Solo dopo aver rovistato tutte le stanze del Cancelliere Imperiale, Fritz v. Holstein capì che non aveva più nessuna speranza. La lettera delle sue dimissioni non era presente. In quella sera primaverile del 1906, i servi del padrone di casa – spronati dagli isterici incitamenti del Primo Consigliere del reparto politico del Ministero degli Esteri – avevano invano setacciato ogni anfratto. Holstein, il manovratore che da dietro le quinte aveva orchestrato quarant’anni di politica estera tedesca, era arrivato troppo tardi. Per una volta il corso degli eventi non aveva seguito la traiettoria da lui minuziosamente prefigurata e, quasi come in un impeto di ribellione, i fatti avevano deciso di prendere una strada diversa, di spezzare quelle briglie logiche con cui sovente erano stati ammansiti per condurre il destino suo e di un’intera nazione. Holstein provò un certo imbarazzo. Durante tutti quegli anni gli era capitato di pensare a come potesse essere la fine della sua carriera politica, ma mai avrebbe immaginato che sarebbe stato lui l’artefice della propria rovina. In quasi mezzo secolo di servizio era sopravvissuto a tre Imperatori, quattro Cancellieri e centinaia di funzionari pronti a tutto pur di guadagnarsi una fetta di potere; era stato il foraggiatore delle più brillanti ascese politiche e si scorgeva la sua ombra sulle cadute più fragorose: tutti avevano paura del suo potere, molti avrebbero desiderato la sua fine, nessuno lo considerava un amico. Eppure tra i tanti e valorosi nemici di cui si era circondato, come tutti gli eroi tragici che abbandonano il campo di battaglia solo dopo aver sconfitto se stessi, doveva volgersi a uno specchio per scorgere il colpevole della sua disfatta.
Questa volta però, l’ingranaggio ben collaudato delle dimissioni non aveva funzionato e la lettera vergata a mano da Holstein era arrivata direttamente al Kaiser Guglielmo II. Holstein cercò di ripercorrere i fatti degli ultimi mesi per cercare di scorgere quel dettaglio, quell’inezia nel mare di grandi eventi che avrebbe potuto dare una speranza e un significato al naufragio beffardo che stava vivendo. Non poteva essere un caso, un’evenienza non calcolata e non calcolabile a farlo cadere. La tattica con cui stava conducendo il grande gioco delle potenze europee di inizio secolo era quella a lui più congeniale: simulare e dissimulare per scoprire fin dove i suoi avversari erano disposti a rischiare. Quaranta anni prima, quando Bismarck era il mazziere della partita europea, la Germania non si sarebbe mai trovata con una mano del genere. La straordinarietà delle imprese del Cancelliere di Friedrichsruh si forgiava nella forza, in un certo senso metallica, con cui riusciva a imporre la sua visione ai grandi del continente. Che i suoi argomenti fossero le baionette dell’esercito prussiano o le macchinazioni diplomatiche, l’interlocutore inesorabilmente cedeva come una lastra d’acciaio piegata in una delle tantissime fucine industriali che si stavano impadronendo del paesaggio tedesco. Bismarck utilizzava l’incontrovertibilità dei fatti per raggiungere i suoi obiettivi. La disfatta di Sedan era un fatto irrefutabile che sanciva agli occhi dei francesi la superiorità tedesca. La ragnatela di accordi e alleanze che legava indirettamente Berlino con le capitali europee dimostrava di fatto l’impossibilità per Mosca, Vienna o Roma di agire autonomamente sullo scacchiere continentale. La Germania non era potente, potenza significa possibilità del soggetto di modellare la realtà a proprio piacimento – un concetto che rimanda a una dimensione futura, o altra, comunque non presente – ma era forte, di una forza attuale, in quel momento inattaccabile.
A essere esatti era l’undicesima volta che Holstein rassegnava le dimissioni. Usava questo espediente per rinserrare il legame che lo stringeva al Cancelliere di turno, per dimostrare come la sua assenza era inversamente proporzionale alla loro potenza. Chi avrebbe avuto il coraggio di fare a meno dell’uomo che possedeva i segreti di quarant’anni di politica tedesca? Chi era così sicuro da allontanare l’infaticabile funzionario che conosceva a menadito tutti i dossier più spinosi? Chi osava esiliare il moderno Tiresia, che dall’ombra opaca della sua cataratta riusciva a lanciare lo sguardo più lungimirante dell’intero impero? Holstein giocava d’azzardo, scommetteva sull’animo umano e sull’essenza del potere. D’altronde il potere non è altro che la sublimazione della dialettica tra ciò che si conosce e ciò che atterrisce, tra il segreto e la verità, tra il visibile e la riflessione. E Holstein all’interno di questi opposti si trovava benissimo. Plenipotenziario della politica estera tedesca, da quando aveva preso l’incarico di Primo Consigliere del Ministero degli Esteri non aveva tuttavia mai varcato i confini dello stato. Assente a qualsiasi evento, ballo o incontro della nobiltà berlinese, ma profondo conoscitore di tutte le virtù e dei vizi degli uomini e delle donne più importanti del secondo Reich. “Sua Eccellenza lo Spettro” lo apostrofavano, sibilando, i nobili tedeschi quando scorgevano il suo passo cadenzato e schivo tra le vie di Berlino; oppure, più sovente, “Eminenza grigia” perché dal buio del suo ufficio al pian terreno del Ministero degli Esteri tesseva le fila del potere di tutta l’Europa. Per ben dieci volte aveva giocato la sua mano migliore, il bluff delle dimissioni, quando sentiva che il Cancelliere del momento si allontanava troppo, e nessuno aveva mai osato vedere le carte, sebbene ognuno a suo modo.
Bismark perché necessitava di un parafulmine su cui scaricare l’odio della nobiltà; perché da buon soldato qual era non masticava il sottile linguaggio strategico di Holstein; il vecchio Hohenlohe, guidato dalla saggezza e dalla stanchezza, premurose consigliere dei suoi settantacinque anni d’età, non avrebbe mai ingaggiato una sfiancante battaglia con un nemico del genere; e, infine, lo stesso Bülow, l’attuale Cancelliere, la creatura politica forgiata da Holstein, era consapevole di come la sua intelligenza avesse bisogno di una fonte viva e accessibile a cui abbeverarsi, e non conosceva sorgente più limpida e fresca di quella che si trovava nel tetro ufficio al pian terreno del Ministero degli Esteri. La Germania di Holstein, invece, era molto potente, ma attaccabile da tutte le direzioni. L’isolamento della Francia si era affievolito e la striscia di mare che separa Calais da Dover non era mai stata così sottile. La nuova alleanza tra Parigi e Mosca, inoltre, infestava gli incubi degli statisti tedeschi. L’Inghilterra era preoccupata dalla corsa agli armamenti navali e dalla crescita vertiginosa della flotta di Kiel e non esitava a emarginare Berlino il più possibile. L’Impero di Guglielmo II incuteva paura: l’esercito più forte del continente, un’industria in perenne ascesa, coraggio e volontà di potenza da vendere lo rendevano un nemico temuto da tutti, ma inevitabile da nessuno. Holstein conosceva le debolezze di questa situazione, ma anche quelle dei suoi avversari. La Russia, reduce dalla sconfitta con il Giappone, non sarebbe stata in grado di schierare velocemente molte truppe in un’eventuale guerra improvvisa. La Francia, sebbene spinta da un revanscismo potente, si sarebbe trovata sola a contrastare i soldati tedeschi, perché anche Londra non era del tutto convinta di imbarcarsi in uno scontro così decisivo. Tutti avevano un motivo per attaccare la Germania, ma nessuno osava farlo per primo. Holstein aveva fiutato il momento ed era pronto a giocare la sua mano. Bisognava rilanciare, mettere i suoi avversari di fronte a una scelta al buio: costringerli a rischiare di vedere le carte, o ad alzarsi dal tavolo e lasciare sul banco tedesco le fiches finora investite.
L’occasione se l’era costruita pian piano. La crisi marocchina dell’anno precedente si era rivelata un capolavoro di audacia e tempismo. La Francia, spalleggiata dall’Inghilterra stava per occupare il Marocco quando il Kaiser, in crociera nel Mediterraneo, aveva allungato la sua traversata fino a Tangeri per far visita al sultano e schierarsi per l’indipendenza dello stato africano. Chi era stato l’artefice di quella trovata? L’Eminenza grigia aveva messo sul tavolo la prima puntata. La paura di una nuova Sedan e la freddezza dell’eventuale supporto di Londra avevano bloccato Parigi, che non senza travaglio all’interno del governo si era vista costretta a passare la mano. Tutto secondo i piani. Ma ora, quando l’avversario aveva appena ceduto una posizione e le sue sicurezze avevano iniziato a vacillare, bisognava rilanciare, ancora più forte, ancora più in alto. Chiamare una conferenza internazionale delle maggiori potenze europee in cui si sarebbe sancita la fine della dicotomia anglo-francese nel nord Africa e l’entrata della grande Germania nello scacchiere mediterraneo. La tanto sognata weltpolitik di Holstein avrebbe raggiunto una dimensione nuova, distruggendo l’isolamento dell’Impero e aprendo nuove prospettive per quel XX secolo appena iniziato e pieno di possibilità. La conferenza era organizzata in un’anonima cittadina spagnola, Algeciras, ma fin dal principio di gennaio del 1906 gli equilibri sembravano essere mutati rispetto alla mano precedente. Nonostante Holstein guidasse la delegazione tedesca – sebbene a distanza dalla sua cabina di regia a Berlino – e avesse imposto un atteggiamento intransigente, Francia e Inghilterra apparivano ferme sulle loro posizioni, e le sponde cercate con Roma e Washington non fruttavano quanto sperato da Berlino. Ma era quello il momento in cui bisognava resistere, in cui era necessario mostrarsi pronti perfino a una guerra. Cedere allora significava perdere il vantaggio che avevano acquisito e condannare la Germania a una politica internazionale irrimediabilmente compromessa. Resistere un altro poco, e sicuramente la Francia avrebbe ceduto, ne era convinto il giocatore Holstein. Il Kaiser e il Cancelliere Bülow, però, non avevano lo stesso sangue freddo, la stessa esperienza dell’animo umano necessaria per giocare partite così delicate. Bastò un’esitazione, la revoca a Holstein della direzione della delegazione tedesca ad Algeciras, e l’intero castello strategico crollò inesorabilmente. Il nuovo compromesso raggiunto prevedeva un’apparente indipendenza del Marocco che celava, in maniera maldestra, la futura presa di potere della Francia.
L’accordo non era ancora firmato, ma ormai si poteva ritenere concluso. Il Cancelliere doveva esporre le ragioni di questa svolta al Parlamento e poi sarebbe stato ufficiale. A Holstein non rimaneva nient’altro da fare che utilizzare l’arma che in tante occasioni l’aveva salvato: rassegnare le dimissioni. Anche questa volta era sicuro che Bülow non le avrebbe accettate, perché, oltre a non poter fare a meno del suo più abile consigliere in un momento così delicato, Holstein era a conoscenza di alcuni dossier segreti che minavano la credibilità morale del Cancelliere con ombre anche sul Kaiser. Al ricatto politico si legava quello personale. E non accettare le dimissioni di Holstein significa tornare al tavolo delle trattative e continuare a giocare al rialzo. Tutto era calcolato. La discussione in Parlamento, che avrebbe evidenziato la contrarietà delle élites tedesche all’accordo raggiunto, sarebbe stata propedeutica al dietrofront sulla politica estera, con il reinserimento di Holstein nella delegazione. L’Eminenza grigia aveva giocato le sue carte, ora doveva solo attendere il dispiegarsi fattuale del suo disegno.
Era una giornata d’aprile del 1906 e i toni all’interno del Reichstag tedesco si accesero fin da subito. Bülow rispose ai violenti attacchi dei parlamentari, colpo su colpo, mostrando le sue indiscutibili doti oratorie frammiste a una passione e un carisma che non gli si vedevano da tempo. Holstein iniziò a preoccuparsi. Da quando, qualche giorno prima, aveva consegnato la lettera delle sue dimissioni il Cancelliere non gli aveva più risposto, instaurando una freddezza innaturale. Ora la vivacità con cui il capo del governo difendeva le sue tesi iniziarono a minare la sicurezza del Primo Consigliere del Ministero degli Esteri. Aveva forse sottovalutato qualche elemento? Gli era sfuggita qualche informazione che avrebbe dipinto la situazione con colori opposti a quelli utilizzati dalla sua analisi? Ecco, l’evento inaspettato, il caso che irrompe nella storia. Bülow nel mezzo di un caloroso intervento collassò al centro dell’emiciclo, stramazzando al suolo. Gli eventi precipitaronocome impazziti. La seduta venne interrotta immediatamente e la discussione sull’accordo troncata senza un esito. Tutte le carte presenti sulla scrivania di Bülow furono immediatamente prese in carico dal segretario di stato Tschirschky, che non esitò a portare la lettera delle dimissioni di Holstein dal Kaiser e a farla firmare. Sua Eccellenza lo Spettro aveva appena perso la sua ultima battaglia, la più importante. Eppure c’era qualcosa che non gli tornava in quello che era successo. Quella sera primaverile del 1906 quando, sconsolato, stava rientrando dopo l’inutile corsa a casa del Cancelliere, si mise a pensare a Bülow. Voci di corridoio dicevano che si era già ripreso e che era stato un malore non preoccupante. Bülow, il politico plasmato con le sue mani, di cui conosceva ogni particolare e segreto, era riuscito a diventare l’attore protagonista della politica tedesca solo grazie alla sua regia. Un sorriso amaro increspò le labbra di Holstein. Bülow, quel giorno, aveva recitato la più grande commedia della sua vita.