Riconoscere una volta per tutte la caratteristica peculiare del pensiero filosofico-politico italiano dovrebbe essere il sogno proibito di ogni politico nazionalista e populista del nostro paese. Inneggiare a una tradizione gloriosa, mostrarsi come i più autentici depositari di un raffinato sapere, identificarsi nello spirito del popolo e nelle sue intrinseche declinazioni comporrebbe una cornice ideologica capace di accattivarsi un gran numero di elettori. Invece, neanche durante questa estate arci-italiana ‒ in cui il ritorno alla vita sociale senza restrizioni e le notti magiche dei ragazzi di Mancini hanno riacceso lo spirito di unità nazionale ‒ l’argomento sembra suscitare alcun tipo di emozione. Che la vittoria di una partita di calcio, per noi italiani, sia più importante di tante altre cose lo abbiamo sentito e risentito; già l’inglesissimo ‒ ironia della sorte ‒Winston Churchill ce lo ricordava più di settanta anni fa. E se in questi giorni, grazie all’euforia di Wembley, anche l’annosa questione su quale sia il più autentico stile di gioco degli azzurri ‒ catenacciari vs. bel giochisti, intravedendo nel modo di impostare la partita una genia tattica riflesso di quella culturale ‒ ha perso il suo sempreverde appeal tra le chiacchiere da bar, allora non ci sono proprio speranze per il medesimo discorso nel campo semantico del politico.
Quando parliamo di tradizione filosofico-politica italiana, però, a cosa ci riferiamo? È possibile rintracciare un filo conduttore concettuale che innervi tutti i più delicati passaggi storici della nostra penisola? Ma, soprattutto, si può risalire alle sorgenti speculative da cui l’Italian Thought è scaturito? Edoardo Dallari, con il suo nuovo libro edito da Mimesis, Il conflitto costituente. Da Platone a Machiavelli cerca di dare una risposta esaustiva a quest’ultima domanda. Il libro, seppur breve, indaga in maniera approfondita le origini del pensiero politico italiano, identificando in Machiavelli il filosofo che per eccellenza ha incarnato lo spirito riflessivo degli abitanti della penisola. Da diversi decenni il dibattito sull’esistenza di un particolare modo italiano di approcciarsi alla filosofia politica incalza le discussioni accademiche. Il filosofo Roberto Esposito è il più conosciuto esponente di quella che viene definita l’ItalianTheory, una tradizione di pensiero che a differenza di quella tedesca o francese, ha come caratteristica principale il richiamo alla prassi. Il filosofare italiano sarebbe un pensiero strettamente legato alla vita, un pensiero che fa della prassi il suo centro focale, rendendolo, di fatto, una filosofia della ragione impura, in cui le infinite possibilità delle esperienze concrete fanno scacco alla necessaria immutabilità dell’assoluto. Nell’inevitabile gioco delle contrapposizioni polarizzanti il pensiero italiano e la pratica si oppongono a quello continentale e al mondo ideale, l’universale immutabile al particolare cangiante, l’eccezione che stravolge la regola alla norma assoluta che la origina.
Uno dei meriti di Dallari è quello di tentare di scardinare questa dicotomia semplicistica ed evidenziare nel pensiero di Machiavelli quelle tracce concettuali che mostrino quanto i due lati della medaglia in realtà non siano così lontani come sembra. Se il filosofo rinascimentale fiorentino è per antonomasia il paladino del pragmatismo, l’alfiere dell’opportunismo politico, quale altro pensatore se non Platone ‒ nella vulgata riconosciuto come l’austero sacerdote dell’iperuranico mondo ideale, l’estremo difensore della verità teoretica dalle grinfie del relativismo sofistico – può diventare l’interlocutore privilegiato con cui mostrare la fallacia di una divisione tanto netta e drastica? Il primo capitolo del libro si concentra proprio sulla relazione tra il filosofo greco e Machiavelli, chiarendo come è dalle aporie del pensiero politico di Platone che nasce quell’esigenza di erigere una metafisica della prassi concretizzata nel Principe.
Nel corso delle pagine del libro il paradigma del conflitto assume un ruolo fondamentale. L’obiettivo di Platone è quello di costruire una repubblica perfetta in grado di ordinare il molteplice della polis, di dettare una forma normativa che in maniera stabile e definitiva regoli la città. La contraddizione che sottolinea l’autore, però, mostra quanto l’anelito a una tale formalizzazione sia in sé impossibile da realizzare: se l’ordine mira a far terminare il conflitto caotico, è pur vero che in assenza di conflitto l’ordine non ha più necessità di esistere. Il conflitto quindi, diviene propedeutico all’ordine o, come afferma Dallari, “il conflitto è ordopoietico”. Le forze sociali che perennemente si scontrano all’interno della polis, generando sempre nuovi squilibri precari, sono la ragion d’essere affinché un ordine normalizzante venga sollecitato dai cittadini per non cadere vittima di un caos senza fine. Se in qualche modo, come auspica Platone, grazie a un’architettura socio-politicaideale, si riuscissero a placare definitivamente i tumulti politici, allora la linfa vitale dell’ordinamento cittadino verrebbe meno. A partire da questa aporia nasce il pensiero politico di Machiavelli. Consapevole che una costituzione perfetta si ridurrebbe a una contraddizione insanabile, il filosofo fiorentino si adopera per costruire una politica intesa come arte del rimedio. Una soluzione definitiva alle complesse questioni sociali non è possibile, il politico, e lo studioso della politica, devono proporre soluzioni approssimative, fallibili, ma proprio per questo più adatte ad avere un’aderenza al mondo del reale.
Se una costituzione ideale, calata dall’alto, è intrinsecamente inadatta a ordinare il tumulto terreno delle poleis, Machiavelli trova nell’esempio storico di Roma il modello possibile da imitare per costruire uno stato migliore. Guardare all’Urbe come alla realizzazione storica di un equilibrio duraturo, ma non eterno, dei conflitti sociali che l’hanno animata, può essere il contraltare pragmatico di quella idealizzazione politica contraddittoria in sé. Il secondo capitolo è incentrato sull’incidenza che la storia di Roma ha avuto sul pensatore rinascimentale. La concezione del diritto e della cittadinanza della cultura romana, filtrata attraverso il pensiero filosofico agostiniano, costituisce quella radice concettuale latina che innerva la metafisica della prassi di Machiavelli e si ritrova in nuce anche nelle analisi contemporanee dell’Italian Thought. L’autore accompagna il lettore in uno straordinario itinerario concettuale che, saltando tra argomenti storici e filosofici, ha come leit motiv il costante riferimento al paradigma del conflitto. È il conflitto il motore necessario per la costruzione di qualsiasi impalcatura politica.
Il lettore attento, e non digiuno di storia della filosofia, potrà apprezzare le numerose citazioni, spesso in greco antico, e la ricchezza di riferimenti che nel corso delle pagine costellano la struttura del testo. Tra le numerose suggestioni, molto interessante è la carica simbolica che viene attribuita al fratricidio nell’orizzonte politico italiano. In Italia, riprendendo un’affascinante riflessione di Saba, non si è mai realizzata una rivoluzione perché il mito fondativo per eccellenza del politico si basa su un fratricidio: Romolo che uccide il fratello e fonda la civitas. La rivoluzione, invece, è sempre un parricidio, l’uccisione del vecchio da parte del nuovo. Il fratricidio, quindi, diventa l’orizzonte destinale del Politico, l’archetipo per eccellenza di quel conflitto che costituisce l’essenza della struttura politica italiana.