Nell’ultimo numero cartaceo della rivista «il Mulino» – il n. 1/23 – il Professor Andrea Ruggeri apre ai suoi lettori il dibattito, proponendo degli «appunti» sulle possibilità e la «fattibilità di una politica estera progressista». In questa sede accogliamo la proposta sviluppando una riflessione e un punto di vista critici rispetto a quanto emerso sulle colonne della rivista bolognese, nella speranza che l’incontro e lo scontro fra diversi punti di vista nonché la proposta di un’analisi alternativa del medesimo oggetto possano essere foriere nell’alimentare un dibattito intellettuale che in Italia langue in modo sempre più cronico, che da sintomo patologico si è fatto, quasi, stato di involuzione fisiologica.
L’articolo di Ruggeri, pur mettendo in guardia il lettore dai «vincoli stabiliti» e, in conseguenza, sullo stringente «pragmatismo delle possibilità» che gravano sulla politica estera, sostiene che questa abbia nutrite possibilità di essere indirizzata in senso progressista. I casi studio – seppure brevi per ovvi motivi di spazio – e la letteratura scientifica – il paper di Van Jackson e il saggio di Michael Walzer – citati per corroborare la proposta non mancano. Tuttavia, essi, denunciano una certa carenza di realismo, e semplificano una realtà astraendola di fatto da quei vincoli oggettivi a cui la politica estera è incatenata. Si badi bene che non si vuol fare l’apologia di quel realismo geopolitico utilizzato fin nei suoi termini parossistici da certe riviste italiane di settore, per la quale si commetterebbe l’errore contrario: l’analisi delle dinamiche geopolitiche condotta in modo asettico, cruda e disillusa, rasenta, al contrario del pezzo edito dal Mulino, un limite illuministico, ossia la sfiducia, forse la totale apatia, nei confronti delle possibilità dell’uomo a salvarsi, a trovare nelle diversità una genuina possibilità di vita civile e aperta al dialogo. Insomma, non si dovrebbe né abbandonare la speranza nella ricerca di una grammatica comune fra attori del mondo, né, al tempo stesso, lasciarsi trasportare da una fiducia spassionata nelle possibilità dei decisori politici – presenti e futuri – ad avere l’influenza, l’autorevolezza e la forza morale di smussare le asperità innate ai rapporti internazionali.
Gli assiomi “elettivi” da tenere fermamente in considerazione quando si studiano le relazioni internazionali e la politica estera sono due, l’uno di natura endogena, l’altro di natura esogena. Il primo concerne quei vincoli genetici fissati innanzitutto dalla geografia, dalla storia e dal particolarismo culturale che il tempo e lo spazio hanno assegnato allo Stato in cui il decisore politico agisce. Il secondo riguarda una condizione certo più duttile ma ancora molto lontana dall’essere totalmente indirizzabile, ossia il rapporto con l’altro. Le volontà politiche nelle relazioni con l’estero sono come un vettore la cui traiettoria sarà continuamente rettifica da una miriade di volontà alternative – chi più contraria, chi più vicina alla volontà di partenza – le quali contribuiranno ad un risultato (quando questo si raggiunge, poiché non è scontato il contrario) che varierà la direzione del vettore, esso sarà una forma di compromesso fra le parti. In geopolitica antefatti ed esiti non coincidono mai.
Scrive Ruggeri che:
Le aree fondamentali per una politica estera progressista, in primis, si basano sulla difesa della democrazia e dei diritti umani, ma anche su un’azione chiara, e ormai necessaria, per politiche sull’ambiente e cambiamento climatico che non possono essere slegate dalla giustizia sociale e dallo sviluppo economico. Si potrebbe anche aggiungere che tale politica deve anche essere femminista, perché solide evidenze empiriche dimostrano che l’emancipazione delle donne in Paesi in via di sviluppo e con transizioni politiche seguono traiettorie di successo che rompono relazioni d’ineguaglianza.
A. Ruggeri, Una politica estera progressista in «il Mulino», vol. 521, n. 1, 2023, pp. 124-33, p. 129.
Tali indirizzi possono essere ricercati – ammesso e non concesso che siano tutti perseguibili allo stesso tempo – solo quando la politica estera di uno Stato aderisce completamente ai suoi imperativi strategici. Non prima. I vincoli della strategia sono semanticamente speculari al diritto naturale; essi sono assolutamente improcrastinabili, si tratta di “valori”, che lo si voglia o meno, aprioristici e determinati, quindi tradizionali, e, tutto sommato – se un’accezione politica li si vuol proprio dare – conservatori, in quanto non è mai il decisore a scegliere la strategia ma la strategia a dettare la linea al decisore. Allo stesso modo, poiché inscritta – per motivi storici e geografici – nel DNA di una nazione, il disconoscimento della strategia nazionale è preludio al crollo dell’intera architettura statale. Diversamente, hanno una funzione subordinata, assolutamente circoscritte al campo delle possibilità, le declinazioni ideologiche attribuite alla politica estera di cui parla Ruggeri nel suo articolo.
Adesso occorre saggiare sul piano empirico quanto definito poco fa. Quali sono i determinismi strategici dell’Italia? Quali ristrettezze impongono? Come lo Stato risponde ad essi? Gli imperativi strategici dell’Italia sono sostanzialmente tre. Il primo, imposto dalla geografia, è la sicurezza dei confini marittimi e, più in generale, del bacino Mediterraneo; il secondo è legato al mantenimento della coesione interna, culturale, linguistica e geografica: esso è un annoso retaggio della storia politica del nostro Paese; il terzo, più recente ma legato alle condizioni climatico-ambientali, impone all’Italia, non essendo un grande produttore di materie prime e risorse minerarie, di trovare uno sbocco ai suoi prodotti lavorati, tipici di un’economia prettamente trasformativa.
Se rispondessimo a questi problemi seguendo linee di pensiero ideologiche, progressiste o conservatrici che fossero, si farebbe ben poco. Esse sono un vincolo vitale, ad esse si risponde con ogni mezzo, poco importa il colore dell’iniziativa che si incarica di soddisfarlo. La tattica, ossia l’adattamento della strategia al contingente, dà, nel caso italiano, risposte certe alle inamovibilità strategiche. Innanzitutto, l’Italia ha risolto il problema dei confini con l’adesione alla NATO. L’appiattimento della nostra politica estera sull’agenda degli Stati Uniti comporta come regalia, che questi, con la loro potente flotta, pattuglino il Mediterraneo, rendendo, inoltre, sicure le rotte commerciali, da Suez a Gibilterra. Il soddisfacimento del secondo imperativo richiede una manodopera continua e può realizzarsi solo quando la politica interna – questa sì politicamente definita – stempera le richieste di autonomia fiscale, o disinnesca i ciclici tentativi di secessionismo, facendo uso del suo monopolio della forza e del diritto. Infine, la ricerca di un mercato illimitato ai prodotti della nostra manifattura è soddisfatta soprattutto dall’eurozona: l’utilizzo di una valuta comune lubrifica e facilita quantitativamente la vendita dei prodotti italiani. Quest’ultima necessità esistenziale, inoltre, s’intreccia con il primo postulato: la piena fedeltà all’alleanza con gli Stati Uniti, suffragata dalla costante partecipazione italiana – sebbene con piccoli contingenti -, sia all’Alleanza Atlantica che alle missioni militari USA in giro per il Medio Oriente, fanno di Washington un sovrano benevolo col suo satellite. Difatti, sebbene non ne abbiano una necessità immediata, gli Stati Uniti utilizzano le loro immense riserve di denaro fungendo da compratore di ultima istanza con gli alleati, impedendo a questi ultimi da un lato di entrare in crisi da sovrapproduzione, dall’altro di attenuare gli effetti di saltuarie crisi economiche.
Il secondo postulato “esistenziale” della politica estera è il rapporto con l’altro. Risulta di per sé evidente come una diplomazia ideologicamente schierata in termini di destra o sinistra, venga necessariamente frustrata dall’attore o gli attori contro i quali certi interessi andranno a scontrarsi; non importa se essi sono linguistici, culturali od economici: i valori sono convenzionali e per usare le parole del filosofo Tzvetan Todorov non è possibile «l’identificazione dei propri valori con i valori in generale, del proprio io con l’universo». È un fatto ovvio, legato all’ontologia della diplomazia: essa è dialettica. Se il rapporto con gli Stati esteri non può mai essere univoco, esso si risolverà in una forma di compromesso. E il compromesso – severa legge della geopolitica – accontenta sempre e solo parzialmente i contraenti. Anche gli Stati Uniti, certamente in possesso di una incomparabile capacità di dissuasione nei confronti dei Paesi ostili, come di una ancor più fiaccante capacità di rettificare le ambizioni degli alleati, è soggetto al risultato limitante del patto.
Le rigidità della diplomazia fanno della colorazione ideologica verso tale esercizio un meccanismo inapplicabile nelle sue componenti sostanziali, ossia ai vincoli strategici e al rapporto conflittuale e imprevedibile che scaturisce dalla relazione con l’attore con cui ci si deve relazionare. Certo nulla impedisce, come indirizzo subalterno agli imperativi summenzionati, di indicare una traiettoria alla politica estera in senso progressista, come ad esempio l’allentamento dei rapporti con le autocrazie o la promozione, nei grandi consessi internazionali, di concrete azioni per la salvaguardia ambientale; tuttavia, la realtà spesso si è incaricata di correggere queste aspettative proprio in quanto le necessità esistenziali di una nazione, il benessere che i cittadini si aspettano di trovare nel loro quotidiano (dalla benzina alla frutta tropicale, passando per le t-shirt a buon mercato o agli smartphone realizzati in Paesi che non rispettano i diritti dei lavoratori), nonché i tornaconti elettorali che gli esecutori politici desiderano realisticamente ipotecare per l’immediato futuro, impediscono – purtroppo o per fortuna – una politica estera concretamente votata a questo fine.