OGGETTO: Il ruolo del sionismo cristiano
DATA: 04 Agosto 2025
SEZIONE: Società
FORMATO: Analisi
Israele scommette sul sostegno evangelico americano, trasformando la fede in geopolitica. Ma questa dipendenza rischia di isolare lo Stato ebraico, intrappolato tra profezie bibliche e un realismo strategico che si sgretola sotto il peso di una violenza inarrestabile.
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In un contesto di crescente complessità, che dal 1948 in poi vede il Medio Oriente come oggetto di numerose contese internazionali, passando per vere e proprie guerre, fino alle due Intifada e ai recenti scenari di conflitto nella Striscia di Gaza e con l’Iran, Israele si trova precipitata in una tragica strettoia: per garantire la propria sicurezza necessita di estendere i propri confini, conquistando suolo alla luce della geografia sacra del Tanakh. Questa stessa espansione tuttavia rischia di compromettere ulteriormente la sua posizione internazionale, proiettandola in un isolamento sempre più profondo. Il voto alla Knesset del 23 luglio, che prevede l’annessione definitiva della Cisgiordania – peraltro attualmente impraticabile visti la concentrazione dello sforzo bellico a Gaza, sul versante siriano e il probabile prossimo coinvolgimento nel nord di Cipro – definisce ulteriormente la postura dello stato ebraico, rischiando di alienare persino relazioni importanti nell’area, come quelle con il Regno Hascemita di Giordania.

Insieme ad altri paesi arabi (Egitto, Arabia Saudita e Emirati su tutti), la Giordania ha infatti rapidamente condannato l’iniziativa come violazione del diritto internazionale. Lo stesso sostegno estero dei paesi europei e occidentali sta gradualmente sfumando a seguito delle controversie legate alla catena di trasmissione degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Francia, Regno Unito, Malta e Canada hanno parlato della possibilità di riconoscere lo stato di Palestina in tempi brevi, mentre l’Olanda ha dichiarato persona non grata i ministri israeliani Smotrich e Ben Gvir. Accerchiata, Israele potrebbe trovarsi a dipendere pressoché esclusivamente dal sostegno statunitense, un supporto che, a partire dal Yom Kippur in poi, si è fatto grossomodo incondizionato e che nel solco della cosiddetta Guerra dei Dodici Giorni con l’Iran dell’ayatollah Khamenei ha rivelato di nuovo il groviglio di pressioni interne con cui stavolta ha dovuto fare i conti il presidente Trump, nonostante l’anomala gestione dell’agenda estera e mediorientale da parte del tycoon.

Lo stesso Trump, che in occasione di un comizio elettorale nel Wisconsin tenuto a metà agosto del 2020, aveva dichiarato quanto la decisione di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme e quindi riconoscere la città come capitale (2017-18) avesse entusiasmato più gli evangelici statunitensi che non gli israeliani. Mossa, questa, che gli valse peraltro il sostegno misticheggiante di autorevoli esponenti del movimento religioso riformato, politici e non, tanto da innalzarlo a “eletto di Dio” e suscitare paralleli con il re Ciro che liberò il popolo ebraico dalla cattività babilonese. Condensata in una battuta apparentemente estemporanea, Trump aveva in realtà esplicitato una dinamica profonda che regola gran parte dell’azione statunitense in Medio Oriente. Pur riconoscendo la complessità del dossier e la molteplicità delle influenze, il ruolo del cristianesimo evangelico di matrice sionista gioca comunque un ruolo di primo piano nella determinazione delle scelte politiche in capo al Presidente. La capacità di esercitare pressione sull’esecutivo è determinata dalla potenza e dalla ramificazione delle sue organizzazioni di lobbying, rigorosamente strutturate per attivare leve eminentemente politiche.

Al vertice di questa forza si trova la Christians United for Israel (CUFI), fondata nel 2006 dal pastore John Hagee. A differenza di altre lobby pro-Israele come l’AIPAC, che operano con un approccio pragmatico incentrato su sicurezza e interessi strategici, CUFI – con milioni di membri – si approccia alla questione con un’impronta più teologica e il lavoro volontario degli afferenti. La rilevanza numerica si traduce in un immenso potenziale di influenza politica, pervasivo in ogni stato americano, e capace di mobilitare un blocco di voti e risorse attraverso telepredicazione, report cards e megachurches.

CUFI opera essenzialmente su due fronti: lobbying diretto a Capitol Hill e mobilitazione di massa attraverso campagne coordinate di email, telefonate e lettere. L’annuale convegno di Washington attrae migliaia di attivisti, trasformandosi in una dimostrazione di forza e in un’opportunità per indirizzare l’azione dei politici. CUFI diffonde il suo messaggio attraverso una vasta rete di televisioni e radio cristiane, mantenendo sofisticate strategie di gestione delle informazioni per distretto congressuale, sponsorizzando viaggi educativi in Israele per i membri del Congresso e assicurando che il sostegno a Israele rimanga una priorità per milioni di fedeli. Pur non operando direttamente come Political Action Committee (PAC), CUFI incoraggia e facilita attivamente le donazioni individuali ai candidati allineati.

Il blocco elettorale dei cristiani evangelici, garantendo ampio consenso elettorale, è pertanto un pilastro fondamentale per il Partito Repubblicano. Per molti candidati, il sostegno incondizionato a Israele è diventato un vero e proprio test di fedeltà, indispensabile per ottenere il supporto, anche finanziario, di questa influente base. Diventa così estremamente difficile per qualsiasi politico americano prendere le distanze dalle politiche israeliane, anche se strategicamente controproducenti per gli interessi statunitensi o per le prospettive di pace nella regione (come già documentato da Mearsheimer e Walt nel 2007). La lobby cristiana evangelica, con la sua combinazione di numeri, organizzazione e motivazioni teologiche profonde, è diventata una delle forze ineludibili che modella la politica estera americana in Medio Oriente, spesso con un entusiasmo per Israele che supera persino quello di parte della stessa diaspora ebraica. Il paradosso è già stato rilevato da un sondaggio Pew Research del 2013: gli evangelici americani risultano sistematicamente più “sionisti” degli israeliani stessi, opponendosi a qualsiasi compromesso territoriale in percentuali superiori all’elettorato israeliano.

Al centro di questa visione, che trasforma la fede individuale e collettiva in un potente motore geopolitico, vi è il dispensazionalismo. Questa dottrina teologica protestante, nata nel XIX secolo principalmente grazie all’influenza del teologo anglo-irlandese John Nelson Darby, si è diffusa ulteriormente con la Bibbia di Studio Scofield (1909), una versione annotata e commentata della King James e interpreta la storia come il susseguirsi di ere divine diverse. In questa prospettiva, il popolo ebraico e la nazione di Israele rivestono un ruolo centrale e insostituibile nei piani profetici di Dio, in particolare in relazione agli End Times e al ritorno di Cristo. Già nel 1891, la petizione nota come Blackstone Memorial al presidente Harrison, chiedeva un impegno politico mirato per il ritorno degli ebrei in Terra Santa, con qualche anno di anticipo sul primo Congresso Sionista di Basilea (1897) promosso da Herzl.

La fondazione dello Stato di Israele nel 1948 e la presa di Gerusalemme Est nel 1967 sono interpretate allora come l’adempimento di antiche profezie bibliche, segni inequivocabili che il mondo si sta avvicinando all’Armageddon e al Millennio secondo figure politiche di spicco come l’ex vice presidente Mike Pence. Per loro Israele non è semplicemente un alleato strategico o una democrazia da difendere, ma uno strumento divino, un orologio profetico la cui esistenza e le cui azioni sono essenziali per l’attuazione del piano escatologico di Dio.

In questa visione, la geografia sacra biblica – in particolare le regioni di Giudea e Samaria (la Cisgiordania) – assume un significato che trascende la mera strategia militare o politica. Non si tratta solo di confini difendibili o di territori contesi, ma di terre sulle quali la sovranità ebraica è prerequisito per l’adempimento agli eventi profetici finali. Questo approccio è in netto contrasto con le posizioni teologiche cattoliche o di altre correnti protestanti meno letteraliste, che tendono a interpretare le profezie bibliche in chiave più allegorica o spirituale, distaccandole da una stretta correlazione con le dinamiche geopolitiche contemporanee.

Tale profonda convinzione teologica genera un sostegno a Israele che è, per sua natura, incondizionato e spesso impermeabile alle critiche basate su considerazioni di diritto internazionale, diritti umani o interessi geopolitici pragmatici. Se Israele è uno strumento divino, allora il suo successo e la sua sicurezza diventano imperativi religiosi e ogni azione che ne garantisca sopravvivenza e espansione territoriale è vista come parte di un disegno superiore. È questa fusione tra fede e geopolitica a rendere il sionismo cristiano americano una forza anomala nel panorama delle relazioni internazionali.

Tuttavia il sostegno incondizionato degli Stati Uniti si sta rivelando, in un certo senso, problematico in primis per Israele. Tale supporto, infatti, riducendo le pressioni esterne a moderare le politiche più controverse, ha favorito l’adozione di posture che, nel medio-lungo termine, ne minano sicurezza e legittimità. Ciò ha permesso segnatamente al Likud di Netanyahu di perseguire quelle politiche di espansione territoriale e gestione dei conflitti che ne hanno progressivamente eroso stabilità e posizione nello scacchiere mondiale.

Israele si trova sempre più spesso a fronteggiare condanne in sedi internazionali (Nazioni Unite e Corte Internazionale di Giustizia de L’Aia) mentre persino tradizionali sostenitori occidentali manifestano un crescente disagio. L’impressione diffusa è che alcune specifiche politiche israeliane, rese possibili proprio da quel supporto incondizionato, rendano impossibile una soluzione a lungo termine del conflitto e compromettano la stabilità regionale.

Mike Huckabee, l’attuale Ambasciatore statunitense in Israele, ha espresso profonda delusione per la politica che nega visti turistici agli evangelici americani, avviando un’insolita polemica contro il governo di Gerusalemme. Similmente, il senatore Lindsey Graham, pur sostenendo uno sforzo militare completo a Gaza (“con la forza”, come gli USA a Tokyo e Berlino), ha comunque riconosciuto la necessità di far giungere gli aiuti umanitari in un’area falcidiata dalla fame. Questi episodi, pur non rappresentando necessariamente un passo indietro nel sostegno USA a Israele, evidenziano come le conseguenze delle sue recenti politiche stiano creando attriti e criticità persino con quelle figure chiave che ne hanno storicamente difeso le scelte.

Più l’esecutivo israeliano si affida esclusivamente alla forza americana per mantenere posizioni complicate, maggiore diventa il suo isolamento globale e, di conseguenza, la sua dipendenza dagli Stati Uniti. Un circolo vizioso che, anziché rafforzarlo, indebolisce Israele, rendendolo prigioniero delle oscillazioni politiche di Washington e meno capace di forgiare relazioni diversificate e durature nel panorama internazionale.

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