«I pensieri di un tempo, tesi alla ricerca ostinata quanto infruttuosa di una illusoria e armoniosa giustificazione della vita, mi assalirono con forza ancora maggiore, simili quasi a un incessante mal di testa. Impossibile ricacciarli indietro. A differenza di chi confida nell’esistenza razionale di un principio divino, io ero più propenso a credere che il mio desiderio inestinguibile di afferrare l’inafferrabile si spiegasse soltanto con l’imperfezione dei miei organi di senso; era per me indiscutibile come la legge della gravità o la forma sferica della terra. E sebbene lo sapessi da tempo, non riuscivo a smettere di pensarci. Quando seguivo lezioni o leggevo libri legati a questo argomento, mi sorprendevo sempre a invidiare mio malgrado il professore o l’autore: per loro era quasi tutto chiaro e vedevano la storia dell’umanità come una successione logica di fatti il cui senso unico e certo era che essi confermavano le conclusioni e le posizioni fondamentali delle loro teorie politiche e sociali. C’era qualcosa di confortante e di idilliaco in tutto questo, una sorta di benessere metafisico per me inaccessibile».
Il ritorno del Budda (1947) di Gajto Gazdanov è l’anamnesi di un paziente affetto da un male metafisico. In quest’opera sono trattati tutti i temi principali dell’opera di Gazdanov. Da questo punto di vista, le novità introdotte in questo libro possono essere lette come un completamento del percorso intrapreso ne Il fantasma di Alexander Wolf. A differenza di quest’ ultima opera l’intreccio de Il ritorno del Budda è molto più semplice: un giovane studente russo che vive a Parigi diventa amico di Pavel Aleksandrovič Ščerbakov, un suo connazionale che dopo essere stato a lungo un mendicante riceve un’ingente eredità da suo fratello e diventa ricco. Il pretesto di questa amicizia è casuale: Ščerbakov, quando era ancora mendicante, aveva ricevuto dal protagonista una mancia non indifferente (10 franchi). Ščerbakov successivamente viene ucciso da Amar, il compagno della sua concubina Lida. Amar è un marocchino polacco analfabeta e tisico che, dopo aver inscenato un crimine dal movente troppo semplice (l’ottenimento dell’eredità di Ščerbakov attraverso Lida), viene arrestato e condannato a morte. Subito dopo la morte di Ščerbakov è il suo caro amico ad essere accusato del suo omicidio. Lo studente sarà scagionato grazie al ritrovamento della statua raffigurante un Budda assai particolare che Amar aveva rubato dalla casa di Ščerbakov la sera dell’omicidio. Il libro si conclude con la partenza del protagonista per Melbourne, città dove vive la sua ex fidanzata Catherine. Nonostante Catherine nel frattempo si sia sposata e abbia poi divorziato, i due sono ancora profondamente innamorati.
Esclusa per un momento la conclusione, grande parte del romanzo è dedicata alle allucinazioni del protagonista. Nonostante questi sia perfettamente consapevole da un punto di vista teorico del fatto che le allucinazione siano solo il frutto della sua immaginazione, non riesce a credere, data l’evidenza assoluta e la forza di tali immagini, che esse siano in realtà totalmente irreali. Questa descrizione non deve indurre a pensare che l’argomento e il fine dell’opera siano l’anamnesi letteraria di una patologia psichiatrica che viene indagata e descritta in tutti i suoi risvolti fino ad arrivare o al punto di non ritorno o alla guarigione del malato. Sarebbe un errore affermare che questa sia l’impostazione data da Gazdanov alla sua opera. Il protagonista è infatti affetto da una malattia metafisica. Il fatto che l’eziologia di tale patologia sia esclusivamente ricondotta dallo stesso protagonista al sostrato organico-fisiologico, e quindi a cause prettamente medico-scientifiche, non esclude che vi possano essere conseguenze di diverso tipo. Gazdanov considera e confronta sistematicamente tutti questi livelli. La traduzione in termini metafisici dell’anamnesi psichiatrica sopra esposta è la seguente: il protagonista è condannato ad essere sempre fuori di sé. Mentre ne Il fantasma di Alexander Wolf il protagonista, estenuato dal senso di colpa per aver ucciso un uomo, cerca costantemente di uscire da sé e abbandonare per un momento la propria misera individualità, ne Il ritorno del Budda il protagonista, nonostante cerchi ardentemente di rimanere ancorato alla propria particolare identità storico-empirica, è destinato ad essere sempre altro da sé. Nel primo caso il risultato è la presa di coscienza del senso preciso della propria esistenza, mentre nel secondo, al contrario, viene sottolineata l’aleatorietà della vita. Se nel primo caso il senso di colpa spinge non all’evasione, ma alla ricerca di un senso superiore che includa in sé anche il male autenticamente commesso (che dal punto di vista morale rimane ingiustificabile), nel secondo l’individuo è strappato al proprio involucro esistenziale ed è gettato nell’infinito, nell’indeterminatezza, nel niente. Le prime righe de Il ritorno del Budda confermano questa lettura:
«Morii (…). Non meno straordinario, del resto, era il fatto di essere il solo a sapere di questa morte, l’unico testimone. Vidi me stesso in montagna; (…)».
All’aggravamento di questa malattia metafisica corrisponde un’ulteriore estraniazione da sè: prima l’insistenza sui propri pensieri, poi le improvvise e susseguentesi immagini di paesaggi indeterminati, poi vere e proprie allucinazioni fatte di luoghi e personaggi lontani, le riflessioni su avvenimenti storici e fenomeni religiosi di diverso tipo e, alla fine, il buio completo, cioè la completa incoscienza di sé. Il protagonista, tutto preso dal proprio abisso, arriva a vagare per diverse ore per la capitale francese senza rendersi conto di nulla. Questa metafisicità della patologia psichiatrica è analizzata da Gazdanov come un livello completamente autonomo: il protagonista, per usare le parole dell’autore, non solo commette un “omicidio teorico”, ma è vittima di un agguato e di un’ingiusta detenzione dello stesso tipo, ama in questo modo la concubina del suo amico in una camera d’albergo piena di specchi che alterano, ingradiscono e riproducono i movimenti dei corpi, lo spasismo dell’orgasmo, la fugacità dell’atto. Tutto ciò avviene a livello appunto teorico, cioè non reale da un punto di vista meramente empirico. D’altro canto la forza dell’evidenza e la totalità di questi eventi non permettono di considerarli irreali. Il senso di colpa nei confronti di Ščerbakov è dovuto proprio a questa ragione: in un certo senso l’amplesso è realmente avvenuto. Inoltre è interessante notare che in questo caso l’omicidio, a differenza de Il fantasma di Alexander Wolf, non porta a nessun senso di colpa. In questo caso l’omicidio non diventa il pretesto per una riflessione che abbia per oggetto sé stessi e l’essere in generale. Il ritorno del Budda non solo completa molte delle tematiche trattate nell’altra opera già citata, ma propone una soluzione al problema dell’immobilità presupposta dall’idea della morte e al cinetismo dell’assasinio. In questo caso assassinio e morte sono entrambi considerati da un punto di vista cinetico.
L’unica persona realmente a conoscenza della tragicità metafisica in cui il protagonista è costretto ad errare è la sua ex fidanzata Catherine. La patologia è stato proprio il motivo che aveva indotto il protagonista ad interrompere la loro relazione. Il loro amore, tuttavia, non rimane scalfito né dalla lontananza né dal tempo trascorso. La conclusione di questo romanzo presenta un cambio totale di registro: per la prima volta il protagonista riesce, con un atto della propria volontà, a resistere alle proprie tentazioni metafisiche e, dopo aver ricevuto una lettera da Catherine, capisce che il senso della sua intera esistenza è determinato da questo amore. Tutti gli avvenimenti vissuti fino a quel momento vengono quindi considerati come momenti intermediari volti alla presa di coscienza di questa verità. In altri termini il vagare metafisico del protagonista viene ricondotto alla sua esistenza individuale: il nuovo orizzonte scoperto è proprio questo. La metafisica, in questo caso, è servita alla vita. Il lungo viaggio metafisico del protagonista si trasforma in un viaggio reale, concreto: partire per l’Australia verso Catherine, cioè verso ciò che incarna il senso della sua esistenza. Il libro termina prima che il viaggio abbia inizio. In ogni caso si ha la sensazione che esso sia una sorta di Odissea, un ritorno verso casa, cioè verso l’origine. Un nostos che non è una scommessa per il futuro, ma una granitica certezza. Ne Il fantasma di Alexander Wolf il tema romantico del ricongiungimento con l’origine inteso come realizzazione del proprio destino era stato descritto con il momento della morte che incarna in sé la totalità dell’esistenza.
Allo stesso modo de Il fantasma di Alexander Wolf, anche con quest’opera non si può non notare come Gajto Gazdanov sia per molti aspetti uno scrittore occidentale. Tutte queste peripezie metafisiche sono la trasposizione letteraria della crisi filosofica della modernità, dell’incombenza del postmoderno. La soggettività solida e monolitica tipica della modernità inizia a sgretolarsi a causa delle tensioni centrifughe in cui sono cadute le sue componenti. La razionalità, la fantasia, l’immaginazione, la corporeità, l’aspirazione all’assoluto, la moralità lottano in un’arena che solo lontanamente ricorda l’unità organica perduta: ognuna di queste componenti tenta di prevalere sulle altre, esse hanno ancora qualcosa da dire e, proprio per questo motivo, Il ritorno del Budda non può essere definito come un romanzo postmoderno tout court. A ciò si aggiunge il tema della nostrofilia, che in Gazdanov corrisponde all’unica via ancora percorribile, alla possibilità di uscire dalla nebbia nichilista per ritornare alla vita e alla realtà. In altre parole la nostrofilia è l’antidoto di Gazdanov contro l’inevitabile avanzata del postmoderno. Prilepin ha proposto di cominciare ad indagare l’origine di Gazdanov partendo da Michail Lermontov. Ai fini di una profonda comprensione della poetica di Gazdanov si deve aggiungere che nelle sue opere il cristianesimo e la religiosità in generale sono quasi completamente assenti: in Gazdanov manca quell’insieme di dottrine che costituisce il bagaglio essenziale di ogni credente. L’unica informazione certa è che Gazdanov fu massone. Ma ciò non chiarisce nulla, al contrario lo complica. Al di là della versione stereotipata che troppo spesso si dà della Massoneria in generale, si deve tenere presente che nello stesso luogo e momento storico le diverse logge massoniche facenti parte di un Grande Oriente possono essere caratterizzate da indirizzi esoterici e filosofico-spirituali (banalmente, teorico-tematici) assai differenti. Quello che si sa è che Gazdanov apparteneva alla loggia massonica La stella del Nord, facente parte del Grande Oriente di Francia.
Molto spesso Gazdanov è stato paragonato, in quanto scrittore non secondario, ai giganti dell’epoca, cioè a Kafka, Proust, Camus. In quanto emigrante russo è stato troppo spesso non solo confrontato, ma anche letto a partire da Nabokov. La fissazione patologica occidentale per qualsiasi forma di antisovietismo da parte dei russi dell’epoca non solo porta a un travisamento della reale poetica di un gigante della letteratura novecentesca come Nabokov, ma anche alla reductio ad unum e alla semplificazione di un panorama letterario fortunatamente assai screziato. Lo stesso è successo non solo a Gazdanov, ma anche a Romanzo con cocaina di Ageev (pseudonimo che ancora oggi non sappiamo a chi appartenesse). Un’opera come Il ritorno del Budda richiede l’elaborazione di un parallelo più fondato e meno stereotipato. Vjačeslav Ivanov ha parlato a questo riguardo di «realismo magico». Gajto Gazdanov viene così paragonato a scrittori europei come Borges e Buzzati. Il finale de Il ritorno del Budda, allo stesso modo di Un’amore di Buzzati, è, secondo il commento che Montale aveva dato di quest’ultima opera, «vero, terribilmente vero».
Un’altro parallelo che non può essere omesso è quello con La morte a Venezia di Thomas Mann. Anche nel caso di Gazdanov la patologia che costituisce il vero protagonista del romanzo può essere descritta in termini filosofico-letterari con la categoria del tragico. Ne Il ritorno del Budda nulla è ben definito: i contorni di qualsivoglia descrizione sono sempre poco chiari e distinguibili. Il repertorio di personaggi presentato in quest’opera per molti aspetti richiama direttamente le descrizioni dei personaggi de “La morte a Venezia” (in primis quelle di Tadzio e del vecchio in abito estivo giallo incontrato dal protagonista sul battello diretto a Venezia). Ne Il ritorno del Budda il tragico è direttamente legato alla preponderante componente postmoderna del romanzo. Ogni confine diventa labile e indeterminato, vi si descrivono infatti: omicidi e amplessi teorici, malattie metafisiche, allucinazioni reali, destini di vita aleatori, riflessioni irrazionali… In ogni caso tale condizione è individiabile da parte dell’uomo occidentale contemporaneo: in Gazdanov le diverse componenti di un io ormai non più monolitico mantengono infatti la propria forza fondativa, mentre oggi tali componenti non esistono praticamente più, essendo diventate baumianamente fluide. Gazdanov, ben consapevole dell’inevitabilità della crisi nichilistica in cui stava per cadere l’Occidente, un attimo prima della caduta, del punto di non ritorno, decidendo di avventurarsi per Melbourne in vista di un amore che ha ancora tutto da dire, di una vita che deve essere ancora vissuta, abbandona l’Occidente alla sua lenta e inutile agonia…