OGGETTO: Caldwell, quel bastardo
DATA: 17 Dicembre 2021
FORMATO: Letture
I suoi romanzi sono catastrofici, depravati, corrotti, scorretti. Per questo nessuno ha più il coraggio di pubblicare Erskine Caldwell
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La prima scena è tutto. Certo. Faulkner quell’anno pubblica L’urlo e il furore, Hemingway, più vecchio di quattro anni, fa cassa con Addio alle armi, ha già scritto il romanzo ‘generazionale’, FiestaMa è lui a scandalizzare, a scandire, degli Stati Uniti d’America, l’incubo, l’uomo galvanizzato dalla violenza, riassunto nella fame disordinata di sesso, scassato dal lavoro, che cerca nell’oblio l’unico Eden possibile.

Nel 1929 Erskine Caldwell, venticinquenne nato in Georgia da un ministro presbiteriano, avi scozzesi, pubblica il primo romanzo. S’intitola Il bastardo. Prima battuta. “Quando Gene Morgan udì parlare per l’ultima volta della donna che era sua madre, essa viveva un centinaio di metri dalla frontiera della California, nella prosperità privilegiata del vecchio Messico. Non era più giovane né così bella come una volta”. La prima scena de Il bastardo è un ragazzo che verifica i propri sentimenti per la madre, trucidata. Non ne sa il nome, ma i nomignoli devoluti al dio eros – “ricordava tutti i nomi di sua madre: Gertie Norfolk, Denver Sal, Rose of Scranton, Big Butt Bessie e così via”. Professione, prostituta. Appena nato, lei cerca di ammazzare il figlio. Lui, quando scopre dove la madre batte, anni dopo, paga e se la fa (“aveva passato la notte con lui senza sapere che era suo figlio”). Che scena capitale, che capovolge i canoni della letteratura americana. Non c’è freno al ludibrio e allo scempio. Gene è un Edipo con diecimila occhi, che guarda in faccia l’orrore. Il romanzo ha la sinistra lussuria di una Pietà rovesciata, volta in mattatoio.

Diciamo che non era ospite fisso al David Letterman Show. Che al posto di un calice di champagne prediligeva una sputacchiera. Che al bizantino valzer degli scrittori da happy-hour favoriva una rissa ai confini dell’impero Usa, marginalizzati dall’aridità, sotto un sole-boxeur. La storia della letteratura statunitense è una specie di perpetua Guerra Civile: da un lato della trincea ci sono i “nordisti”, gli scrittori di città, vaghi, saporiti, intricati e intriganti, gente con un piede a Hollywood e l’altro al Nobel (genealogia fortissima che va da Henry James a Philip Roth e Bret Easton Ellis, transitando per Saul Bellow e Tom Wolfe), scrittori con la erre moscia, consumano tartine parigine con acuta gastrite dostoevskijana. Gli altri sono i “sudisti”, spacconi e selvaggi, rozzi se vi va, di una violenza che spesso sfocia nell’osceno; tuttavia, mentre i “nordisti” pronunciano la fede nel Niente, i condottieri del Sud sono tutelati da un dio minore, gnostico, magnificamente malvagio, che ama il lusso del sangue. La trafila di costoro (che hanno armato l’Incubo Americano) va da William Faulkner a Robert Penn Warren, da John Steinbeck a Flannery O’Connor, da Thomas Wolfe a Cormac McCarthy e Harry Crews.

In questa guerra il sudista più cattivo di tutti è Erskine Caldwell (1903-1987). I suoi romanzi, catastrofici e orridi, corrotti da desideri depravati, sono pericolosi precipizi nel buio dell’uomo. Non c’è un grammo di psicologia (fatale faccenda da “nordisti”), bensì pura (perciò puramente poetica) rappresentazione. Lo si ricorda, per lo meno, per lo spiazzante La via del tabacco (1932), la cui trama è un coacervo di ossessive – e banali – tragedie. La storiella della famiglia di contadini non ha tinte bucoliche né folkloristiche, c’è la moglie morente, la figlia sfigurata e assatanata di sesso, la dodicenne venduta al primo sposo che passa, il sedicenne spedito in pasto alle lussurie di una vecchia per guadagnarci qualcosa (un’automobile).

La virale potenza di Erskine viene santificata da Faulkner (in un incontro pubblico del 1946 lo inserisce nel mazzo, insieme a Steinbeck, Hemingway, Thomas Wolfe e Dos Passos, di quelli che più hanno determinato la sua scrittura) e da Elio Vittorini, che nel 1940 lo mette tra le figurine delle sue traduzioni nobili (con Il piccolo campo). Da Caldwell, Flannery O’Connor piglia la furia grottesca (impara a non avere paura del male più mostruoso, mettendoci di mezzo un Dio), grazie a lui Cormac McCarthy da lattante del verbo diventa adulto (Il buio fuori, piccolo, crudele gioiello del 1968 dipende direttamente da Erskine). Grazie a Caldwell John Huston ha potuto girare la sua pellicola più cruda e drastica (Città amara, del 1971), Quentin Tarantino e David Linch hanno ricavato barocchi e fantasmagorici orrori.

Dopo la genealogia, l’auspicio. Il romanzo più bello di Erskine è, appunto, il primo, Il bastardo, classe 1929, sequestrato dal commercio perché aizzava puritani pruriti. Storia di Gene Morgan, il vagabondo nato da prostituta, Cristo dei senza dio, su di giri (ha il grilletto facile), che passa per segherie e proposte mefistofeliche (un tizio gli implora di ingravidargli la moglie), si sbatte la sorellastra da cui ha un figlio mostruoso. Scrittura tesissima, con perle poetiche, micidiali, come questa: “All’esterno, il mondo passava chetato nei suoi silenzi misteriosi. Una luce, un’ombra, una sagoma ondeggiante tra alberi magri, ed era un intero dominio d’amore. Un uomo, una donna, un bambino, una vacca, un tetto che pacificava gli elementi e attirava pace dal cielo. Tutto questo, certo, era amore. Una frangia delle cime degli alberi spiccante contro il cielo incipriato di neve fu subito ripresa, con rapidità cinematografica, dall’oscurità. Un altro mondo traboccante delle pene e delle gioie della vita passava in rivista solo per essere subito dopo fatalmente distrutto”. Un tempo tutti pubblicavano Erskine, da Bompiani (La lampada della sera, Il fiume caldo) a Einaudi; molti libri, ristampati sovente, giacevano nella calda culla del catalogo Mondadori (Il bastardo, Il piccolo campo, Fermento di luglio, Il predicatore vagante). Poi il nulla. Tra il 2011 e il 2014 Fazi ha pubblicato i ‘classici’ di Caldwell, che scomparve, con mesta impotenza, dall’attenzione editoriale. D’altronde, leggere Caldwell è ricevere una sassaia di pugni in faccia.

Si è sposato quattro volte – la seconda con la fotografa Margaret Bourke-White –, padre di un inusuale numero di figli. Durante la Seconda guerra fu corrispondete in Unione Sovietica; scrisse moltissimo – una cinquantina di libri – ha vissuto troppo. Mentre i suoi colleghi (Faulkner-Steinbeck-Hemingway) hanno avuto il buon gusto di togliersi di mezzo al momento giusto, lui ha fatto la figura dell’alieno rompiballe, del nonno che racconta le solite storie prese dal barile della memoria. “Prolifico scrittore di libri che raccontano la privazione e la depravazione”, lo dice Edwin McDowell griffando un austero ‘coccodrillo’ sul New York Times. Era il 1987. “Negli ultimi vent’anni preferì l’oscurità: evitava le interviste e le apparizioni pubbliche. Il suo stile, disadorno e violento, che fece scandalo a tal punto che i suoi libri erano banditi da molte biblioteche, passò di moda. Recitava la parte del sopravvissuto”. Erano i favolosi Ottanta, i deliri casalinghi di Raymond Carver, le peripezie allucinate di Thomas Pynchon, le algide crudeltà di Bret Easton Ellis, le soap a soffocare il genio selvatico, la vita dei campi sostituita dai supermarket. Erskine, bandana in testa, lottava una guerra che non esisteva più. “Dicono che abbia permesso alla gente di vedere con i propri occhi ciò che non voleva, forse per ignoranza indotta. Non ho voluto cambiare il mondo. Ho soltanto raccontato quello che c’era”. Alto, atletico, faccia pulita scalfita da primordiale malinconia: Erskine, perdonali se sputano sulla tua tomba. 

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