproco bensì all’inasprimento del capriccio e del desiderio verso un privilegio di cui non si gode e che s’insegue caparbiamente. Non ci si identifica più nel proprio vero essere, ma si persegue l’imitazione di ciò che non si è. Corto Maltese invece coltiva e sviluppa la propria essenza senza voler essere imitato, senza imitare, senza scadere nella politica, tenendosene lontano. Non è individualismo, ma coscienza di sé e ricerca di un’unione, di una bellezza che non sia sterile, bensì una gratificazione e una necessità quasi filosofica, tornando a Plotino. Pratt è visto come il grande maestro dell’avventura, ma io credo che la sua ricerca si sia orientata per lo più verso l’aspetto liberatorio della poesia e dell’ironia. Poesia, ironia e avventura che se non ben miscelate da qualche parte traboccano e non danno un risultato completo. Un uomo che scrive Il desiderio di essere inutile come Pratt, vuole regalarci un momento che non è una fuga, ma l’immersione in una storia decorata dai versi di Rimbaud, di Verlaine, dai versi di suo nonno, poeta veneziano, dagli insegnamenti di usi e costumi di popoli che non sono superiori oinferiori, ma semplicemente diversi. La ricerca dell’unione di questi frammenti porta ad una conoscenza e a una coscienza che rende più liberi. Non voglio citare Proust nel dire “viaggiare non per vedere nuove terre, ma per tornare con nuovi occhi”, ma semplicemente dire che questa è una chiave di lettura del mondo alternativa, personale, quella dell’Avventura. 

E infatti nei tarocchi la ruota, che poi per altro è molto simile al timone di un veliero, simboleggia il folle, la ruota del mondo che gira, e che rotolando ne segue la sua trama segreta, come in Mū, il labirinto che il Professor Steiner studia insieme a Corto per trovare l’entrata del continente sommerso. Quel labirinto disegnato ha un suo doppio originale della Basilica di San Vitale a Ravenna. La casualità, l’avventura sono un labirinto ed un pellegrinaggio al quale il mondo di oggi, almeno il nostro, pare estraneo, disincantato, lontano. Steiner ha viaggiato tra il 2004 e il 2017 sulle tracce di Corto, che poco meno di un secolo prima percorreva quegli stessi itinerari. Le esperienze vissute attraverso queste geografie imperfette lo ha portato ad essere uno degli ultimi scrittori nostrani a scrivere di avventura in mezzo al Mediterraneo.

«Quando quel vento decide di scendere dalle montagne, s’incanala fra Trieste e Venezia e percorre tutto l’Adriatico, poi all’altezza del Canale d’Otranto s’imbottiglia, si comprime, gonfia i muscoli e inizia a spazzare lo Ionio aprendosi come un ventaglio.»

Questa una citazione che viene dalle prime pagine del suo Oltremare, edito da Sellerio, nel quale scrive di un giovane Corto Maltese che s’imbatte nella nostra Sicilia per poi andare verso oriente, prima in Grecia e poi nell’Indocina. Il Mediterraneo è di nuovo un punto d’incontro pitagorico tra le culture e le religioni dei popoli che vi si affacciano attraverso le loro coste e mediante i vari stretti che fanno del Mare Nostrum un medio oceano. Tornando quindi alla riflessione di John Donne viene dunque da pensare che in fondo l’Italia sia un’isola, non una penisola e pure noi italiani. Al contrario di come sosteneva John Donne, l’italiano forse è un’isola, conosciuta e raggiunta dal mondo intero, ma che poi non si riconosce tra i flutti del suo mare, come un isolano che non è capace a pescare. Un’Italia che si specchia nella nordica e pallida Europa e non nello specchio marino nel quale è immersa, insieme con i suoi due occhi. Quello rivolto a Ponente, Genova e quello a Levante, Venezia. E a proposito di Ponente, è ancora aperta e prorogata fino all’8 maggio la mostra a Palazzo Ducale “Hugo Pratt, da Genova ai Mari del Sud”, di cui Steiner stesso ha scritto un’interessante audioguida.

Corto Maltese, dunque, potrebbe essere l’uomo giusto per riportarci nel Mediterraneo?

Credo proprio di sì. Corto entra immediatamente nell’immaginario di un giovane e potrebbe aiutare chi deve raccontare qualcosa di storico, geografico o politico, ad essere capito maggiormente mediante un passaggio fondamentale, quello dell’immaginazione. Lo spirito di armonia tra i popoli che anima il nostro gentiluomo di fortuna è fondamentale per il nostro Mediterraneo. Quando durante la sua adolescenza Pratt entra in amicizia con il servo abissino Brahane, questo diventa suo maestro segreto alla scoperta dell’Africa, quella degli Scorpioni del deserto, ma soprattutto delle Etiopiche. L’osservazione da parte di un giovanissimo Hugo delle divise di tutte le potenze in gioco da quelle parti in quel periodo fece del racconto di Pratt un’opera unica. L’Italia sì, è un’isola dalla quale giungere ad altre isole. Mollare l’ormeggio come recidere il cordone ombelicale e partire per scoprire. La terra, la tua città, la tua famiglia, il tuo universo se ne va lentamente, si allontana e inizia il movimento, la possibilità. Non è una fuga, ma solo una partenza mossa dal vento del cambiamento. L’Italia è fatta di questo. È un trampolino tra più sponde, con un occhio aoccidente, Genova e uno ad oriente, Venezia, proprio nel centro di questo utero marino. Le potenzialità di Venezia, unite alla sua assoluta fragilità, creano la magia di un’Altrove. Si pensi alla Basilica della Salute progettata dal Longhena, con le sue proporzioni assolutamente alchemiche. In Venezia c’è tutto un mondo simbolico, alchemico, magico. In Sirat al Bunduqqyah Corto Maltese cade dai tetti della città nel centro di una loggia massonica, ma si autodefinisce libero marinaio in luogo di libero muratore. Hugo Pratt nelle fotografie più belle è ritratto sui tetti della Serenissima come un gatto insieme ai suoi amici impegnato in brindisi alle stelle, ad un domani migliore. Ildiscorso critico di Gianni Berengo Gardin contro le navi da crociera che dall’alto verso il basso squadrano la Serenissima io lo condivido, anche se va contro diversi interessi, ma Venezia è troppo fragile e preziosa per essere svenduta. 

Però tornando a noi, come diceva Michel Focault in Utopie ed Eterotopie:  

«Le civiltà senza navi sono come bambini i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare. I loro sogni allora si inaridiscono, lo spionaggio si sostituisce all’avventura e lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari»

Siamo diventati tutti dei voyeur del presente e non siamo più capaci di immaginare e partire verso l’avventura

Avventura significa immaginare il domani.

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