OGGETTO: Mattei, un delitto italiano
DATA: 21 Febbraio 2021
SEZIONE: inEvidenza
In una Torino livida e mistica, l’assassinio di Alexios Kosta, faccendiere dello Scià di Persia, con un rito terribile: la “cravatta colombiana”. In anteprima, un capitolo dal romanzo di Federico Mosso, “Ho ucciso Enrico Mattei”
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Tra Roma e Torino, 4-5 luglio 1955

«Vieni con me, Joe».

Mi bisbiglia lui. Prendiamo una scala a chiocciola molto defilata che non conoscevo. Non è usata da nessuno, o quasi, mi dice Earl. Scendiamo nelle viscere di Palazzo Margherita. Sbuchiamo in una stanza circolare dalle luci soffuse che rendono l’ambiente partico­larmente sinistro, perché dalle pareti paiono venir fuori sei statue di satiri con le corna e gli zoccoli caprini, che ghignano maligni, satani­ci, e che allungano braccia e mani verso il centro della piccola sala, come a voler afferrare i visitatori. Earl nota il mio disagio, e se la ride sotto i baffi, con il suo solito modo di fare beffardo e canzonatorio. Mi fa strada verso una porta nell’ombra, pressoché invisibile. Scen­diamo per un’alta rampa di scale, umida, buia e odorosa di cantina. Giungiamo negli antichissimi sotterranei del palazzo, in una galleria con volta a botte, un criptoportico romano risalente al primo secolo dopo Cristo. L’ambiente è illuminato da torce che ardono ai muri. Mi dà l’inquietante impressione di trovarmi nel mezzo di una sceno­grafia teatrale o di un film del terrore sui vampiri. Tracce di affreschi erosi dai secoli raccontano scene di culti scomparsi. È la porzio­ne più arcaica e recondita del Palazzo Margherita, che sorge sopra quella che un tempo era la villa del cardinale Ludovico Ludovisi, proprietario di un terreno immenso, sotto il quale sopravvivevano vestigia dell’antica Roma. La stratificazione della storia romana, dai padroni vecchi a quelli nuovi. Il sotterraneo è alquanto esteso, la­birintico, ci si può perdere con facilità. Earl rompe la monotonia del rumore cadenzato dei nostri passi, raccontandomi aneddoti sul luogo e asserendo che da lì, imboccando alcuni passaggi segreti negli anfratti avvolti dalle tenebre, ci si può inoltrare nelle oscure profondità dell’Urbe, estese sotto tutta la città: cripte, catacombe paleocristiane, cantine, gallerie, acquedotti, fognature… pare sia tutto collegato. Pochissimi eletti, una cerchia ristretta di studiosi, archeologi e religiosi il cui numero si conta sulle dita della mano, conosce i segreti dei sotterranei romani ed è in grado di muoversi nell’intricato dedalo sepolto dalle epoche. Uno di questi, un frate, è consulente dell’Agenzia, mi dice Earl. Io ne sono meravigliato come un bambino che s’inoltra in un luogo avventuroso e proibito. Ma allo stesso tempo ne sono spaventato. Mi domando perché abbia voluto portarmi qua sotto. Un brivido mi scorre lungo la schiena. Un sospetto mi balza in testa. E se volesse farmi la pelle? Ma per­ché? Quello sarebbe il luogo ideale per piantarmi due pallottole in testa. Nessuno sentirebbe gli spari, e buchi dove gettare il mio cada­vere non devono di certo mancare in questo labirinto nascosto dalla luce del sole. Con me non ho armi, né pistola né pugnale. Degluti­sco. Scaccio via il sospetto pauroso come fosse una mosca molesta.

Raggiungiamo una stanza vecchia di duemila anni. The Kingfi­sher è di fronte a noi, in piedi. Alle sue spalle bruciano due torce, e altre due sono accese dietro di noi. Nella scena che ho davan­ti, la luce delle fiamme lo rende un personaggio sinistro. Così in smoking, coi bagliori giallorossi che gli fanno scintillare le pupille dietro gli occhiali a montatura tonda da professore di Yale, mi dà l’idea di una figura demoniaca, di un sacerdote di una religione sco­nosciuta e malvagia. O una versione moderna e intellettualoide del conte Dracula. Mi domando da dove diavolo sia arrivato. Forse ci ha preceduto, o è sceso da un altro passaggio, oppure è volato lì con le sembianze di un pipistrello. Mi scappa una risatina isterica, credo dettata dall’ansia. Di nuovo ho l’orrenda sensazione di rischiare la pelle; adesso mi fanno secco. No, calma, mantengo la calma, non vogliono farmi del male, non ne avrebbero il motivo. Ai piedi di Kingfisher c’è una cartella da lavoro in pelle marrone.

La riconosco, è la mia. L’avevo lasciata sotto la scrivania nel mio appartamen­to, come al solito. Significa che sono entrati in casa per prenderla mentre ero alla festa. Mi controllano, violano la mia proprietà. Non pensavo. Non ho nulla da nascondere ma la cosa non mi piace per niente. È uno dei loro giochetti per ricordarmi che devo stare at­tento, che loro sanno sempre tutto sugli amici. Pressione costante. The Kingfisher raccoglie la cartella e me la porge senza dire una parola, guardandomi dritto negli occhi dietro le lenti tonde in cui si riflettono le fiamme delle torce. Tocca ad Earl a spiegarmi quella messinscena.

«Sorry Joe, ma abbiamo dovuto muoverci con rapidità. Ci sia­mo permessi di entrare a casa tua, per recuperare la tua cartella. Ci scusiamo anche per averla aperta forzando la serratura, ma non avevamo un minuto da perdere. Il tempo ci è nemico: non avremmo potuto chiederti di tornare al tuo appartamento per recuperare gli attrezzi del mestiere. There is no time. I’m sorry, ma abbiamo chie­sto ad uno dei nostri di farlo, per risparmiarti la noia. Quei vespini sono mezzi utilissimi per muoversi veloci nel traffico romano, very fast. Non ti preoccupare, il ragazzo non ha messo in disordine nulla in casa tua. Non ha toccato niente se non la tua cartella di lavoro. Dentro, oltre alle tue cose, troverai un fascicolo dedicato ad Alexios Kosta, the target. È un greco-cipriota che da alcuni mesi ha cattura­to la nostra attenzione. Kosta si trova a Torino, in viaggio d’affari. Domani pomeriggio si incontrerà con i vertici FIAT. Domani mattina avrà invece un ap­puntamento riservato con Enrico Mattei. A secret meeting. Come leggerai dal dossier, il cipriota svolge un ruolo di intermediazioni internazionali in operazioni high level. Riteniamo che sia stato inca­ricato dal governo iraniano di rappresentare gli interessi dello Scià. Ad una fazione della corte di Teheran non è bastata la lezione che abbiamo dato a Mossadeq nel 1953, insistono a tramare alle nostre spalle. Occorre mandare un messaggio. Un messaggio che sia chiaro agli iraniani e soprattutto al nostro amico Mattei. Sarai tu a mandare il nostro messaggio, questa notte stessa».

Rimango basito, frastornato. Prego che sia tutto uno scherzo crudele ordito da Earl, maledetto lui. Ahimè, non è uno scherzo. Chiedo spiegazioni, faccio domande nervose, apro la cartella per sfogliare il fascicolo del cipriota. The Kingfisher poggia la sua mano gelida sulla mia, per bloccarmi. Sibila veloci istruzioni senza pren­dere fiato. È un messaggio telegrafico pronunciato in inglese secco e meccanico.

«Non occorre che tu ti metta a studiare ora. Avrai tempo durante il volo per Torino. Un aereo ti aspetta al vecchio aeroporto militare di Centocelle. C’è una nostra auto che ti aspetta qua fuori. L’autista ti farà un cenno. Siediti davanti con lui. Non parlarci assieme, non chiedergli nulla. Lui non sa niente, deve solo portarti sulla pista, come gli è stato ordinato. Aspetta di essere sull’aereo prima di sfo­gliare il fascicolo. Assieme alle informazioni su Kosta troverai anche alcune indicazioni su come agire. Un nostro contatto ti aspetta con una macchina all’arrivo. Lui ti fornirà ulteriori dettagli. Sarà lui a parlarti. Tu non chiedergli nulla, ascolta in silenzio e basta. Rien­trerai appena avrai fatto quello che ci aspettiamo da te. Abbiamo poche ore a disposizione. Il lavoro deve essere concluso prima che sorga il sole».

Gli ordini non ammettono replica. L’ultima cosa che mi sarei aspettato questa sera è quella che mi sta capitando ora. Che bella sorpresa. Per alcuni istanti avverto un giramento di testa, la vista si fa appannata. Mi sento un pesce lesso a bocca aperta. The Kingfi­sher ed Earl mi fissano duri.

«Ci fidiamo di te».

Ingoio il boccone amaro e faccio sì con la testa. Earl mi afferra il braccio e mi riconduce da dove siamo arrivati. Usciamo in giardino da una porta secondaria. Una statua di un Tritone che suona una conchiglia pare mi ghigni in faccia. Sento la camicia dello smoking bagnata di sudore. Earl mi dà una pacca sulla spalla, come un al­lenatore di football farebbe con un suo giocatore per mandarlo in campo. Avrei voluto chiedergli un chiarimento, del perché devo fare quel lavoro sgradevole, ma non me ne dà il tempo. Earl si gira e scompare.

Sul marciapiede, in seconda fila, una Packard scura suona due volte il clacson, salgo. Le luci di Roma l’eterna nella tarda sera d’e­state scorrono dal mio finestrino abbassato. Dentro la Packard non vola una mosca. L’autista è un quarantenne dalla mascella squadra­ta che non toglie gli occhi dalla strada. Non mi lancia nemmeno uno sguardo. Zitto, impassibile, come se non fossi con lui. Un ro­bot assemblato in qualche campo d’addestramento occulto. Fumo morsicato da cattivi pensieri. Dopo tanti anni spesi a catturare la fiducia e simpatia dei miei amici dell’Agenzia, eccomi qua. Chi l’a­vrebbe mai detto che sarei tornato a svolgere lavori di manovalanza. Credevo, sciocco, di essermi ormai meritato un posto al livello di Earl, da organizzatore semmai, non da mero esecutore. O forse mi hanno chiesto questa cosa su due piedi perché ripongono in me la loro fiducia che in altri non hanno. La natura della cosa è tal­mente delicata e urgente che non hanno avuto scelta sull’uomo a cui affidare l’incarico. La cerchia operativa in cui sono inserito, “la ghenga”, è dopotutto estremamente ristretta. Un pugno di uomini. Oppure è una prova per vedere quanto sono fedele all’Agenzia, per testare motivazione e capacità, per verificare insomma se in questi anni non mi sono rammollito. Sì, deve essere così. È da una vita che non faccio più certe cose, dalla guerra, ma certe cose non si dimenticano, no, proprio no. Al diavolo, butto la cicca che brilla lapilli sull’asfalto del viale di periferia. La Packard passa davanti all’ingresso principale dell’aeroporto di Centocelle, sorvegliato da avieri dell’aeronautica militare, e lo supera. L’autista muto spegne i fari. Credo che conosca così bene la strada da riuscire a percorrerla ad occhi chiusi. Ci addentriamo nei margini rugginosi del vecchio aeroporto semiabbandonato, prossimo allo smantellamento, tra gli hangar cadenti che furono della Regia Aeronautica. Un bimotore Douglas C-47 Dakota fa girare le eliche con il motore acceso. L’a­ereo non ha insegne. L’autista dalla mascella squadrata grugnisce istruzioni per la prima e unica volta. Mi ordina di salire sull’aereo e di chiudere il portello. Mentre eseguo, lui si occupa di togliere la scaletta. La porta della cabina rimane chiusa, non vedo i piloti. Ho la strana impressione di essere a bordo di un aereo fantasma, pilotato da spettri invisibili. Appeso ad una gruccia c’è un completo blu con un biglietto con su scritto CAMBIATI. È della mia taglia. Ci alziamo in volo nella notte italiana, un minuto dopo che mi sono seduto, con rotta nord-ovest. Mi tolgo lo smoking e mi cambio d’a­bito e finalmente posso aprire la mia cartella di lavoro. Controllo il contenuto: le mie due agendine, la stilografica, i quattro passaporti, le capsule di cianuro, il manuale aggiornato DTG A.A. Disciplinare Tecnico Guastatori d’Assalto e d’Arresto, con l’aggiunta di pagine riservate a pochi uomini delle unità d’élite e dei servizi per confe­zionare bei botti anche con “ingredienti” non militari, il fascicolo sull’obiettivo cipriota Alexios Kosta e il mio pugnale Caimani 1918 ereditato dal mio ex capo Attilio Tareni. Merda, ecco perché sentivo così leggera la borsa, manca la Walther PPK con il suo silenziato­re! Me l’hanno sottratta di proposito! Ma come diavolo pensano che io possa portare a termine il lavoro senza pistola? Spero che il contatto a Torino possa darmi spiegazioni in proposito, e fornirmi di un valido strumento in sostituzione alla mia Walther. La luce di lampadina della cabina mi è sufficiente per leggere il dossier e le informazioni del caso. Confido di trovare tutti i dettagli, compreso il modus operandi che mi si ordina per completare l’operazione. C’è una fotografia dell’uomo e tre pagine dattiloscritte in tutto, prive d’intestazione e compilate in fretta vista la presenza di errori di bat­titura e di punteggiatura.

Guardo la fotografia in bianco e nero. Ritrae un uomo calvo con la testa a punta. Assomiglia ad uno spremiagrumi in giacca e cravat­ta. Tozzo nel fisico, pelle abbronzata od olivastra per natura, sorride tra altre persone di cui si intravedono solo parti di braccia e di volti. La fotografia deve essere stata scattata ad un ricevimento o ad un evento pubblico. La fisionomia con la testa a spremiagrumi lo rende un individuo facilmente riconoscibile.

Il dossier di Alexios Kosta: nato a Limassol il 12 febbraio 1903 da una famiglia benestante greca. Il padre era un commerciante di vini e cognac prodotti in loco e possedeva una piccola flotta medi­terranea per il trasporto di botti verso la Grecia e le coste dalmate. Alexios studia in Svizzera e in Inghilterra. Grazie ad una borsa di studio ottiene la laurea in economia e commercio all’Imperial Colle­ge di Londra. Fa pratica nella ditta di famiglia, che assieme al padre e ai fratelli ne allarga il business, alla Francia e al Regno Unito. Si sposa con una cugina di secondo grado, che gli dà tre figlie fem­mine. Gli affari vanno bene per i Kosta, fino alla Seconda guerra mondiale. Nel 1941 infatti, oltre la metà delle navi dei Kosta si trova ormeggiata a Creta. Durante la battaglia di Creta tra paracadutisti tedeschi e forze britanniche, le imbarcazioni di proprietà della fami­glia vengono requisite dagli inglesi per l’evacuazione in seguito alla sconfitta alleata sull’isola. Per Alexios Kosta è un disastro, l’azienda cipriota chiude i battenti in rovina. Cresce la sua ostilità nei con­fronti della Gran Bretagna, che si acuisce nel dopoguerra, quando forma insieme ad un piccolo gruppo di patrioti un’esigua forma­zione nazionalista e clandestina per l’indipendenza di Cipro dalla corona inglese. Nel ’49 viene arrestato con l’accusa di aver contrab­bandato armi da guerra. Riesce ad evadere dal carcere di Nicosia durante una rivolta. Lascia Cipro e si trasferisce a Beirut. Qua torna in affari, grazie alla fitta rete di amicizie. Questa volta non più vini e distillati, ma petrolio. Possiede due navi-cisterna con cui fa affari con gli iraniani, anche loro in lotta contro l’autorità coloniale ingle­se, in Persia vestita da Anglo-Iranian Oil Company. Il rapporto tra Kosta e il governo di Teheran si fa molto stretto. Tra il ’50 e il ’53 subisce tre attentanti, da cui scampa miracolosamente. Anche se la paternità degli attacchi non è stata mai rivendicata, è quasi certa la responsabilità dei servizi segreti di Londra. Kosta diviene uomo di fiducia del regime di Mossadeq, e quando quest’ultimo viene rove­sciato dalla CIA in combutta con gli inglesi, la compagnia di stato iraniana mantiene, segretamente, i legami con Alexios Kosta. La fi­gura del cipriota riveste un ruolo molto particolare nella partita per il controllo del petrolio persiano. È ben introdotto nella corte dello Scià Reza Pahlavi. Per gli iraniani svolge compiti delicati, diciamo di rappresentanza nell’ombra. Si muove senza ufficialità formale ma con ampio margine di potere. È uomo di incontri nascosti e patti segreti. Sotto la facciata filo-occidentale, l’Iran striscia in cerca di affari vantaggiosi. Il greco-cipriota Alexios Kosta è il serpente stri­sciante dello Scià. Viene lautamente retribuito per il suo impegno. Oltre ai soldi, condivide con una parte intransigente del governo di Teheran certe idee di indipendenza dagli interessi anglo-americani. Quindi è motivato anche da ideali, non solo dal denaro. Posso ben immaginarmi il tipo: cane rognoso. L’uomo d’affari sa bene di essere seguito ovunque egli si muova. Ha chiesto ed ottenuto un appunta­mento riservato con Vittorio Valletta della FIAT, per discutere della costruzione di un possibile stabilimento automobilistico a Tabriz. Si incontreranno domani pomeriggio in quella che dovrebbe essere una riunione segreta. Ma di segreto non c’è proprio un bel niente: si tratta di uno specchio per le allodole, per ingannare chi pedina il greco-cipriota. Il vero incontro segreto sarà domani mattina, in una stanza all’Hotel Principi di Piemonte, con Enrico Mattei. La nota del dossier consegnatomi da The Kingfisher accenna ad un primo approccio dell’ENI per un accordo che consenta l’esplora­zione geologica e la ricerca petrolifera nel nord del Golfo Persico. Mattei vuole operare all’insaputa del “Consorzio”, il cartello delle grandi compagnie petrolifere occidentali che ha l’esclusiva dell’e­strazione sul suolo iraniano e che detta legge per quanto riguarda concessioni e percentuali dei profitti. L’ENI, volutamente esclusa dal Consorzio, rappresenta quindi una minaccia all’establishment e all’equilibrio nell’area. Si ritiene pertanto urgente un intervento per frenare l’ambizione internazionale del pericoloso outsider. Occorre distruggere la testa di ponte prima che essa spiani la strada al cor­saro Enrico Mattei. La testa di ponte in questione è Alexis Kosta, il serpente strisciante dello Scià, il collegamento diretto tra il corsa­ro e il petrolio persiano. Distruggere la testa di ponte; schiacciare la testa del serpente Kosta. Si rende assolutamente necessario un immediato intervento in tal senso prima dell’incontro programma­to all’Hotel Principi per il 5.07.1955; cioè domani, anzi quasi oggi visto che tra le nuvole del Centro-Nord Italia le lancette corrono verso la mezzanotte. A margine del profilo biografico dell’obiettivo greco-cipriota è sottolineato il movente sotto forma di imperativi: colpire Kosta; colpire Kosta per un favore a Londra; colpire Kosta per punire le forze iraniane che tradiscono gli accordi stipulati nel 1954; colpire Kosta, e dunque colpire ENI per contenere il corsaro Mattei e mandare chiaro messaggio dal triplice significato: 1) Lon­dra non dimentica i suoi nemici 2) non esiste segreto: per i nemici degli USA e dell’equilibrio stabilito non c’è pace né sicurezza alcu­na – sappiamo tutto, possiamo colpire chiunque e ovunque 3) l’ENI rimanga fuori dall’Iran.

La terza e ultima pagina del fascicolo striminzito contiene invece le note operative della mia missione. Si capisce che sono state com­pilate in fretta e furia dalla loro stesura assolutamente essenziale, ancor più del solito. Spero solo che questa urgenza non si traduca in grossolana improvvisazione all’ultimo minuto, dettata dall’impulsi­vità del momento. Non sarebbe la prima volta, anche con la potente Agenzia, che non è di certo infallibile come vorrebbe fare credere. E chi rischia di rimetterci carriera, vita, tutto quanto, sono io, il fes­so italiano, mica loro che se ne rimangono a ingozzarsi di tartine e cocktail Martini alla festa nell’ambasciata. Che ci si strozzino.

Le indicazioni superficiali non dicono molto di più di quello che mi ha sibilato The Kingfisher un’ora e mezza fa nei meandri del criptoportico sotto via Veneto e i suoi tavolini affollati di bella gente nottambula. Un contatto mi passerà a prendere in auto direttamente sulla pista.

Non fare domande, sarà il contatto a istruirmi. Alla fine di quattro misere righe trovo la risposta al dubbio che poco prima mi sono posto a riguardo della sottrazione della mia pistola Walther PPK dalla cartella di lavoro. Ed è una risposta a lettere ma­iuscole che mi fa accapponare la pelle.

OCCORRE DARE ESEM­PIO. USARE ARMA BIANCA NO DA FUOCO. PRATICARE SULL’OBIETTIVO IL METODO SUDAMERICANO COSID­DETTO DELLA “CRAVATTA COLOMBIANA”, COSÌ COME APPRESO. SEGUIRE ISTRUZIONI.

Tutto qui. Il metodo cosiddetto della “cravatta colombiana” è un’orrida pratica molto in voga nel conflitto civile che da anni in­fiamma la Colombia. La faida truculenta tra forze conservatrici e la fazione liberale è stata ribattezzata con un termine appropriato: La Violencia. Sì, è un nome che calza a pennello: omicidi di massa, croci­fissioni, stupri collettivi, scuoiamenti, mutilazioni, macellazioni. Las bestias si spingono al di là di ogni confine umano, alle donne incinte viene praticato un taglio cesareo grezzo e il feto sostituito con un gallo. Laggiù ne combinano di tutti i colori, la Colombia è diventata una galleria dell’orrore. La guerra sporca, la guerra sucia. Le forze paramilitari di asesinos y sicarios, indubbiamente dotate di una certa fantasia macabra, se ne inventano sempre di nuove, e noi dei servizi studiamo, prendiamo appunti da bravi scolari, alla scuola superiore di assassini internazionali prendiamo spunti. Picar para tamal: affet­tare il corpo di una persona vivente, ma con tecnica della lama che risulti essere extremadamente lenta, metodica, dolorosa, una práctica muy dolorosa. Bocachiquiar: con la punta del coltello praticare sul corpo del prigioniero fori, a centinaia e centinaia, cientos y cientos, fino ad ottenere un lungo dissanguamento, senza fretta. Los vampi­ros colombianos tienen sed. Al corso d’addestramento in tecniche di guerriglia a cui ho partecipato in Trentino assieme a due altri italiani della “ghenga”, c’era questo istruttore sudamericano esperto in cor­po a corpo e tecniche di offesa con l’arma bianca. Lui, insegnante trasfertista di squartamenti, di certo un boia di fiducia della CIA nel carnaio latinoamericano, mi ha insegnato il metodo cosiddetto della “cravatta colombiana”. Corbata colombiana: recidere la gola dell’avversario con un deciso taglio orizzontale, infilare le dita nella ferita per dilatarla, afferrare la lingua della vittima da dentro la gola ed estrarla fuori dallo squarcio, come fosse una cravatta di carne. I primi ad ingegnare la corbata colombiana sono stati i tagliagole dei conservatori con le cravatte blu, che commettendo quello scempio sui rivali liberali volevano con crudeltà ricordare la cravatta rossa dei nemici.

Estraggo dal fodero metallico rivestito di pelle nera l’amico lu­cente Caimani 1918. Stringo l’impugnatura fino a farmi uscire le vene blu sul dorso della mano. È dal 25 aprile 1945 che non uccido qualcuno, da dieci anni, da quando non chiusi con un colpo di ra­soio la mia relazione sentimentale con Emma Borghi alias Ginevra Roncalla, affascinante agente sovietico infiltratosi tra le fila dell’OSS, sotto le mie lenzuola. Mi chiedo se sono ancora capace di farlo. Gli assassini incalliti dicono che è un po’ come con la bicicletta, una volta imparato non si scorda più. È facile, anche dopo tanto tempo. Io imparai ad andare in bicicletta una notte di luna piena sul Lun­gotevere, aprendo la gola ad un giovane seminarista irlandese con le lentiggini. Vorrei bere ma ora non posso.

Il bimotore Douglas inizia la discesa. Fuori dal finestrino scorgo le deboli luci di Torino, che tratteggiano il centro della metropoli sabauda con rette e perpendicolari che s’intersecano in una severa pianta militaresca a scacchiera. Distinguo la sagoma bizzarra della Mole Antonelliana, ancora con la guglia decapitata, causa violento nubifragio nel ’53. Le lampadine all’interno della fusoliera si spengo­no. L’aereo senza insegne, mimetizzato nella notte, atterra dolce sulla pista secondaria in erba dell’aeroporto militare di Venaria Reale, cin­que chilometri a nord rispetto a Torino. Il Douglas vira di scatto sulla pista e senza spegnere i motori si mette di muso davanti alle sagome scure di hangar con le luci spente. La cabina di pilotaggio rimane chiusa. Il pilota fantasma non vuole né vedermi né conoscermi, lo ca­pisco. Il portello posteriore viene aperto, qualcuno traffica con una scaletta. Tra il baccano dei motori ad elica, odo un’imprecazione in dialetto piemontese. Mi avvicino all’uscita. Benché sia semibuio, due fasci arancioni di lampioni solitari distanti qualche decina di metri sono quasi sufficienti per distinguere la figura umana che ho sotto di me, sulla scaletta. È un giovane uomo, forse neppure trentenne, in camicia azzurra a mezze maniche, biondo spettinato, piuttosto basso e tozzo. Alza lo sguardo con una smorfia torva; ha gli occhi piccoli incattiviti e un naso sproporzionato sul volto sgradevole. Mi ricorda una raffigurazione di uno gnomo dei boschi, ma di quelli perfidi.

«Scendi, dai, bogia!».

Ordina brusco senza alcuna educazione lo gnomo sabaudo con marcato accento piemontese. Provo un’immediata antipatia, se non addirittura repulsione, per quell’essere che osa darmi del tu con tono burbero, manco fossi la sua serva. Mi chiede di consegnargli il fascicolo del greco con tutto quello che contiene. Obbedisco e lui arrotola il fascicolo e se lo infila nei pantaloni, sotto la camicia chiazzata di pioggia e sudore. L’aria è calda e pesante di umidità; un temporale estivo si deve essere sfogato da poco. Mi inzacchero le scarpe da sera di terra bagnata. Seguo lo gnomo malefico fuori dalla pista, percorrendo uno stretto passaggio tra due hangar. Alle mie spalle sento il Douglas dare potenza ai motori. L’aereo sta ma­novrando per ripartire senza di me. Il mio contatto tasta la rete della recinzione che delimita l’area militare dell’aeroporto, ne scosta un lembo, precedentemente tagliato con cesoie e abbastanza largo per farmi passare chino a quattro zampe verso una stradina di campa­gna. Sento la terra umida pressata dalle mie ginocchia. Il Douglas romba sulle nostre teste, invisibile a fari spenti, uno spettro alato nella notte. Il ronzio si allontana nell’oscurità, e il concerto dei grilli prende il posto del rumore dell’aereo fantasma. Allontanandoci dai pochi lampioni dell’aeroporto, il buio sta diventando profondo, ma gli occhi si stanno abituando e non perdo di vista la sagoma scura dello sgradevole accompagnatore che mi precede. Le zanzare asse­tate mi assalgono la faccia. Sul ciglio di un campo di mais c’è una Fiat 1100 modello familiare, con ampio baule. È un tassì in livrea verde e nera.

«Siediti dietro» mi ordina il contatto. Ci mettiamo in marcia con le ruote del tassì che schizzano acqua e fango delle pozzanghere, e dallo sterrato tra i campi di mais e il limite dell’aeroporto militare ci immettiamo nella strada provinciale con direzione sud. L’autista si accende una sigaretta, lo imito. La sua nuca bionda scompigliata mi innervosisce, quel tipo non mi piace per niente.

Estrema periferia nord di Torino: i campi scompaiono progres­sivamente per cedere terreno a capannoni manifatturieri; vecchie cascine derelitte, tristissime, un tempo di aperta campagna, sono inglobate, divorate dal tessuto urbano in espansione industriale, alte gru sopra cantieri in pausa notturna fanno da sentinelle agli scheletri dei palazzi popolari in costruzione urgente per ovviare alla sempre più forte richiesta di alloggi destinati alle masse operaie ar­ruolate dal profondo Sud, dalla fabbrica di braccia lavoratrici di Terronia. Mi trovo nella città della Fiat, la grande fabbrica italiana per eccellenza; Torino, feudo della signoria Agnelli. A parte noi non c’è nessuno in strada perché è lunedì notte, e domani si va a lavo­rare di buon’ora come tutti i santi giorni fino alla morte; qua siamo nel nord produttivo mica come i romani debosciati che sperperano tempo e denaro tra i tavolini dei caffè modaioli all’aperto e le piste da ballo dei nights all’americana, ubriacandosi di whisky e soda fino all’alba. Ci avviciniamo al centro e siamo in Piazza Statuto, deca­duta già dall’Ottocento, dopo il Risorgimento, quando la capitale fu spostata a Firenze, lasciando i torinesi baccalà furenti. Nelle in­tenzioni d’un secolo fa, la piazza sarebbe dovuta essere il quartiere diplomatico, con ambasciate, alloggi per i dignitari, militari, fun­zionari di stato e via dicendo, invece non se ne fece nulla. Secondo alcuni ciarlatani e appassionati di cose occulte, il luogo evocherebbe forze magiche, esoteriche, diaboliche. Non distante dalla piazza c’è infatti il Rondò della Forca, dove venivano impiccati i criminali e poi c’è questo monumento dedicato al traforo ferroviario del Fréjus con la statua del genio alato che mostra un bellissimo ragazzo dal fisico asciutto e atletico, e che secondo certi invasati di simbologie stregonesche rappresenterebbe un giovane e fascinoso Lucifero. La leggenda del cuore nero di Torino: solo fantasia di gusto gotico o c’è qualche pizzico di verità in queste storie di misteri sabaudi? Dovrei chiederlo al mio amico al volante là davanti, che da quando siamo saliti in macchina non mi ha ancora rivolto la parola. Dal finestrino intravedo gli spazi eleganti ma austeri che caratterizzano la fisionomia urbana di questa grande città conturbante e rigida allo stesso tempo, anche inquietante in certi suoi scorci, e che ti seduce a modo suo, ma è una seduzione fredda, di un bacio dato da labbra di ghiaccio. Davanti al parabrezza del tassì è il deserto metropolitano, non un anima viva, non un cane. Strada vuota, avvolta dal silenzio; strada metafisica, ammantata di inquietudine. Giorgio de Chirico, il pittore che dipinge spazi onirici e misteri di città immaginarie, mi pare abbia detto sul capoluogo piemontese e sulle sue suggestioni: “Torino è la città più profonda, più enigmatica, più inquietante, non solo d’Italia ma del Mondo”.

La sua anima tenebrosa non si scorda, né la sua atmosfera criptica. Erano anni che non mettevo piede a To­rino, non mi mancava. Passiamo il panorama di Palazzo Reale, e la vista barocca di Palazzo Madama e ci fermiamo al semaforo rosso di piazza Castello. Prima di inserirci nella lunga e porticata via Po, finalmente il mio autista si degna di rivolgermi la parola con il suo forte accento piemontese. Se non altro, la sua voce assurda, esagera­tamente tipica e macchiettistica, va a sdrammatizzare il momento di forte tensione che sto mio malgrado vivendo.

«Allora, ascolta bene» attacca lui di botto, senza voltarsi.

«Ascolta bene e non fare domande, va bin? Come già sai devi togliere di mezzo Alexios Kosta, il greco. Dovrai fare un bel travaj di lama. Tu sai come fare. Il greco alloggia all’Hotel Principi di Pie­monte, nei paraggi di via Roma, ma non è lì che stiamo andando. Il greco è andato a bagasse. Ti spiego. Sapevamo che sarebbe arrivato in città già da due giorni per incontrarsi con i capi della FIAT, ab­biamo scoperto poi che domani si vedrà con Enrico Mattei, grazie al nostro uccellino che abbiamo tra i suoi dell’ENI. Il concierge dell’Hotel Principi è mio amico. Sappiamo che il greco è un put­taniere. Allora il mio amico portiere l’ha avvicinato e con il modo di fare discreto che hanno i portieri dei grandi alberghi di lusso, gli ha domandato se voleva divertirsi a Torino. Il greco ha detto di sì perché come ti dicevo è un puttaniere che quando è in viaggio di lavoro vuole ciulare. Allora, cosa abbiamo fatto? Il mio amico gli ha caldamente consigliato il bordello di sua fiducia, Villa Melissa, un casino elegante che sta su in collina, e che qua a Torino gli habitué chiamano “Villa guêpière”. È il posto più chic della città per ciulare. Vedessi che roba. Ce n’è per tutti i gusti, anche per i più strani. Villa Melissa è nostra stazione di ascolto. Ci vanno i pezzi grossi, politici, dirigenti, industriali, editori, e noi ascoltiamo i loro ansimi, le loro bizzarrie, i pettegolezzi e le confidenze che dicono alle picie, nel momento del relax. Ascoltiamo e cataloghiamo tutto perché ven­gono fuori cose interessanti, e poi non si sa mai, certi vizi possono tornarci utili per rinfacciarli a quegli sporcaccioni danarosi, che son tutti sposati, son tutti casa e chiesa. Tu sai come vanno queste cose. La maitresse che gestisce la casa d’appuntamenti è madama Livia, ma si fa chiamare madama Melissa come la villa, che ha messo su nel ’39 grazie ai soldi dell’OVRA. Noi abbiamo ereditato dall’OVRA il casino intero, e la fiducia di madama Melissa, che lavora per noi. Sono io che sono passato a prendere con il mio tassì il greco all’Ho­tel Principi, e l’ho portato lassù un paio di ore fa. Con madama Me­lissa eravamo già d’accordo: abbondante sonnifero nel bicchiere del greco. Sono risceso in città e prima di venirti a raccattare a Venaria, ho telefonato da una cabina a madame Melissa, per sapere come andava con il greco. Mi ha detto che lo sporcaccione aveva scelto due ragazze, una alta e snella, la Carmen, e una cicciona come piace ad alcuni, la Loredana. Appena si è spogliato gli ha preso un gran sonno e ora ronfa beato nella stanza turchese con il letto tondo. Ed ora tocca a te e bon».

E bon. Rimango zitto a sudare freddo sul sedile posteriore del tassì che, passata la gigantesca Piazza Vittorio Veneto, il ponte sul Po, e la chiesa della Gran Madre di Dio, si arrampica per le vie ai piedi della collina. Per un secondo l’uomo al volante dal ridicolo accento così marcato si gira verso di me per guardarmi in faccia. Quel volto dal naso abnorme, gli occhi piccoli e crudeli e i capelli biondi spet­tinati e sporchi, unito alla sua pronuncia piemontese teatrale, fa di lui un personaggio grottesco, soprattutto tenendo conto della situa­zione bizzarra in cui mi ritrovo e di cosa stiamo andando a fare. Una macchietta malefica, una visione perversa della maschera di Giandu­ia, l’altra faccia di Macario. A Torino ci sono stato più volte, ma un tipo così non l’avevo mai conosciuto e non sapevo facesse parte della “ghenga”. Sono tante le cose che non so – è evidente – e la cosa mi sorprende e non mi piace. È frustrante per uno che credeva di essere ormai inserito ad un livello alto del gioco. In realtà non è così, e mi rendo conto di come la conoscenza delle cose, siano esse persone, luoghi, operazioni, segreti, rimane fortemente organizzata a compar­timenti stagni. Ad esempio, non conoscevo l’esistenza di villa Melissa, o meglio, la conoscevo per sentito dire, ma solo come casa d’appun­tamenti d’alto bordo, non come “stazione d’ascolto”, come Giandu­ia là davanti l’ha chiamata. Nemmeno ai tempi dell’OVRA sapevo dell’infiltrazione nel bordello e di madama Livia detta Melissa. Ogni grande città italiana da nord a sud ha i suoi tanti casini, spesso e vo­lentieri luoghi utili per l’attività d’intelligence. A Torino, che spicca in offerta di puttanai per tutte le tasche e ceti, sapevo del casino di corso Raffaello, frequentato dai maschi dell’alta borghesia cittadina e da uf­ficiali dell’esercito, e della “maison” sita in un elegante appartamento di piazza San Carlo, con clientela aristocratica. Ambedue i lupanari sono zeppi di cimici del servizio segreto militare del SIFAR. In corso Raffaello ci sono stato una volta, ricordo di essermi molto divertito.

Durante il tragitto in collina, mi continuo a domandare perché The Kingfisher e Earl abbiano voluto proprio me per quel lavoro sporco. Dev’essere una prova, non ho altra spiegazione.

Il tassì continua a salire per le curve collinari con i rami degli alberi che quasi si stringono a arco sulla strada in una galleria di verde, tra cancelli di ville liberty, o settecentesche, o di quelle mo­derne appena costruite per i nuovi ricchi dello sviluppo industriale. Prendiamo una strada buia, in forte salita, circondata da faggi e piante da frutto. Dopo duecento metri siamo di fronte ad un can­cello spalancato, e ai piedi del muro di cinta ardono nella terracotta alcune candele da giardino. Gianduia spegne i fari. Villa Melissa è aperta per accogliere i suoi raffinati clienti; maison discreta, è nascosta nel cuore della collina torinese, una condizione che deve essere molto apprezzata dagli avventori.

Le ruote scricchiolano sulla ghiaia calpestata; l’auto procede a passo d’uomo davanti ad altre macchine parcheggiate: Merce­des-Benz, spider inglesi, Lancia nere dirigenziali, persino una Rol­ls-Royce. Un energumeno stretto in un completo che ne risalta la massa da picchiatore ci viene incontro. Tiene al guinzaglio un rottweiler fuori taglia con il collare con le borchie appuntite per enfatizzare l’aggressività della bestia; pure lui energumeno, tale padrone tale cane. L’autista e il gorilla si scambiano un saluto si­lenzioso con la testa. Il tassì procede verso un angolo buio del giar­dino, sotto un cedro. Scendiamo. Lascio la borsa nel tassì, indosso i guanti di pelle nera e mi infilo il pugnale nella tasca profonda che sembra essere stata cucita apposta nell’interno della giacca. Gli energumeni – cane e padrone – sono a due passi. Il tassista acca­rezza il cane, si conoscono. Mi bisbiglia che alla bestiola talvolta fanno fare gli straordinari dentro il casino; c’è gente che a letto ha gusti davvero strani, e ridacchia con l’energumeno bipede. Ho il secondo necessario per lanciare uno sguardo alla villa: dimora liberty a tre piani più torretta, imponente, ben tenuta, prestigiosa. Dalla casa arrivano note musicali, un simpatico mambo cubano per trenini allegri e festini sexy. Le finestre del piano terra sono tutte illuminate; mi immagino sale di velluti rossi, ampi sofà, carrelli di liquori, mani curiose su decolleté vertiginosi. Ai piani superiori, le luci accese sono smorzate da tende tirate; mi immagino lenzuola di seta, cineserie, cha cha cha da materasso.

Il malefico gnomo piemontese mi dice di seguirlo verso il retro della villa. Entriamo in una dispensa colma di ogni ben di Dio, poi in una grande cucina con le maioliche verdi. Una vecchia sguatte­ra sta lavando piatti e bicchieri. Lo gnomo schiocca le dita. L’esile vecchia capisce senza alzare la testa, chiude il rubinetto del lavello e sparisce dietro una porticina, senza fiatare né guardarci. Dal corri­doio che porta alle sale e salotti proviene musica caraibica, vociare confuso, qualche risata sguaiata. C’è chi si diverte, mentre noi si lavora. Il tassista apre una stufa, si sfila il fascicolo di Alexis Kosta dalle braghe e con l’accendino gli dà fuoco. Guarda la carta bru­ciare fino a quando non diviene cenere nera, che sbriciola attenta­mente, assicurandosi con fare maniacale che non sia rimasta alcuna parola leggibile né tracce della fotografia del greco, ma solo polvere. Concluso il lavoro, saliamo per una scala a chiocciola di servizio fino al secondo piano. Nel corridoio, arredato con statue raffiguran­ti figure in marmo bianco in pose pornografiche, l’aria è impregnata dal profumo di fiori di gardenia e orchidee, un odore dolciastro invadente e nauseante, da puttana per l’appunto, o da bagassa come dice il mio ripugnante accompagnatore.

Faccio quasi un salto dalla paura quando una porta si apre di colpo e sbuca improvvisamente un fantasma. Il fantasma-maîtresse. È madama Livia in arte Melissa. Abbigliata con una sorta di lun­ga vestaglia in raso viola che struscia in terra, porta in testa una cuffia di fili d’argento, lustrini e brillanti, tipo una cotta di maglia non dissimile a quelle che portavano i cavalieri medievali, solo che questa versione puttanesca luccica che quasi ti abbaglia. Dita e polsi sono ingombri di oro, con le lunghe unghie del colore della vestaglia. Ha labbra anch’esse in viola e occhi d’un azzurro-chia­rissimo, che risaltano sulla faccia pallida di cipria, un cerone da morta, da puttana di Dracula. Un tempo immemore doveva esse­re stata una bella donna, alcuni tratti di bellezza sopravvivono in lei, dietro quella maschera di trucco cinematografico, fortemente decadente, per calcare la recitazione di quella parte, del suo per­sonaggio di madama Melissa, regina della villa, del proibito e delle notti segrete dell’austera Torino.

«Di qua, svelti» ci dice lei. Entriamo nella stanza turchese. Tutto è del color turchese: moquette, poltroncine, divanetto, tappezzeria vellutata, anche comodini e comò. Stucchevole e pacchiano, ti fa gi­rare la testa. Sul letto è steso addormentato Alexis Kosta, in mutan­de. Mi avvicino. La foto gli rendeva giustizia. La sua testa a punta, allungata a cucuzzolo, assomiglia proprio ad uno spremiagrumi. Sul petto nudo tra i ciuffi di peli grigi brilla un grosso crocefisso d’oro. Ha due capezzoli orrendi, sproporzionati e bislunghi. Il corpo dalla pelle olivastra mi ricorda un rospo in mutande. Sopra il bello ad­dormentato, appeso al soffitto, uno specchio per guardarsi mentre ci si accoppia riflette la mia faccia tesa e Alexis Kosta nel mondo dei sogni tra le lenzuola di seta turchese. Sul comodino è appoggiato un secchiello per il ghiaccio con la bottiglia di champagne corretto al sonnifero. Il tassista stende il copriletto sul pavimento di moquette turchese e mi dà nuovi ordini.

«Adesso lo portiamo fuori e lo carichiamo in macchina. Ce ne andiamo tutti e tre a farci un giro. Ti dirò dopo quando ti toccherà fare quello che sai tu».

Io prendo Kosta per le braccia, lo gnomo piemontese lo afferra per le gambe. Spostando il corpo esanime, mi sembra di sentire un suo flebile lamento nel sonno. Anche se è piccolino, il greco-ciprio­ta pesa. Gli esseri umani quando sono svenuti o sono morti, anche se individui magri, diventano macigni. Mi ricordo la faticaccia tre­menda che feci con il seminarista irlandese per buttarlo nel Tevere; da spezzarsi la schiena.

«Dai svelto, arrotoliamo il greco nel copriletto».

Lo adagiamo in terra e spingendolo per la schiena tentiamo di arrotolarlo come un salame. Madama Melissa, impaurita, guarda l’operazione sgranocchiandosi le unghia viola. Di colpo la mano del greco mi prende il polso!

«Cazzo!» urlo. Madama Melissa urla pure lei ed attacca a trema­re. Il greco ha gli occhi sbarrati. Sono chiari e grigi, due biglie lucide e inebetite. Puttane idiote, troppo poco sonnifero, porca miseria.

«Portatelo via! Portatelo via!» frigna la strega con il cerone alle mie spalle. Anche lo gnomo è arretrato, preso alla sprovvista. Il risveglio improvviso non era previsto dal suo piano raffazzonato all’ultimo minuto. Agisco, rapido. Con la mano libera torco il polso del greco e glielo rompo in un crak! di ramo spezzato, così mi libero dalla sua presa. Il male che gli procuro lo desta completamente. L’uomo emette un rantolo roco di dolore. Devo fare in fretta, c’è il rischio che i clienti e le troie nelle stanze vicine vengano allarmati. Se vengo visto da altri sono fregato, bruciato per sempre. Corro in bagno, prendo gli asciugamani. Torno nella stanza turchese; lo gnomo e la vecchia baldracca sono in piedi, a bocca aperta, due stupidi pesci lessi. Il greco è seduto sul copriletto, dritto di schiena, si guarda attorno con scatti del collo su cui poggia quella sua testa a punta, intontito, con il polso rotto tenuto dalla mano buona. Non capisce cosa gli sia successo, e soprattutto non ha idea di cosa gli sta per accadere. Mugola seduto di spalle, e non mi vede arrivare, né mi sente perché la moquette attutisce i miei passi. Il tassista ed io ci scambiamo un’occhiata, un lampo d’intesa. La sua espressione cambia all’istante, da attonita a crudele. Ha capito. Il mio mestiere richiede capacità d’improvvisazione. Poggio un asciugamano sulle spalle nude di Kosta. Sfodero Caimani 1918. Appoggio il ginocchio sulla schiena del greco e contemporaneamente gli metto la mano si­nistra sulla bocca, che premo con forza, e gli strattono la testa all’in­dietro. Con la destra gli squarcio la gola con un taglio secco, oriz­zontale, pulito, profondo e perfetto, da manuale. È proprio vero… è come con la bicicletta: certe cose non si dimenticano. La mano che ho sulla bocca della vittima vibra, il suo intero corpo è scosso da un tremore convulso, come se avesse messo le dita nella presa elet­trica. Con le mani, anche quella dal polso rotto, cerca di afferrare il suo assassino in un’ultima e inutile difesa d’istinto, ma gli riesce solo di schiaffeggiare l’aria. Un’agonia di cinque secondi. Kosta si affloscia, perde conoscenza. Lo rimetto supino. Ha sangue spesso e appiccicoso su collo, petto, stomaco e crocefisso d’oro. La ferita continua a sgorgare anche se rivolta verso l’alto. Ed è per questo che mi servono tutti gli asciugamani che sono riuscito a trovare. Alexis Kosta, l’ambasciatore segreto dello Scià, lascia questo mondo al do­dicesimo secondo successivo al mio lavoro di chirurgia, qualche ora prima dal suo incontro con Enrico Mattei. Stringo l’asciugamano attorno alla gola recisa. Da turchese cambia colore in un battibale­no; s’infradicia e diviene appiccicoso. Avvolgo la testa a punta con un altro asciugamano e un altro ancora. Il tassista mi aiuta. Sorride, lo gnomo. La parte superiore di Kosta è avvolta da una matassa di asciugamani; una palla, una testa gigante di spugna macchiata di chiazze scure. La maitresse trema in un angolo con la mano sulla bocca e gli occhi sgranati, terrorizzata. Il suo volto di cera sembra ancora più pallido. Arrotolato nel copriletto trasciniamo il cadavere fuori dalla stanza. Madama Melissa ci precede per controllare se la via è sgombra. Corridoio libero, avanti, forza e coraggio. Nella stretta scala a chiocciola di servizio ci incastriamo, il corpo del gre­co si accartoccia sui pioli di ferro, bloccandosi. Stiamo facendo un pasticcio, porca miseria. Ci viene in soccorso l’energumeno incon­trato in giardino. Strattona il greco cristonando come un carrettiere. Finalmente riusciamo a portare fuori il sacco di ossa e carne. Lo carichiamo nel baule della 1100 familiare. Lo gnomo sudato siste­ma la cappelliera sopra il portabagagli, per nascondere alla vista il nostro carico. Il rottweiler legato alla catena abbaia furioso, credo senta l’odore del sangue. L’energumeno gli lancia un biscotto per farlo stare zitto. Lo gnomo si rimette al volante del tassì, io dietro a fare da passeggero, e dietro ancora il greco con la gola aperta, che terzetto delle meraviglie. Lasciamo Villa Melissa, scendiamo per la collina. Facciamo un’altra strada rispetto all’andata. Quando siamo quasi in città, il tassì si tiene sulla destra di Villa della Regina, e si dirige verso la parte orientale della metropoli, sulla sponda sud del Po. Né io né l’autista apriamo bocca, non diciamo una parola. Non incrociamo anima viva. Scendiamo su una strada che costeggia il fiume, procediamo in direzione est, nord-est, seguendo il corso del Po. Fuori dall’auto scorrono i margini di Torino, con vecchie case popolari, ottocentesche o d’inizio Novecento, che danno l’impres­sione di trovarsi in borghi piemontesi fluviali assorbiti dall’espan­sione urbana. Ai muri, pubblicità di liquori, manifesti politici con scudi crociati, fiamme tricolori, falci e martello e un cane nero ai sei zampe con slogan Supercortemaggiore, la potente benzina italiana. Tutto chiuso, persiane sbarrate, serrande abbassate, i torinesi dor­mono, l’unico rumore è del motore della nostra 1100. Siamo quasi in campagna. Lo gnomo malefico prende una strada stretta tra un gruppo di cascine ancora sopravvissute ai tempi dell’edilizia mo­derna e dei nuovi palazzi periferici. Andiamo avanti. Dopo trecento metri, il tassì cambia di nuovo via, scende per una strada sassosa che ci fa ballare. Sento che nel bagagliaio il greco sta picchiando la testa. I fari mi fanno capire che ci troviamo in uno spiazzo sulla riva del Po, di cui vedo l’acqua e la sabbia di una piccola spiaggia ingombra di rifiuti e ferraglia. Il tassista spegne il motore e tira il freno a mano. Buttiamo giù il greco, lo liberiamo da asciugamani e copriletto del bordello. Trasportiamo il cadavere sul greto, appog­giandolo di schiena al tronco secco di un albero caduto in modo che rimanga in posizione seduta.

«Finisci il lavoro» mi dice lo gnomo. Va bene, finisco il lavoro come mi è stato ordinato di fare dalle istruzioni di The Kingfisher e di Earl, e come ho appreso dal macellaio sudamericano in trasferta durante le settimane d’addestramento avanzato sulle Alpi Orientali. Sempre indossando i guanti, inserisco tre dita nella ferita del morto. Non esce più il sangue, ma ho difficoltà a penetrare nella cavità della gola perché il sangue s’è coagulato in una marmellata collosa che ha appiccicato la pelle squarciata dal mio taglio secco e mor­tale. Che schifo, le dita scavano in una materia molle e immonda. Esplorano la laringe e poi la faringe e la bocca. Dio, ma che cosa sto facendo?!? Tocco denti, ugola, palato e la lingua. Riesco a girare la mano dentro il collo del greco, la ferita si dilata, altro sangue sgor­ga. Mi sforzo a non vomitare. Afferro il pezzo di carne molliccio, tiro verso il basso. Applico la teoria dell’istruttore macellaio che mi insegnò la cravatta colombiana. Mi ricordo di quando all’OVRA facevamo pratica di pugnale al mattatoio di Testaccio. Ma erano affondi, squarci e tagli su maiali, non su esseri umani. Faccio due passi indietro. Lo gnomo accende una torcia elettrica e la punta sul greco. La vittima ha la testa che pende a sinistra e dal collo, poco sotto il mento, fuoriesce il lembo di lingua, la sua cravatta. Corbata colombiana. La guerra sporca, la guerra sucia. Il messaggio è com­piuto e inviato: non si parla di nascosto. Mi volto verso il tassista, anche se non devo rivolgergli la parola sto per chiedergli «e adesso che si fa?», ma lui mi anticipa.

«Ho un tuo biglietto d’aereo per il primo volo per Roma. Do­mani mattina, alle sette in punto. Mancano ancora quattro ore. Il cadavere del greco verrà scoperto quando il sole sarà già alto. In questa lurida spiaggetta di fiume ci vengono vecchi pescatori e i ragazzini in vacanza dalla scuola a fare il bagno. Vieni, ti porto da un mio amico a mangiare un boccone».

Come può pensare quello sgorbio che io abbia fame? Di nuovo in auto e zitti a fumare, riattraversiamo Torino nel cuore della not­te, questa volta diretti all’aeroporto civile di Caselle. Sulla strada, il tassì svolta verso un centro abitato. Una luce di lampadina in fondo ad un vicolo illumina l’insegna di una trattoria di campagna. Lo gnomo bussa un paio di volte alla serranda, che qualcuno dall’inter­no alza abbastanza per farci entrare chini. Un giovane con occhiaie nere tipo calamai e capelli imbrillantinati d’unto ci accoglie. Lui e il mio accompagnatore si scambiano battute in dialetto di cui non afferro mezza parola. Non me ne frega niente di che si dicono, sono stanco morto. Mi chiedono se voglio mangiare qualcosa, dico di no. Mi chiedono se voglio bere, dico di sì. La trattoria è un postaccio infame: mobili tarlati, luci bassi e tristi, un bancone di colore verdo­lino, tavolacci con ancora sparsi piatti sporchi e posaceneri colmi. Tre tizi in fondo alla sala giocano a carte. Facce da forca. C’è puzza di tabacco stantio, ascelle, cucina, vinaccio. Il ragazzo con occhiaie nere e capelli al petrolio serve al mio amico gnomo un piatto di vitello tonnato e un mezzo litro di rosso, per poi tornare alla sua partita a carte con i ceffi suoi compari. Lo gnomo abbassa la testa sul suo banchetto e tace, ingozzandosi e ungendosi la bocca di salsa e vino. Dal canto mio, mi scolo una mezza bottiglia di cognac di sottomarca. Voglio solo rientrare a Roma, bruciare i guanti che ho adoperato per il lavoro e dormire per due giorni prima di rientrare dalla famiglia a Milano. Certo che The Kingfisher ed Earl mi han­no combinato proprio un brutto tiro con questa cosa del greco-ci­priota. Una prova, non c’è dubbio. Chiederò una vacanza ad Earl, desidero stare un po’ con Francesca, Giacomino e la piccola Maria Elena e tirare il fiato per prendermi una pausa da questa storia, da Mattei e da tutto il resto.

Alle prime luci del mattino, quando ci lasciamo all’aeroporto, per me è un momento di distensione, di pura gioia. Lo gnomo malefico mi consegna il biglietto delle Linee Aeree Italiane a nome di Oreste Lucciani, il mio alter ego all’interno dei servizi militari SIFAR. Dal­la mia borsa di lavoro, pesco dunque il tesserino del maggiore dei carabinieri Lucciani, con mia foto e credenziali. Se qualche agente di polizia agli imbarchi dovesse chiedermi i documenti, o di aprire la borsa, lo rimetterò in riga puntandogli sotto il naso il tesserino con autorevoli credenziali, misteriose, gagliarde, che mettono im­mediatamente sull’attenti ragazzini di leva e sottoufficiali panciuti. Mentre frugo nella cartella provo un brivido nel vedere pugnale e guanti neri, gli attrezzi del mestiere. Mi controllo abito e camicia: sono stato bravo, non una goccia di sangue. Scendo dal tassì per l’ultima volta. Sbatto la portiera e non mi volto nemmeno. Spero di non vedere mai più quel mostriciattolo. Fine del lavoro, e al diavolo.

Proprio prima di arrivare all’ingresso delle partenze, tre uomini usciti dalla porta a vetri degli arrivi mi tagliano la strada senza guar­darmi. Occhiali scuri, completi eleganti, passo rapidissimo. Raggiun­gono una grossa berlina in attesa. Uno dei tre lo riconosco all’istante. Piglio nervoso, movimenti decisi, un uomo d’affari di mezza età sicu­ro di sé. È Enrico Mattei, appena sbarcato in città. Ancora non sa che l’incontro con Alexis Kosta è saltato.

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