OGGETTO: L’apocalisse del signor Rozanov
DATA: 22 Marzo 2021
Dove altri arrivano tramite l’etica e la teologia, Vasilij Vasil’evič Rozanov, eccentrico intellettuale russo, arriva usando paradossi e blasfemia
VIVI NASCOSTO. ENTRA NEL NUCLEO OPERATIVO
Per leggere via mail il Dispaccio in formato PDF
Per ricevere a casa i libri in formato cartaceo della collana editoriale Dissipatio
Per partecipare di persona (o in streaming) agli incontri 'i martedì di Dissipatio'

Quando nei primi terribili mesi dell’anno 1918 raccatta cicche di sigaretta e carte di giornale nei pressi della stazione di Sergiev Posad, piccolo distretto a nord di Mosca, Vasilij Vasil’evič Rozanov  maledice i bolscevichi e i socialisti, i liberali e i democratici, l’Europa. Ripensa forse agli anni in cui, polemista brillante per il Novoe Vremja (Tempo Nuovo), a fine giornata, tovagliolo al collo, si tagliava una fetta di pasticcio di cavolo nel tepore del “ventre”  domestico assistito da “mammina”, Varvara Dimitrievna, la moglie che lui chiama anche “l’amico”. Una moglie già l’ha avuta, Apollinarija Suslova, amante di Dostoevskij, manipolatrice, cattiva come un aspide. L’ha sposata per megalomania e spirito d’emulazione, ricevendone solo amarezze. Con Varvara, figlia di un rozzo diacono e vedova, ha sperimentato consolazione, pietà e il calore della casa, che, come la vita, deve essere “calda, confortevole, rotondetta”. Questo motivo della casa e dell’intimità coniugale, assieme a quello del domostroj, il “borghetto”, nido e rifugio contro il “freddo”, gli tornano in testa  insistenti come litania.

Dal 1912 al 1916 ha fatto uscire tre opere: SolitariaFoglie caduteQuisquilie (raccolte da Adelphi col titolo Foglie cadute). Qui aveva infilato, senza consequenzialità logiche, ordine o misura frammenti, impressioni, bozzetti, invettive, riflessioni tronche, esclamazioni (e qualche ingiuria), “filamenti autunnali, sospiri, quanto è pressoché impercettibile”. Con tanto di annotazioni su tempi e luoghi di stesura (in treno, al caffè, al bagno, su carta da sigaretta, sulla busta della spesa…), dagli scritti di Rozanov non si cava neppure uno zibaldone. Convinto che “non sono i nostri discorsi, ma le nostre scarpe a formare le convinzioni di ognuno di noi” abbraccia una poetica dell’irriflesso, della sensazione immediata  (“io rido soltanto, o piango. Ragiono forse in senso proprio? Mai!”).

Fedele al principio che tutto ciò che è troppo elevato e nobile è anche astratto e freddo, fa dei dettagli concreti e carnali i suoi idoli, è feticista in quisquilie (“il grandioso mi è sempre stato estraneo. Non l’ho mai amato né rispettato”). D’altronde, contro coloro che continuano a immaginare l’anima come una “sostanza” (con tanto di proprietà) replica “ma perché non potrebbe essere una musica?”, inoggettivabile volatilità? Ma in questo procedere per guizzi e capricci, che lo fa prossimo agli Altenberg, ai Léauteaud, emergono un gusto per il paradosso, una fisiologica propensione all’antinomìa che lo rendono più che un talentato flâneur. “Due angeli siedono alle mie spalle: l’angelo del riso e l’angelo del pianto. E il loro perpetuo dibattito è la mia vita”…

Carne e angelismo, terrestrità e sublime, sinagoga e chiesa, teologia e gartonomia, bianchi e rossi… Rozanov fa del rovesciamento una tecnica, della contraddizione irrisolta una professione di fede. Altrove, sulle vicende politiche russe aveva scritto “non c’è forse un briciolo di verità nella rivoluzione come nella reazione?” Ora si è compiuta, la rivoluzione, quest’Idra incapace di produrre gioia. E con la rivoluzione il freddo, spauracchio concreto e metafisico di sempre: “l’anima si è infreddolita. Com’è terribile questo rabbrividire dell’anima” (sembra di sentire i diavoli di Dostoevskij e Bernanos, anche loro hanno sempre freddo…). Ora Vasilij maledice la Madre Russia. E il prezzo di una scorta di patate lievitato a 50 rubli.

Ha scritto un’ opera che esce sotto forma di opuscoli grazie alle sottoscrizioni dei (pochi) amici rimasti. Sarà raccolta col titolo L’apocalisse del nostro tempo. È qui che vomita i suoi anatemi sul tempo presente, qui si consuma l’ultimo, drammatico corpo a corpo con la contraddizione intrascendibile di tutta una vita, la sua paolina spina nella carne, di tutte le sue ossessioni la regina, l’amato-odiato: il Cristo.

“L’universale sepoltura del mondo nel Cristo è probabilmente il fenomeno più estetico, la forma più alta della bellezza mondiale”.

Eppure, anni addietro aveva scritto un articolo, Gesù dolcissimo e gli amari frutti del mondo, programmatico oltraggioso rovesciamento di valori diretto contro un cristianesimo platonizzato, esangue, svirilizzato, tanto più pernicioso e subdolo quanto sublime e suadente nelle sue forme. E nell’Apocalisse ora rincara la dose: “Tu solo sei bello Signore Gesù! E hai oltraggiato il mondo con la Tua bellezza”; “là dove è divampato il fuoco del Cristo…ma divampato davvero…laggiù non attecchirà mai più nulla”; “Oh, non si ha bisogno di cristianesimo…orrore, orrore. Signore Gesù, perché sei venuto a turbare la terra? A turbarla e disperarla?”. Cristo è il “principe del sepolcro”, il Figlio che ha evirato il Padre, che è venuto a sovvertirne la fecondità creatrice mutandola in risentimento per il mondo, privando l’uomo persino di quella forza  che è il peccato. Della  rinuncia ai regni di questo mondo che il demonio gli offre nel deserto dice: “niente regni…niente mondo…Nichilismo. Ah, ecco dunque dove sta la sua radice”.

Il mondo, che Vasilij assimila a un bel pasticcio caldo e sugoso, è stato svuotato del ripieno dal Cristo. La crosta che resta è il cristianesimo. Nell’ Apocalisse l’antagonista del cristianesimo, degli “uomini di  luce lunare”, invocato dal freddo della rivoluzione, è il Sole. “Provate a crocifiggere il sole. E vedrete chi dei due è Dio”. Anni prima ha scritto un libro, Da motivi orientali, esaltazione dell’Egitto antico e della sua religione. Forse l’idea gli era balenata ai raduni filosofico-religiosi, mentre gli altri dibattevano accoratamente e lui tirava su col naso, la testa fra le mani, e quando parlava, sputacchiando, gli uscivano borborigmi  di esaltazione del sesso, della procreazione, della santità superiore della vita coniugale, della carne (plo-plo lo chiamavano gli amici: onomatopea che sta per sesso, carne, polpa…). Tutto bardato di  un personalissimo sistema di analogie ed una filologia ancor più estrosa, sprofonda, regredisce all’amato Egitto, Egitto eterno, infanzia felice dell’umanità (prima della biblica invenzione della storia).

“Abramo, capostipite degli ebrei, passò in Egitto, quando questo brillava di ogni luce. Abramo balbettava […] l’Egitto parlava con la voce piena dell’adulto”.

Egitto di fronte al quale tutti gli altri popoli sono infanti, infanti ingrati che hanno dimenticato il Padre, che ha dato all’umanità la religione universale del Padre e della Madre, Sole dispensatore di calore-vita,  Egitto creatore dei simboli più pregni e poetici, Sole- Ra, Api, Iside, Maat,… Come l’Esenin di Inona, la commistione uomo-animale, le immagini teriomorfe lo mandano in sollucchero (non ama forse L’Apocalisse di Giovanni per via di tutti quegli animali assisi presso il trono dell’Altissimo?) Ancora torna il grembo caldo, la madre sulle cui ginocchia si appresero la preghiera e il canto e il pensiero della morte, che gli è del tutto inaccettabile, è ricacciato fuori dalla “rotonda verità” della natura…”Egitto…tu solo hai tutto compreso. O saggio!”

C’è  un capitolo, Il Boschetto sacro, ennesima esaltazione del sesso (“nel  sesso c’è potere, il sesso è potere”), dove Tebe, Menfi, Eleusi se ne stanno disinvoltamente mischiati. Eppure, per quanto  vi sia di fantasioso, quale forza hanno le sue immagini rispetto alla sensualità decadente dei Merežkovskij, dei Bal’mont! Ma la catastrofe si è abbattuta sulla Russia, sui suoi affetti… e il Sole si è dileguato. Persino gli ebrei, verso i quali aveva tenuto più di un’ambiguità (come nel caso Bèjlis, l’affaire Dreyfus russo)  sono rivalutati, ammirati, tanto che “bisogna scegliere l’Antico Testamento o il Nuovo”. La religione del Padre, Dio di tende e famiglie e non della fredda siderale infinità, gli sembra adesso sommamente consolante, calda, pacificante. E allora chiede perdono: “Ebrei vivete […] in voi è certamente quel chicco di grano della storia universale […] Vivetene”. E conclude: “l’Ebreo sia benedetto”.  Con l’abbraccio al popolo eletto e l’ammonimento a porre il proprio “nido” sotto la mano di Dio si chiude l’Apocalisse del nostro tempo.

Ma la battaglia di Sole e  Luna, del seme e del sepolcro non si cheta. All’inizio del 1919 Rozanov è colpito da paralisi parziale. E mentre, costretto a letto, si appresta a vivere gli ultimi giorni, il polemista feroce, lo ierofante del Sole-Padre-Calore-Sperma volge di nuovo gli occhi al Crocifisso. Gli ha mai realmente voltato le spalle, lui che allo sgomento per le opere del Cristo accompagnava uno schietto, viscerale amore per le umili sporche chiesette e i loro pope bisunti, per la divina liturgia, per il “lezzo” del cristianesimo russo, tutto impastato di terra e imperfezione? Sia come sia, il Cristo-Sepolcro, sibarita del dolore e tanatofilo, giglio immacolato esangue, il  Gesù “di rose inghirlandato/in un nembo imperlato” che marcia non veduto e silente in testa ai Dodici di Blok…adesso sosta al suo capezzale.

“Figli miei, non posso liberarvi dal dolore (no, dopo tutto non posso! Oh, quale terribile pena). Ma ecco, guardandoMI, ricordandoMI confitto quassù, avrete qualche conforto, qualche consolazione e sollievo, poiché anch’Io ho sofferto…Se è così, se è venuto a mitigare un dolore inevitabile, un male invincibile, se è venuto a lenire soprattutto lo strazio della morte e dell’agonia…Allora tutto diventa chiaro. Tutto è Osanna…”

così in Foglie cadute

Ora Vasilij è tutto un inno a Cristo, indossa il saio del penitente e chiede che si uniscano preghiere alle sue. Per la confessione scarta l’amico Florenskij, il dotto e geniale Florenskij. Che gli diano un pope di campagna, brusco e rozzo, da cui ricevere non comprensione, ma una bella strigliata. Si dice che immediatamente prima di morire, il “pio” Vasilij, riconciliato col Cristo e con la chiesa, abbia chiesto di restar solo col “suo” Dio, una statuina di Osiride sul comò. E se fosse, perché scandalizzarsene? Uomo della contraddizione, “Léon Bloy russo” secondo la Berberova; per Berdjaev geniale piccolo- borghese metafisico; magistrale stilista oltre ogni avanguardia per Šklovskij e Poggioli; doppio, sessuomane, forse un po’ cialtrone per tutti gli altri…

Di Rozanov, come dello “stolto in Cristo”, lo jurodivyj che per meglio servire Dio bestemmia, fa lazzi osceni e fracassa icone, si deve dire che sta sotto o sopra o di lato rispetto all’uomo comune. Russo, non è mai borghese. Come l’arciprete Avvakum lotta col suo Dio quasi fisicamente, tanto se lo sente nella carne. Aveva scritto che l’uomo religioso è naturaliter superiore al poeta, al filosofo, al genio. Dove altri arrivano per astrazione teologica o per rigore etico, lui arriva per via di paradossi e blasfemìa. E senza una punta di paradosso e blasfemìa non si combina nulla in religione.

I più letti

Per approfondire

Dolce far niente

La riscoperta (e l’importanza) dell’otium

Barbara Alberti

"Mi innamorai di Majakovskij, il grande illuso. Il tema, più che la gelosia, riguardava in realtà il mondo in cui è vissuto il poeta russo; un mondo fatto di utopie, dove i grandi delle avanguardie raggiunsero la massima felicità artistica".

Leibniz, l’emissario

Conosciuto come l’inventore del calcolo infinitesimale, Leibniz era anche un raffinato diplomatico e consigliere che viaggiava da Regno a Regno nell'Europa dei grandi Imperi.

Rimanere a casa come ritorno a casa

La filosofia come approccio alla quarantena.

Davit Gareja, il monastero conteso nel cuore del Caucaso

In un remoto altopiano tra Georgia e Azerbaijan, da secoli patria di monaci eremiti, il crollo dell’Urss ha lasciato un controverso confine incerto e una città in rovina che ora vuole rinascere con il turismo

Gruppo MAGOG